La Corte di cassazione è tornata (essendosene presentata la necessità) a occuparsi di informazione diffusa tramite la “rete”. Infatti, con la sentenza 23230 (Sezione terza penale, ud. 10.5.2012, dep. 13.6.2012, ric. Ruta), il giudice di legittimità ha ribadito che, non potendosi considerare “stampa” in senso tecnico l’informazione che corre sul web, non sono applicabili (perché costruirebbe analogia in malam partem, istituto vietato al giudice penale) le norme (artt. 5 e 16 legge 47/48) che vietano e puniscono la pubblicazione di giornali o periodici senza aver –prima- provveduto alla registrazione della testata presso la cancelleria del competente tribunale (per gli stampati non periodici è prevista la indicazione dell’editore e dello stampatore).

E in effetti sul sito www.accadeinsicilia.net veniva diffuso il giornale “Accade in Sicilia” (appunto), non registrato (e quindi, apparentemente, non autorizzato) nei modi di legge.
La sentenza ricorda che, per quel che riguarda la editoria elettronica, la legge 7.3.2001 n. 62 (artt. 2 e 5) ha previsto la registrazione dei giornali on line solo per ragioni amministrative ed esclusivamente ai fini della possibilità di usufruire di provvidenze economiche.
In realtà, la normativa citata non brilla per chiarezza, tanto che essa ha avuto necessità di una (specie di) interpretazione autentica ad opera del decreto legislativo 9.4.2003 n. 70.
Ma tant’è: oramai l’affermazione sopra riportata costituisce jus receptum (cfr. Sezione terza penale, sent. n. 10535, ud. 11.12.2008, dep. 10.3.2009, ric. Donvito e, incidenter, Sezione quinta penale, sent. n. 35511, ud. 16.7.2010, dep. 1.10.2010, ric. Brambilla e sent. n. 44126, ud. 28.10.2011, dep. 29.11.2011, ric. Hamaui e altro).

La sentenza Ruta si rifà alla definizione normativa di stampa e stampato, come contenuta nell’art. 1 della legge del 1948 (“…tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione.”) e giunge alla ovvia conclusione che la “telematica non è stampa” (così V. Zeno Zencovic nel “lontano” 1999: La pretesa estensione alla telematica del regime della stampa in AA.VV. Il diritto nel cyberspazio.), perché il giornale on line non è frutto di una attività di riproduzione ottenuta con i mezzi indicati dalla legge.
Dalla non equiparabilità tra i due tipi di media è stata fatta discendere la inapplicabilità, per quel che riguarda i giornali telematici, dell’art 57 cod. pen., relativo, come è noto, alla responsabilità colposa per omesso controllo da parte del direttore del giornale diffuso tramite web (cfr. le sopra ricordate sentenze Brambilla e Hamaui della Sezione quinta penale).

Quanto tutto ciò sia equo e quanto sia conciliabile con il principio costituzionale di eguaglianza è questione che (probabilmente) dovrà pur essere affrontata; ma ciò dovrà avvenire per iniziativa del legislatore. Il fatto è che non può sollevarsi questione di costituzionalità in malam partem (ancora una volta), vale a dire per equiparare –in applicazione dell’art. 3 Cost.- una condotta non punibile a una ritenuta punibile dall’ordinamento (e non viceversa).
E già che ci siamo, il legislatore potrebbe anche affrontare il problema della ripartizione delle “responsabilità risarcitorie” tra autore dell’articolo, direttore del giornale ed editore.
Il caso non è teorico, atteso che sul giornale on line (guarda caso) Iustitia (25.6.2012, anno XX n. 25; www.iustitia.it) si dà conto del fatto che l’autrice di un articolo – ritenuto a suo tempo diffamatorio e per il quale il giornale era stato condannato in sede civile al risarcimento del danno- è stata citata dall’editore, in sede di azione di regresso, vedendosi addebitare –secondo la pretesa dell’attore (l’editore appunto)- il 70% della responsabilità (l’editore ha ritenuto di essere responsabile al 20%, mentre al direttore ha attribuito il 10).

Ora è noto che, ai sensi dell’art. 2055 cod. civ. “se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno”.
Al proposito, la Cassazione (Sez. terza civile, sent. 25157, ud. 14.10.2008, ric. Giornale di Sicilia, res. Savoca e altro) ha chiarito che, affinché più persone possano essere chiamate a rispondere in solido di un fatto illecito, secondo la regola di cui all’art. 2055 cod. civ., non è necessario che tutte abbiano agito col medesimo atteggiamento soggettivo (dolo o colpa), ma è sufficiente che, anche con condotte indipendenti, tutte abbiano concausato il medesimo fatto dannoso.
Conseguentemente il direttore responsabile di un quotidiano risponde sempre in solido col giornalista autore di uno scritto diffamatorio, tanto nell’ipotesi in cui abbia omesso la dovuta attività di controllo (nel qual caso risponde a titolo di colpa), quanto nell’ipotesi in cui abbia concorso nel delitto di diffamazione, ai sensi dell’art. 110 cod. pen. (nel qual caso risponderà a titolo di dolo). L’editore, per parte sua, è chiamato in causa come responsabile civile.

E però i commi successivi dell’art. 2055 aggiungono che “colui che ha risarcito il danno [scil. per intero] ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali”.
Dunque: se ci poniamo sul versante del danno (e del danneggiato), non appare dirimente stabilire chi lo abbia causato con dolo, anche eventuale (art. 595 cod. pen.), e chi per colpa (art. 57 cod. pen), essendo, viceversa, importante che sia chiarita la “misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa” (intesa, in questo caso, genericamente, come atteggiamento psicologico contra jus).
E allora vanno apprezzate in concreto le condotte tenute nella causazione del danno. Anche perché il danno va distinto dall’evento del reato.

Il delitto di diffamazione è delitto di evento (Cass. Sez. quinta penale, sent. 25875, ud. 21.6.2006, dep. 25.7.2006, ric. Cicino e altro), che si realizza quando (almeno) una seconda persona percepisca la comunicazione lesiva dell’altrui reputazione (Cass. Sez. quinta penale, sent. 36602, ud. 15.7.2010, dep. 13.10.2010, ric. PC in proc. Selmi).
Nella diffamazione a mezzo stampa, tale evento è (in genere) reso possibile dalla condotta colposamente omissiva del direttore del giornale. E’ pertanto corretto affermare che sia il giornalista (con condotta attiva), che il direttore (con condotta omissiva) hanno causato l’evento. In fin dei conti, se solo uno dei due avesse agito secundum legem, il reato non sarebbe stato consumato. E’ anzi da notare che, quando il direttore concorre dolosamente col giornalista nel delitto di diffamazione (artt. 110-595 cod. pen.), la sua condotta non si differenzia (può non differenziarsi) da quella che lo stesso soggetto tiene quando colpevolmente omette il controllo. La differenza sta, ovviamente, nell’atteggiamento psicologico.
E però i due soggetti possono determinare il danno alla persona offesa in maniera sensibilmente diversa.
Invero: al giornalista è certamente riferibile il contenuto dell’articolo; ma il titolo, la collocazione del “pezzo” (e quindi gli accostamenti), il corredo fotografico, i caratteri di stampa e, generalmente, il risalto che viene dato alla notizia non dipendono da lui.
Il danno poi può essere aumentato o diminuito dal post factum, atteso che la legge sulla stampa prevede l’obbligo di rettifica ( art. 9 legge 47/48). E, anche in questo caso, l’autore dell’articolo è tagliato fuori.

La rettifica può intervenire in tempi brevi ed essere conforme a quanto la legge prevede (quasi mai lo è: la legge indica i termini temporali e la collocazione della comunicazione di rettifica: “in testa di pagina e…nella stessa pagina del giornale che ha riportato la notizia cui si riferiscono); oppure può intervenire a distanza di tempo o non intervenire affatto.
In tal caso, ovviamente, il danno alla reputazione permane e si accresce (un mondo a sé è quello di internet, nel quale la notizia può rimanere in rete per saecula saeculorum).
Così stando le cose, come è possibile stabilire quanta “porzione di danno” sia attribuibile a Tizio e quanta a Caio? Appare pertanto saggia la scelta del legislatore di presumere…”l’eguaglianza delle colpe”.
E tuttavia ciò non impedirà il proliferare delle azioni di regresso nei confronti dei soggetti più deboli. Specialmente se il “processo pilota” del quale ha scritto Iustitia dovesse aver successo (nella prospettiva dell’attore, si intende).
Nel qual caso, potrebbe, come si anticipava, non essere inopportuno un intervento legislativo per impedire che il “peso” e il rischio dell’attività giornalistica ricada, quasi per intero, su quelli che prima abbiamo definito i soggetti più deboli, con conseguente pericolo di selezione in negativo del ceto giornalistico (che porterebbe alla emersione dei soggetti più pavidi, conformisti e ossequienti); il che concreterebbe una insidia – indiretta ma effettiva- alla libertà di informazione e al diritto di essere informati.

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