All’origine dell’uccisione dell’ambasciatore americano e tre funzionari statunitensi a Bengasi c’è dunque un film: “The innocence of Muslims”. Talmente brutto che fa ridere.
L’episodio, che ha fatto esplodere tutte le contraddizioni dei rapporti tra “occidente” e Islam, al centro dei quali campeggiano Iran e Israele, e tra le serpi che si coltiva in seno l’America che puntualmente la mordono a morte (sono stati i salafiti libici da lei stessa armati a uccidere), fa emergere anche due aspetti che non devono restare marginali. Il primo è che eventi di dimensioni planetarie sono scatenati da questioni legate ai simboli, alla rappresentazione, e ancora una volta alla comunicazione, pertanto facili da realizzare e da manovrare. Inoltre, i risultati di queste manipolazioni coincidono con la politica e con decisioni spesso capitali.

Il secondo aspetto deve essere la ricerca di una strada da percorrere per impedire che la comunicazione e l’industria culturale manipolate diventino così pericolosamente protagoniste degli scontri tra Occidente e Islam. In questo ambito la società civile, cui ormai è delegata la politica culturale visto il disinvestimento progressivo dei governi, può fare ancore molto per creare delle sacche di “ resistenza” costruttive.

Così, un autore oscuro, speravamo fosse davvero tal   Sem Bacile (non fosse per l’insulto che questo nome evoca, almeno ai romani), ha messo in piedi, in poco tempo, un’arma rudimentale. Chiunque dunque può mettere on line un film e far scoppiare una guerra? Wall Street Journal dice che il presunto autore avrebbe fatto anche una dichiarazione contro l’ Islam come “cancro” da estirpare. Dicono che il film sia costato due milioni di euro, ma forse non è nemmeno così. Quanto ci sia di vero e di falso nelle notizie sulla produzione di questo filmaccio ha importanza per la cronaca. Di sicuro l’autore non è una persona onesta, come testimonia la stessa attrice del film che dice di essere stata imbrogliata, e neppure molto intelligente. Però ciò che va monitorato è quanto verrà assunto come vero perché quella diventerà la trama della prossima storia dei rapporti tra occidente e la fratellanza musulmana salita in vetta – democraticamente eletta – dopo le rivoluzioni arabe. E, altro paradosso, grazie all’aiuto del Qatar e dell’Arabia Saudita, appoggiati dalla stessa America. Con il comune denominatore quindi dei petrodollari.
Resta il fatto che grazie all’arma di “The Innocence of Muslims” si sta dettando l’agenda della comunicazione e quindi della politica delle prossime elezioni americane.

E’ noto che la rappresentazione del Profeta fa reagire il mondo islamico tutto, soprattutto i gruppuscoli di estremisti, come sta accadendo in queste ore. E’ quasi un gioco da ragazzi sollecitare uno scontro al quale far seguire un’eventuale repressione e una reazione di sdegno dell’opinione pubblica dei due “poli” culturali, oriente e occidente, da manipolare ancora una volta. L’artefice e responsabile dunque, dal Mossad ai copti egziani, passando per lo stesso Iran (tutto da scoprire), è   chi ha fatto circolare il film e se n’è servito per sollecitare la tragedia, oltre chi, ovviamente, ha effettivamente ucciso e vuole continuare a farlo in queste ore.

La strage di Tolosa di alcuni mesi fa, ad esempio, è stata però ben manipolata, e se non ha fatto vincere la destra francese, ha aperto autostrade a Marine Le Pen per le elezioni del 2017.

Anche la rivista satirica Charlie Hebdo aveva fatto il suo “endorsement” anti Islam, alle soglie della campagna elettorale francese tendendo il trappolone all’opinione pubblica e ai media: nel novembre scorso aveva provveduto a pubblicare in prima pagina una vignetta che rappresentava il profeta. “Charia Hebdo” parafrasava un disegno con barbuto in copertina “ cento frustate a chi non muore di risate”. Una bomba nella redazione parigina della rivista fu la reazione immediata. Questa scatenò in mezzo mondo un dibattito sulla libertà e sottolineò nuovamente il concetto che i musulmani sono pertanto da isolare. Il che è ovviamente vero nel caso dei responsabili dell’attentato. Distinzione tuttavia troppo sottile per la comunicazione di massa.

Rimanendo in casa nostra, basti pensare alla provocazione dell’ex ministro leghista Calderoli con la sua maglietta con il profeta mostrata come un maniaco al parco mostra il sesso, davanti alle telecamere di un telegiornale nazionale. L’idiozia del gesto, paragonabile a quello del film attuale, provocò la morte a Bengasi di una decina di persone. Poi le esternazioni di Giorgio Borghezio che gridò che, sulla spianata dove era prevista la costruzione una moschea: “ci faccio pisciare i porci” , e Daniela Santanché che in piena preghiera a Milano, durante il Ramadan, andò a strappare il velo a una donna in nome della libertà delle musulmane. Il gesto furbo le costò un ceffone ma una grandissima pubblicità sulla stampa e sulle reti Mediaset dove passava da vittima dei musulmani, al punto che si sentì legittimata a dire che: “Maometto era un pedofilo”, in un programma di Pomeriggio Cinque, sulla rete ammiraglia Mediaset. Qui, era stato invitato a bella posta un musulmano integralista proprio per sollecitarne la reazione violenta. Animava il dibattito, che avrebbe potuto scatenare qualsiasi reazione, la conduttrice Barbara D’Urso, esperta in gossip, chirurgia plastica di tette e Grande Fratello.

Il secondo aspetto che sta emergendo concerne una possibile strada per   neutralizzare “le bombe” offerte dall’industria culturale. Tuttavia questa operazione di disinnesco non possiamo farla noi occidentali. Non possiamo più appellarci alla libertà di espressione perché abbiamo manipolato sempre e solo a nostro vantaggio questa libertà che neppure ci appartiene più peraltro.

Una delle scappatoie non violente però, che deve essere raccolta soprattutto dalla società civile occidentale e reimmessa nel dibattito pubblico, resterebbe quella di non isolare e aiutare in ogni modo le voci di artisti e intellettuali del mondo arabo che riescono a governare e risignificare in modo critico la questione della religione e della rappresentazione, che resistono alle derive dell’ islamizzazione e soprattutto dell’influenza di questa nella costruzione della democrazia. Sono voci libere e un baluardo prezioso che non va mai spento, anche perché quanto più si islamizzano questi paesi tanto più si alzano con facilità barriere “ religiose” in casa nostra che finiscono per inquinare le nostre democrazie.

Nel giugno scorso nella periferia nord di Tunisi una mostra “Printemps des arts” esponeva le creazioni di ventisette artisti tunisini che hanno declinato in vario modo l’Islam nelle sue derive oppressive. In quell’occasione è stata usata l’arte come elemento di rottura con un presente politico del paese in cui si sta vanificando il risultato della rivoluzione dei Gelsomini. Per cui barbe e simboli più o meno espressi di costrizioni femminili sono stati temi preponderanti. Questo ha generato una reazione quasi immediata: ha iniziato un gruppetto di salafiti che hanno rotto, distrutto e saccheggiato le opere, per poi dilagare in tutto il paese, facendo esplodere tutte le contraddizioni di povertà, di radicalismo e di ignoranza. Il risultato assurdo è stato che sono stati gli artisti a essere perseguitati e non chi ha causato i disordini. E in quel caso il tanto criticato ministro della cultura Mehdi Mabrouk ha condannato la mostra additandola come una provocazione (esattamente come si sta facendo ora con il film “The Innocence of Muslims”) e additate le opere come di scarso valore “perché l’arte deve essere bella e non rivoluzionaria”. Che è esattamente quanto stiamo rimproverando al film: è brutto e blasfemo.
Forse allora si deve dire: è brutto e blasfemo tutto ciò che viene strumentalizzato non a favore della libertà ma per appropriarsene e manipolarla.

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