A Bayreuth è stato ripreso il discusso Ring di Frank Castorf, presentato nel 2013 per il bicentenario wagneriano. E ha avuto anche quest’anno la sua dose di fischi, ma mescolati ad applausi convinti. Si sa, a Bayreuth è un rito conservatore solo in apparenza: da Wieland Wagner in poi, si cerca sempre di forzare i limiti nelle regie, e non è raro (come nel caso di Chéreau) che registi fischiati al primo spettacolo, siano stati acclamati e venerati anni dopo.

Provocatore nato, enfant terrible proveniente dalla ex DDR, Frank Castorf è un mito nella scena teatrale tedesca, idolatrato dal pubblico berlinese, da vent’anni direttore della Volksbühne di Berlino. Al suo primo vero cimento operistico a Bayreuth, Castorf ha dovuto rinunciare alla sua tecnica teatrale decostruttiva, che mira a smontare gli spettacoli teatrali come puzzle, e a rimontarli come dei collage (gli è stato vietato da contratto), ma è riuscito a creare uno spettacolo comunque discontinuo, volutamente anarchico, giocato su associazioni paratattiche che spiazzavano e attraevano. Uno spettacolo caotico, ma pieno di seduzioni visive, giocato su vari livelli di lettura. Castorf non ha smontato la partitura o il testo wagneriano, ma ha cancellato sistematicamente la dimensione epica e sacrale e anche il pathos del racconto, cercando i risvolti più caustici, grotteschi nei personaggi, ma svelandone, stranamente, anche la profonda umanità. La parabola della vicenda degli Dei diventava una metafora della morte delle ideologie (tema caro a Castorf) e anche una riflessione (molto berlinese) sul dilemma profondo della società tedesca tra l’ideale e il reale. Tutta la regia ruotava intorno a un concetto chiave: il moderno oro, che attrae le brame e le maledizioni, è quello nero, è il petrolio, sono le fonti di energia del pianeta, che sono anche le fonti della ricchezza, del potare, oltre che delle guerre e delle distruzioni. Le quattro opere erano piene di riferimenti (e filmati) legati alla storia del petrolio, al conflitto tra comunismo e capitalismo, al mondo del cinema. Ma tutto procedeva con assoluta mancanza di chiarezza, di collegamenti logici, a volte anche con “errori” registici (ad esempio i cantanti “impallati” da altri personaggi, dagli schermi o dai sovrabbondanti oggetti di scena), appunto come un collage surrealista, che alla fine tuttavia generava variegate emozioni e continue sorprese.
Castorf ha lavorato col suo team collaudato (e in sintonia con la sua idea di teatro): i video erano di Andreas Deinert e Jens Crull, i costumi di Adriana Braga Peretzki, le luci di Rainer Casper, le scene del serbo Aleksandar Denić, concepite come un blocco unico per ogni opera, una struttura monumentale collocata sul palcoscenico girevole. Nel Rheingold era una stazione di servizio, un motel della Route 66 degli Stati Uniti (la highway che collega Chicago a Los Angeles), con una piccola piscina sul retro (dal cui fondo Alberich rubava l’oro); Die Walküre ambientata nei campi petroliferi del mar Caspio nel periodo della sovietizzazione dell’Azerbaigian, con un’enorme isba di legno che si trasformava in un deposito chimico e alla fine mostrava nel suo ventre una gigantesca trivella per petrolio; nel Siegfried la scena mostrava su un lato il Mount Rushmore rivisitato (con le effigi dei padri del comunismo, Marx, Lenin, Stalin e Mao, al posto dei presidenti americani), sull’altro la stazione berlinese di Alexanderplatz in puro stile DDR; nella  Götterdämmerung si alternavano la monumentale facciata della Borsa di Wall Street, un’industria chimica della Germania dell’Est e un piccolo chiosco di kebab. Erano scene sempre piene di scale e terrazzi, che permettevano ai personaggi di muoversi nello spazio scenico anche dal basso verso l’alto, e dotate di spazi interni (ad esempio la camera da letto e il bar nel Rheingold, l’ufficio postale nel Siegfried, una vecchia roulotte, presente in tutte le opere), spesso angusti, che entravano a fare parte integrante della spazio della rappresentazione, perché filmati e proiettati su vari schermi. Il sistematico uso delle telecamere in scena permetteva anche frequenti primi piani dei cantanti e consentiva di mescolare immagini live con scene girate in precedenza, e con spezzoni di vecchi film, complicando molto il gioco di simboli e di rimandi.
I personaggi di questo Ring erano assai diversi da quelli immaginati da Wagner: il Golden Motel del Rheingold era popolato da figure equivoche, gangster, sfruttatori, cowboy (gli dei), rudi meccanici (i giganti), lolite bionde e supersexy (le figlie del Reno), una specie di detective tipo Kojak (Loge); molte delle valchirie apparivano come delle aggressive dark lady, Fafner non si trasformava in drago ma in un pusher, Erda entrava in scena come una formosa prostituta, le Norne, vestite con i colori della bandiera tedesca e ricoperte di sacchi di spazzatura, si intrattenevano in una specie di reliquiario voodoo, i Ghibicunghi gestivano un mercato ortofrutticolo e un chiosco di kebab. La regia spiazzante, movimentata, era anche piena di folli colpi di scena (dalla metropolitana di Alexanderplatz usciva una famiglia di coccodrilli), di riferimenti al mondo sovietico e della DDR, di violenza (i giganti distruggevano i vetri del bar a colpi di spranga, Hunding tornava a casa con una testa appena decapitata, infilata sulla punta della sua lancia, Siegfried faceva secco Fafner con una raffica di mitra – l’arma che sostituiva Notung -, Hagen uccideva Siegfried a bastonate), e di sesso (Wotan copulava praticamente con tutte le donne, compresa Erda, Siegried con l’uccello del bosco, che sembrava una ballerina uscita da uno spettacolo di varietà), ed era punteggiata dagli interventi comici, surreali di un attore muto, che faceva il barista, l’uomo delle pulizie, l’infermiere, il benzinaio, il cameriere, sostituiva anche l’orso catturato da Siegfried, veniva maltrattato da tutti, e costretto a sniffare della farina come fosse cocaina.
Kirill Petrenko, direttore alla Staatsoper di Monaco, già ammirato nel Rheingol al Parco della Musica di Roma, è stato osannato dal pubblico di Bayreuth. La sua direzione riusciva a seguire la “melodia infinita” come un sismografo, trasformava l’orchestra in una sostanza musicale “parlante”, capace di sottolineare con espressività ogni frase, anche nei pianissimo estremi, di coglierne il divenire anche nei momenti più frammentati. Dipanando con chiarezza l’ordito dei Leitmotiv, sembrava dare voce ai pensieri dei personaggi, soprattutto durante i lunghi monologhi. Era una lettura misurata e riflessiva, ma carica di energia, molto sinfonica, capace di giocare con finezza sulle dinamiche per ottenere il massimo della tensione e della  temperatura drammatica senza esplosioni roboanti.
Eccellente il cast vocale, come sempre a Bayreuth. Wolfgang Koch si imponeva con autorevolezza nei panni di Wotan, per la vivida declamazione, l’ampio fraseggio, e vere doti da attore, Albert Dohmen era un Alberich di grande esperienza e voce solidissima, Claudia Mahnke, nei panni di Fricka (ma anche di Waltraute e della seconda Norna), sfoggiava un bel timbro da mezzosoprano, anche se non un vero piglio drammatico. Magnifica la prova di Johan Botha e Anja Kampe, Siegmund e Sieglinde, per sostanza vocale, pathos e istinto teatrale. Stefan Vinke era un Siegfried giovanile, pieno di energia, sempre attento alla parola cantata; molto incisiva anche l’emissione di Catherine Foster nei panni di Brünnhilde, anche se più ricca di accenti lirici che drammatici. Allison Oakes interpretava una spaesata Freia e una simpatica, pazzerella Gutrune. Notevoli anche le tre Rheintöchter, Anna Lapkovskaja (Flosshilde), Julia Rutigliano (Wellgunde) e Mirella Hagen (Woglinde), quest’ultima ammirata anche nelle impegnativi arabeschi del Waldvogel.

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