Nell’Italia della recessione e della crisi economica, della disoccupazione e delle imprese che falliscono, sfogliare un giornale o accendere la tv equivale, oramai, ad aggiornare ad un bollettino di guerra: i suicidi per cause economiche sembrano ogni giorno più numerosi. Una continua e inarrestabile scia di disperazione che unisce il Paese da nord a sud.

Gli ultimi casi in ordine di tempo: un imprenditore in Veneto e uno nel Sannio, due giorni fa, entrambi si sarebbero tolti la vita strangolati dai debiti, almeno stando a quanto ci hanno raccontato i media. Ma c’è davvero un boom dei suicidi in Italia, causato dalla crisi economica? Se si guardano i dati oggettivi la risposta è no, non c’è un aumento dei suicidi in Italia e non c’è una correlazione statistica fra i suicidi e la crisi economica.

Distinguere le impressioni dai fatti
È ovvio che la mancanza di lavoro e le forti difficoltà economiche che famiglie e imprese stanno affrontando possono causare disperazione e gesti estremi. Tuttavia i numeri parlano chiaro: nel 2012, almeno fino ad oggi, i suicidi non sono aumentati rispetto agli anni precedenti, e sono ben lontani dal picco raggiunto nei primi anni 90′. Sicuramente una fredda statistica non può bastare a comprendere e spiegare la complessità di una scelta così drammatica come quella di togliersi la vita. È altrettanto vero però che un tema così delicato non può essere considerato solo alla luce dell’onda emotiva suscitata da una campagna mediatica, fomentata da una certa politica, che sta dando luogo a molte forzature. Di Pietro ha accusato Monti di avere sulla coscienza le recenti morti per motivi economici e il segretario dell’Associazione artigiani piccole imprese (Cgia) di Mestre, Giuseppe Bortolussi (che è comunque un politico), si è appellato al presidente Giorgio Napolitano. Accuse, affermazioni e parole molto forti, non suffragate da nessun dato scientifico.

I suicidi non sono in aumento
Secondo l’Istat infatti, i casi di suicidio in Italia sono in media circa tremila all’anno con punte di quasi quattromila nei primi anni Novanta. Non tutti i casi però sono da attribuire a ragioni economiche: paradossalmente il fattore economico è quello che sembra incidere di meno nella decisione di farla finita. Secondo la classificazione dei moventi fatta dalle forze dell’ordine, il numero più alto di suicidi in Italia si registra per cause legate a malattie spesso di origine psichica (1.412). Il secondo fattore che inciderebbe di più sulla decisione di togliersi la vita è quello sentimentale. Se si guardano i dati raccolti dall’Istat, nel 2010 ci sono stati 3.048 suicidi, di cui 187 per motivi economici, 1.412 per una malattia e 324 per motivi affettivi. I dati disponibili per gli ultimi 10 anni (2001-2010) ci indicano che i suicidi avvenuti (e quelli tentati) sono rimasti più o meno costanti nel tempo. Nel 2008 e 2009, in piena crisi economica il numero totale di suicidi è inferiore a quello di anni economicamente più floridi come il 2003 e 2004. Tuttavia nel 2008 e 2009 sono considerevolmente aumentati i suicidi legati a motivazioni economiche.

Per adesso non ci sono dati definitivi per il 2012, tuttavia, ad oggi, il dato dei suicidi potrebbe risultare, a fine anno perfino in calo rispetto agli anni precedenti. Su un totale di circa 40 casi di suicidi per motivi economici, o presunti tali, nel 2012, ogni giorno ci sono 0,29 suicidi , contro lo 0,51 del 2010 e lo 0,54 del 2009. Probabilmente il picco di morti volontarie, legate al conto in banca è stato raggiunto nel 2009 (ma nessuno ci ha detto niente): il 6,6% del totale nel 2009 contro il 6,1% nel 2010. Il quadro delineato da questi dati, per quanto asettico e limitato, dimostra che il fenomeno del suicidio è qualcosa di ben più complesso rispetto alla semplificazione che un po’ troppo frettolosamente ci viene proposta dai media in continuazione.

I media e l’effetto Werther
Il sistema dei media, giornali, televisioni e ora anche la rete, ha da sempre un ruolo centrale nel costruire le notizie: l’obiettivo viene puntato su un caso, un particolare fenomeno, e si cercano poi tutti i fatti che possono, più o meno forzatamente, rientrare nella rappresentazione che si cerca di dare di una determinata realtà. Così un mese sembra che ci sia una terribile escalation di stupri, o di morti bianche, di suicidi o di qualsiasi altro fenomeno messo sotto la lente di ingrandimento dei media, e dopo qualche tempo sembra che sia tutto finito. Questo contribuisce alla sensazione di vivere in uno stato di emergenza continuo. Ma se il sistema dell’informazione ha sempre un ruolo determinante nella costruzione della realtà, nel caso specifico dei suicidi per motivi economici, rischia di avere un effetto molto negativo sulla vita delle persone in un momento così difficile.
Il continuo bombardamento mediatico sul tema dei suicidi rischia di creare un effetto emulativo. Un rischio più che ipotetico visto che è basato (questo sì) su dati scientifici.

In psicologia questo fenomeno è noto con il nome di “effetto Werther” e prende il nome dal famoso romanzo di Goethe “I dolori del giovane Werther” in cui il protagonista si suicida per una delusione sentimentale. In seguito al successo di questo libro, nel 1774, si registrò un consistente aumento dei suicidi in tutta Europa . Stesso fenomeno si registrò in Italia dopo il successo di “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo. L’effetto Werther è stato studiato approfonditamente dal ricercatore americano David P. Phillips negli anni ’70. Nel 1974, Phillips, ha confrontato il numero di suicidi negli Stati Uniti nel mese successivo al suicidio di una personalità, – il criterio era la pubblicazione della notizia sulla prima pagina di The New York Times – con il numero di suicidi che ci si sarebbe dovuto attendere per quel mese, tenendo conto per quanto possibile di tutte le variabili. Fra il 1948 e il 1967 erano stati pubblicati 34 casi di suicidio rispondenti ai criteri suddetti: in 26 casi il numero dei suicidi avvenuti nel mese successivo alla pubblicazione della notizia del suicidio di un… vip, era stato superiore a quello che ci si sarebbe dovuto attendere. Certo non si può censurare l’informazione per un eccesso di cautela, tuttavia servirebbe maggiore prudenza da parte dei media nel trattare temi così delicati.

La crisi d’identità dell’Occidente
Il suicidio è un atto che spesso ha una molteplicità di cause, troppo complesso per essere semplificato e attribuito sempre e solo a fattori economici: nella ricca Germania ci si suicida il doppio che in Italia, mentre nella Grecia del disastro economico poco più della metà, in Giappone il tasso percentuale di suicidi è quattro volte quello Italiano, in Russia sei volte. È evidente allora che il movente economico non può essere l’unica causa del tasso di suicidi di una nazione. Certo la crisi contribuisce alla disperazione ma il disagio sociale ha radici ben più profonde da ricercare in una crisi culturale, istituzionale e morale, questa sì, senza precedenti. A parte il boom economico che ha caratterizzato i decenni che vanno dagli anni ’60 agli anni ’80, l’Italia non è mai stato un paese economicamente ricco, tuttavia non mancavano luoghi di aggregazione e di socialità che oggi sono spariti, inghiottiti dalla fine di un’era. Con la crisi delle ideologie e l’avvento del liberismo sfrenato sono spariti punti di riferimento culturali e sociali che rappresentavano luoghi di incontri e di condivisione. Venuta meno la funzione aggregante degli oratori o delle vecchie sessioni di partito, l’individuo contemporaneo spesso è solo con le sue piccole o grandi difficoltà. I dati infatti dimostrano che fra le persone che scelgono di togliersi la vita, prevale nettamente il numero di coloro che non hanno una famiglia, ultimo nucleo sociale rimasto in piedi. L’effetto della crisi delle idee e dei “punti di riferimento” ha conseguenze ben più gravi della crisi economica sulla vita degli individui. L’errore di questi anni è stato puntare tutto sull’economia e sul denaro come unico valore rimasto. Oggi dinanzi al crollo dell’economia l’uomo contemporaneo scopre di aver perso anche l’ultimo ideale a cui aggrapparsi. Siamo dunque di fronte a una vera e propria “crisi d’identità” che riguarda non solo l’Italia e l’Europa ma tutto il sistema di valori dell’Occidente, dalla rivoluzione industriale ad oggi.

Nel futuro prossimo, nonostante le tante, estreme difficoltà che il Paese attraversa, si dovrà tentare di ricostruire un tessuto sociale andato perso. Forse la crisi sta già favorendo questo processo: la costruzione di nuovi valori e la riscoperta di forme di aggregazione e di socialità che credevamo ormai persi per sempre.

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