Nel 2001 Thomson Multimedia acquisisce la storica e solida Technicolor Motion Picture Corporation; dieci anni dopo la società, che per più di cinquant’anni era stata tra i punti di riferimento indiscussi dell’industria audiovisiva, sta per essere smantellata. E se la holding francese punta il dito contro l’avvento del digitale, che avrebbe reso obosoleti i laboratori Technicolor,  i lavoratori invece chiamano in causa i tagli alle divisioni Ricerca&Sviluppo.

Cantando sotto la pioggia, Il mago di Oz, Via col vento, Fantasia: sono solo alcuni tra i primi successi del brevetto Technicolor, che permise l’impiego su larga scala del colore; prima di allora infatti la pellicola veniva dipinta a mano, una procedura laboriosa, dai risultati facilmente deperibili. Dal 1945 al 1951, il Technicolor venne considerato il metodo migliore per produrre positivi da proiezione con colori brillanti e resistenti; finì poi per subire la concorrenza della pellicola a colori Kodak: gli ultimi film stampati con il suo procedimento furono Il padrino-parte II (1974) e Suspiria (1977). Ancora nel 1997, però, la società aveva elaborato un nuovo brevetto, per il restauro di alcuni capolavori (come La finestra sul cortile e lo stesso Mago di Oz), ma che era stato utilizzato anche per film appena realizzati, come Ogni maledetta domenica e Pearl Harbor. Così, nel 2001 la Technicolor Motion Picture Corporation passa sotto la proprietà di una società francese, la Thomson Multimedia, specializzata nella produzione di sistemi video e immagine digitale, il cui successo tecnologico più grande fu negli anni Novanta con il lancio della televisione digitale. Un’azienda molto radicata nel settore, che nel 2011 ha voluto prendere il nome della sua controllata ma non la sua eredità: dall’acquisizione ad oggi, la Technicolor ha perso sempre più fondi e dipendenti, fino alla sua dissoluzione completa.


Dalla post produzione alla distribuzione dei dvd

Eppure la Technicolor non è soltanto un pezzo da Museo della storia del cinema; nel 2001 era considerata, una società leader nel settore della post produzione video e audio, nonché il più grande produttore e distributore indipendente di dvd, cd e vhs. Il consiglio di amministrazione aveva infatti saggiamente spostato il core business dell’azienda dai laboratori per lo sviluppo e la stampa della pellicola all’elaborazione di nuovi supporti digitali. Sempre prima dell’acquisizione aveva stipulato un accordo di join venture con l’americana Qualcomm, oggi leader incontrastata nella produzione di chip, ma che allora si era avvicinata al nuovo mercato del digital cinema. Com’è possibile allora che oggi gli stabilimenti europei della Technicolor stiano per chiudere i battenti? All’inizio del 2012 i dipendenti francesi, spagnoli e inglesi si erano mobilitati contro i licenziamenti e il passaggio delle commesse alla De Luxe, multinazionale statunitense concorrente della Technicolor. Adesso è il turno dei lavoratori italiani. Martedì 26 novembre è stato comunicato ai 104 dipendenti, quelli superstiti dai tagli degli ultimi due anni, che avevano ridotto della metà il personale, che la filiale italiana verrà messa in liquidazione. L’aspetto paradossale di questa decisione è che la società controllante ha deciso lo smantellamento degli stabilimenti nonostante fossero in corso le trattative per nuovi contratti, nonché la post-produzione di alcuni film.


La politica spregiudicata dei francesi

Ma la Thomson Multimedia sembra essere avvezza a questi atteggiamenti pirateschi. Sempre all’inizio del 2012, infatti, il cinema francese era stato messo in difficoltà dalla messa in liquidazione della  Quinta Industries, una delle più importanti società di post-produzione francese, soprattutto nello sviluppo delle tecnologie 3D: rischiava di saltare l’uscita di una sessantina di film, alcuni dei quali tra i più attesi dell’anno, come Asterix e Obelix al servizio di sua maestà. Un disagio facilmente evitabile: la Thomson Multimedia infatti era già proprietaria per un 17% della Quinta Industries e dal 2006 era stata invitata anche dalle istituzioni a rilevare la quota maggioritaria per salvare la compagnia. Acquisizione che è comunque avvenuta quando ormai la società era fallita, approfittando di un prezzo decisamente più vantaggioso.


Gli stabilimenti italiani

La notizia della chiusura degli storici stabilimenti di Roma, nati nel 1957 in via Tiburtina e via Urbana, non ha avuto particolare risonanza sui giornali italiani, a differenza di quanto è accaduto in Francia. Senza contare l’importanza di un avvenimento del genere  all’interno del panorama di generale declino dell’industria cinematografica italiana; e se questo argomento in effetti non desta l’attenzione di tutti (mai che nei servizi televisivi vengano ricordate tra le altre le cifre della disoccupazione nel settore dello spettacolo), molto sarebbe almeno da dire sulle prospettive occupazionali dei cittadini della regione Lazio. Gli stabilimenti capitolini della Technicolor non sono stati i soli a chiudere in questi ultimi due anni: dopo 7 anni di sofferenze, l’anno scorso ha definitivamente dichiarato fallimento la Videocon, azienda di Anagni produttrice di schermi per televisioni. 1300 lavoratori disoccupati e senza prospettive di riallocazione. Alla Fiat di Cassino si produce solo per al 50% della capacità dello stabilimento e gli operai vanno in cassa integrazione a rotazione. A Latina e a Pomezia sono stati chiusi e venduti gli stabilimenti di due importanti società farmaceutiche (Pfizer e Sigma Tau). Nel distretto della ceramica di Civita Castellana sono sopravvisute alla crisi solo due delle trenta aziende produttrici di stoviglie e piastrelle (1800 posti di lavoro persi in quattro anni). Mercedes Benz ha deciso di chiudere la sede di Civitavecchia e di licenziare quasi 200 dei 550 dipendenti della filiale di Roma. La vicenda Technicolor, dunque, dovrebbe riscuotere tutto l’interesse delle istituzioni, come parte integrante di un problema più vasto, senza nulla togliere all’urgenza di una riflessione sulla crisi dell’industria cinematografica, affidata sempre più a multinazionali private che gestiscono troppe società diverse, dagli scopi spesso stridenti tra loro, a scapito delle eccellenze tecniche e artistiche di cui invece il cinema ha bisogno per sopravvivere.

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