Il tentativo è di frenare il tragico aumento di fallimenti e di incentivare la attività imprenditoriali. Così il Decreto Sviluppo, che contiene “le misure urgenti” del governo “per la crescita del Paese”, ammette il concordato preventivo anche alle imprese con capitale “azzerato”, consentendo loro di congelare i debiti. Secondo alcuni studiosi, le nuove disposizioni potrebbero generare più problemi che effettive soluzioni e rivelarsi svantaggiose per il sistema economico e giuridico del Paese. Con l’approvazione del testo viene infatti annullato il Codice Civile che prevede invece la messa in liquidazione delle società in crisi.

 

Mercoledì 4 luglio è iniziato alla Camera dei Deputati l’iter di conversione del Decreto Sviluppo, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 26 giugno scorso, che riforma vari ambiti dell’economia nazionale introducendo una nuova regolamentazione di alcuni strumenti finanziari, l’accelerazione dei processi civili e il riordino degli incentivi all’attività d’impresa. Novità rilevanti sono le norme che regolano l’ambito di applicazione del concordato preventivo. Si tratta di una procedura concorsuale, attraverso la quale l’impresa in crisi cerca di pervenire ad un accordo con i suoi creditori per superare il momento di difficoltà o liquidare l’attività stessa. Nel corso dell’iter, ogni atto di amministrazione, sia esso riferito o meno agli obblighi concordatari, si svolge sotto la stretta vigilanza del commissario giudiziale nominato da un giudice. Il Decreto ha introdotto nuove regole in merito all’accesso alla procedura: l’imprenditore può depositare il ricorso contenente la mera domanda di ammissione, riservandosi di «presentare la proposta, il piano e la documentazione» necessaria entro un termine che viene deciso dal giudice (compreso comunque fra i 60 e 120 giorni). Il professionista indipendente che dovrà attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano è designato dallo stesso debitore. Dal momento in cui il ricorso è iscritto sul registro delle imprese, i creditori non possono né iniziare né proseguire azioni legali sul patrimonio dell’impresa. Con le nuove disposizioni, l’ammissione al concordato preventivo non impedisce la partecipazione a procedure di assegnazione di contratti pubblici né la continuazione di questi, qualora il professionista designato abbia attestato la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento. Scopo del Decreto dunque è di incentivare alla prosecuzione della attività d’impresa, vista l’ampia ripercussione che questa ha sull’occupazione. In questo senso il Decreto ha ammesso al concordato preventivo anche le imprese con capitale sociale ridotto al di sotto del minimo legale (stabilito dall’art. 2327 codice civile) per perdite. Tale agevolazione però va di fatto a vanificare gli articoli 2446-2448 del Codice Civile, vere e proprie norme di presidio al sistema economico, che individuano invece proprio nella riduzione di capitale sociale una causa di scioglimento della impresa. Dalla data di deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo, i tre articoli cruciali Codice Civile si considerano invece “non applicabili”. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Santoni, ordinario di Diritto Bancario ed Industriale alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tor Vergata.

 

 

Professor Santoni, le procedure concorsuali hanno lunga storia e sono state spesso rivisitate dal legislatore. L’ultima riforma è datata solo 2007…
Le procedure concorsuali di risanamento hanno origine remota poiché già il Codice di commercio del 1882 prevedeva forme di blocco dei pagamenti dei debiti delle imprese in crisi. Il concordato preventivo, già riformato nel 1942, è sopravvissuto alla riforma del 2005-2007, che invece ha eliminato la procedura di amministrazione controllata. Questa consentiva all’imprenditore in difficoltà economiche di continuare la propria attività sotto il controllo del giudice e del commissario giudiziale, ma aveva dato luogo a molteplici abusi. D’altro canto, risanare un’impresa in crisi è un compito arduo; perciò la riforma del 2007 si è sforzata innanzitutto di accelerare i tempi delle procedure, agevolando i trasferimenti in blocco dei beni aziendali, nel tentativo di tamponare la dispersione di valore che inevitabilmente provoca la liquidazione di un’impresa. Beni di altissimo valore restavano congelati anche per anni in quella che è stata definita, metaforicamente, la “mano morta” fallimentare.

 

Perché questa esigenza di intervenire nuovamente, a così poca distanza?
Naturalmente si cercano risposte alla crisi economica e finanziaria. Solo nel primo trimestre del 2012 si sono verificati 3000 casi di fallimenti [dati Osservatorio Cerved] con disastrose ripercussioni sul mercato del lavoro. Il concordato è uno strumento particolare, data la sua doppia anima: da una parte, come in passato l’amministrazione controllata, può essere finalizzato al risanamento dell’impresa; dall’altra, può servire anche una finalità liquidativa, ed anzi, nella maggior parte dei casi si verifica proprio la cessazione dell’attività di impresa. Stavolta il legislatore ha voluto incentivare al massimo la finalità di risanamento, quindi di prosecuzione dell’attività e il mantenimento dell’occupazione, aprendo però alle società con il capitale ridotto al di sotto del minimo legale e scavalcando così di fatto il Codice Civile, che invece ne imponeva lo scioglimento. Restano congelate anche le disposizioni sugli obblighi posti in capo agli amministratori e ai soci in caso di riduzione del capitale di 1/3 per perdite [rispettivamente, di convocare l’assemblea e di ripristinare o “azzerare” il capitale sociale]. Una misura alquanto discutibile, che va anche contro le direttive comunitarie in materia di salvaguardia del capitale sociale.

 

Se il capitale sociale è al di sotto del suo livello minimo, ciò significa che l’impresa ha subito perdite tali da non fornire più alcuna garanzia per i debiti contratti. Un’impresa del genere difficilmente può essere risanata…
Sì, ma si pone anche un problema di responsabilità eccessiva per gli amministratori, i quali restano responsabili di tutti gli atti di gestione, nonostante le perdite che hanno inciso sul capitale. In linea generale, penso che converrebbe loro portare i documenti in tribunale per il fallimento, piuttosto che continuare le attività in queste condizioni. Questo genere di interventi costituisce un lascito pericoloso: sono norme concepite per lenire un momento di crisi profondissima ma creeranno non pochi problemi in futuro. Manca un disegno strategico, si continuano a modificare singoli articoli, spesso anche ripetutamente, invece che ripensare tutto il sistema in un modo unitario. Alla fine ciò che si rischia è la disgregazione dell’ordinamento, il venir meno del concetto stesso di Codice Civile, che risponde alla fondamentale esigenza di certezza del diritto. La proliferazione eccessiva porta all’ignoranza della legge che, per quanto pur sempre ingiustificata, diventa inevitabile se le norme cambiano tre volte in tre mesi, come è avvenuto nel caso delle s.r.l. o del collegio sindacale.

 

Come si è giunti a questo punto? Dove si inceppa il meccanismo legislativo?
Un forte stimolo alla creazione di norme dettagliate ci viene dall’Unione Europea, che è un legislatore insaziabile. L’origine di questo fenomeno, a mio avviso, è da ricercarsi nella giuridicizzazione delle norme tecniche: assumere a livello primario questo tipo di norme assicura una forza d’imperio maggiore, ma di contro rende rigido e inutilmente complesso l’ordinamento. Alla fine si giunge al paradosso che la norma di legge non può essere attuata perché è troppo dettagliata. Un problema particolarmente grave in Paesi come il nostro, dove la burocrazia si rivela spesso incapace di assicurare l’applicazione delle norme di legge.

 

Lei prima faceva cenno alla necessità di riforme sistematiche, organiche. In questo senso, qual è secondo lei la direzione da intraprendere per uscire dalla crisi?
Penso che la soluzione alla crisi sia sotto gli occhi di tutti, ed è la realizzazione di un’unione politica europea. Nel mercato globale sono essenzialmente tre i modelli economici che oggi sono in competizione diretta: il modello nord-americano, incentrato sulla libertà individuale e sul profitto, anche a costo di forti disuguaglianze sociali; il modello europeo dello Stato sociale, di cui in questo momento la più significativa espressione è la Germania, e il modello cinese, che resta un unicum nel panorama contemporaneo, ma anche storico. Si tratta, anche se occorrerà valutarne la successiva evoluzione, del primo tentativo riuscito di crasi tra dittatura, peraltro dichiaratamente di stampo comunista, e capitalismo. È un mondo particolare, quello cinese, dove a venticinque anni si è considerati troppo vecchi per accedere a gradini superiori della scala sociale: la differenza con l’Italia è evidente. Da noi, è opinione comune che a quarant’anni si sia “giovani”… questa mentalità priva il Paese delle sue forze maggiori e più innovative. Ad ogni modo, io credo che il modello europeo, laddove si è meglio realizzato, costituisca un punto di riferimento per la costruzione di equilibrio sociale basato sulla diffusione del benessere. Questo è legato indiscutibilmente con quello straordinario progetto politico ed economico che è l’Unione Europea e che adesso sta incontrando numerose difficoltà, legate soprattutto alla residua persistenza degli Stati nazionali. Per uscire da questa empasse politica ed economica non ci rimane che perseguire l’obiettivo di una Nazione Europea.

Decreto_Sviluppo_gazzetta n. 83 del 22 giugno 2012

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