Italia condannata a pagare la rivalutazione dell’indennità percepita per la contaminazione attraverso trasfusioni di sangue o somministrazione di emoderivati infetti. Sei mesi dalla sentenza definitiva entro i quali lo Stato italiano deve provvedere ad attuare la decisione. Il timer è già partito: nei prossimi tre mesi, se lo riterrà opportuno, l’Italia dovrà chiedere una revisione della sentenza emessa da Strasburgo o attivarsi per eseguire la pronuncia.

La Corte dei diritti dell’Uomo sembra chiudere il cerchio su una questione che si trascina da un decennio e che tante parole ha fatto scrivere senza che diventassero fatti. La condanna di Strasburgo, infatti, riconosce il diritto dei 162 ricorrenti, di cui sette non più in vita, a vedersi riconosciuta la quota variabile dell’indennità stabilita dalla legge n. 210/1992 con la rivalutazione annuale in base alle variazioni dell’inflazione. Il problema è però la reale possibilità di applicazione della sentenza che, in quanto arresto “pilota” vale anche per coloro che non hanno fatto ricorso alla Corte europea ma percepiscono un indennizzo ai sensi della medesima norma di legge. Senza contare che il conteggio di massima operato sull’incremento medio della somma attualmente corrisposta bimestralmente sarebbe di circa 200 euro cadauno, al netto degli arretrati; che sarebbe necessario far ripartire la macchina burocratica per permettere l’erogazione delle somme; che lo Stato italiano ha approvato una legge ad hoc proprio per evitare che la spesa in indennizzi crescesse.

La falla fatale – Il granello di sabbia nell’ingranaggio questa volta c’entra poco se Strasburgo scrive in sentenza che si tratta di un «problema strutturale» e che le azioni necessarie per rimediare sono «particolari».
A dire il vero, la ricostruzione degli interventi normativi e giurisprudenziali in materia restituisce con chiarezza il nocciolo attorno al quale il problema si è andato via via ingigantendo. I ricorrenti, infatti, sono persone contagiate tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’90 da Hiv, epatite B ed epatite C, alcuni in seguito a trasfusioni da sangue infetto che hanno aggiunto una patologia alla emofilia che stavano curando o in relazione all’uso di sangue o emoderivati infetti utilizzati per i motivi più disparati, tra cui in buona misura per le vaccinazioni obbligatorie. A queste persone la legge del 1992 riconosce un indennizzo composto da una parte fissa e da una variabile, preponderante rispetto alla prima, che al momento parte da 540 euro al mese, utile a sostenere la spesa in accertamenti e farmaci che patologie come quelle contratte comportano.
La rivalutazione annuale a un certo punto si blocca e inizia la trafila giudiziaria che porta a due sentenze in Cassazione, contrastanti tra loro (si tratta della sentenza n. 15894/2005 e n. 2170/2009), e alla pronuncia n. 293/2011 della Consulta, emessa dopo l’approvazione del Dl 78/2010, di cui si dichiara incostituzionale l’articolo 11.
Il vulnus attorno al quale la Cedu si sofferma in numerosissimi punti della sua pronuncia è proprio il Dl 78 che per Strasburgo ha l’unico scopo di salvaguardare gli interessi finanziari dello Stato. Stato che interviene su una materia nella quale è parte in causa per cambiare i parametri di giudizio, saltando a piè pari la valutazione tra interessi pubblici da difendere e interessi privati degni di protezione e contravvenendo al diritto dei ricorrenti a un processo equo sancito dall’articolo 6 della Convenzione dei diritti dell’Uomo.
Anche il principio di sussidiarietà, lamenta la Corte, è stato disconosciuto visto che sono stati portati avanti due procedimenti paralleli: uno davanti alla Corte costituzionale italiana, l’altro a Strasburgo.
L’approvazione del decreto legge da parte del Legislatore, in sintesi, ha bloccato l’erogazione degli indennizzi retroattivamente a chi era in possesso di sentenza passata in giudicato, ha favorito lo Stato nei processi pendenti, intervenendo direttamente sulle prospettive di vittoria dei ricorrenti attraverso un elemento esterno al processo, ha reso inefficaci tutti i procedimenti che potevano essere avviati.

Conti in tasca – Il giusto equilibrio tra l’interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo in questa vicenda si è perso in nome del pareggio del bilancio; in barba alla genesi del problema, legato in gran parte alla necessità di tutela della salute pubblica attraverso ampie campagne di vaccinazione obbligatorie che implicano la partecipazione collettiva alle difficoltà nelle quali si è trovato il singolo che abbia cooperato a perseguire un tale interesse collettivo.
Ne risulta un corto circuito, con l’Europa che chiede di corrispondere cifre che l’Italia non aveva messo a bilancio nel 2010 e ora probabilmente non si saprebbe dove trovare, persone con gravi malattie da fronteggiare, il peso di troppe pagine di giurisprudenza. Quel che fa più male è il pensiero di uno Stato che, chiamato in causa, vuole essere diverso davanti alla legge, modificando le “regole del gioco”. È una prassi che non porta nessun beneficio e mina l’autorevolezza stessa del Paese.
Corte europea dei diritti dell’Uomo, sentenza 3 settembre 2013 n. 5376 – 11

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