Come è noto, contrariamente a quanto avveniva in precedenza, attualmente con l’interpretazione autentica della Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite, dell’art. 2495 c.c., nell’attuale formulazione derivante dalla riforma societaria di cui al D.Lgs. 17/01/2003 n. 6, è pienamente legittimo chiudere la società pur con estesa situazione debitoria non rimediabile. Depositando il bilancio di chiusura con l’attestazione delle passività esistenti si provvede dunque con le procedure specifiche per ciascuna società, alla cancellazione presso la Camera di Commercio.
In questa maniera i creditori insoddisfatti, nelle società di capitali, se non propongono istanza di fallimento entro un anno dalla chiusura, non possono più realizzare i propri crediti (resta ferma la responsabilità personale dei soci nelle società di persone).

LE PASSIVITA’ NEI CONFRONTI DEL FISCO
Lo stesso principio si applica per quanto riguarda le passività nei confronti del fisco, in quanto l’estinzione (vedasi per es. Cass. n. 17500/12) esclude che possa più essere proseguita alcuna azione pendente e neanche può darsi alcun impulso alle cause in corso.
Quindi il giudice del processo dichiarerà l’interruzione della causa ai sensi dell’art. 300 c.p.c. precludendo ogni ulteriore pretesa di accertamento del debito societario.
Medesimo provvedimento per quanto riguarda i procedimenti avanti la Commissione Tributaria.
Sostanzialmente i crediti dell’Amministrazione Finanziaria, non godono di alcun particolare privilegio rispetto i crediti di un privato.
Dunque con la cancellazione di una società, né i privati, né il Fisco possono più rivalersi, se non nei limiti stabiliti dalla legge e secondo l’insegnamento dalla Suprema Corte, vale a dire rivalendosi sui soci in caso di società di persone, ovvero nei confronti dei soci delle società di capitali, ma solo se questi (ipotesi ovviamente improbabile) abbiano ricevuto con il bilancio di chiusura, utili personali, comunque con il limite di detto utile.

SOTTRAZIONE FRAUDOLENTA AL PAGAMENTO DI IMPOSTE
Tali fattispecie che sono pienamente legittime (chiusura della società pur con debiti esistenti), non vanno confuse con situazioni nelle quali artatamente l’imprenditore procede alla chiusura della società, ma in realtà utilizza il sistema solo quale stratagemma per evitare di pagare  debiti all’Amministrazione Finanziaria, mentre invece l’attività prosegue regolarmente.
In tal senso l’art. 11 del D.Lgs. del 10.03.2000 n. 74 prevede espressamente la reclusione da sei mesi a quattro anni per chiunque al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero degli interessi o delle sanzioni relative a dette imposte, purché però di ammontare complessivo o superiori ad € 50.000,00, aliena o compie altri atti fraudolenti sui propri beni, idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva.
Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad € 200.000,00 si applica la reclusione da un anno a sei anni.

CHIUSURA FITTIZIA DELLA SOCIETA’
Un caso classico è quello della chiusura della società e della cancellazione presso la Camera di Commercio, mentre in realtà l’imprenditore non fa altro che mutare nome, gli elementi di facciata, ma utilizza le stesse maestranze, le stesse apparecchiature e talvolta gli stessi locali, proseguendo con una nuova ragione sociale, e precludendo quindi a tutti di poter recuperare i propri debiti, debiti apparentemente  relativi  ad una società non più esistente.
Tale fattispecie  è quella esaminata dalla Corte Suprema con la sentenza n. 37389/13 nella quale era stato il Pubblico Ministero a proporre l’impugnazione avverso la decisione più favorevole del Tribunale.
L’imprenditore con un deficit patrimoniale di quasi € 2.500.000,00 per lo più per debiti contratti nei confronti del Fisco e di Enti vari, procedeva alla cancellazione della società (svolgeva l’attività di fabbricazione di prodotti per l’igiene personale) e dopo averla posta in liquidazione nel 2012 procedeva alla cancellazione e quindi alla cessazione di ogni attività al 31/08/2012.
In realtà l’attività a partire dal gennaio 2012 era stata spostata in un’altra società, il cui oggetto apparentemente non aveva alcuna attinenza con i prodotti per l’igiene. Tuttavia la nuova azienda utilizzava i medesimi capannoni industriali, lo stesso personale, e faceva capo alla stessa persona, mantenendo il know out, le relazioni con i clienti, le capacità tecniche, i funzionari stessi, i segni distintivi ed in sostanza dimostrando chiaramente che si trattava della stessa azienda.
La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e confermava il sequestro preventivo per l’importo di circa  € 3.000.000,00.

LA DIVISIONE DEI RAMI D’AZIENDA

Condanna analoga (si noti che la Cassazione mostra sempre un orientamento più favorevole al Fisco rispetto i Tribunali) è quella contenuta nelle sentenze n. 37405 del 27/09/2012 e nella recentissima sentenza n. 48424 depositata il 20/11/2014.
In questi casi, le manovre poste in essere dall’imprenditore erano più raffinate, nel senso che la società era stata scissa in due parti, quella con passività era stata cancellata dalla Camera di Commercio, mentre quella con margini attivi era stata alienata o comunque trasferita a terzi.

LA RESPONSABILITA’ DELL’ACQUIRENTE AI SENSI DELL’ART. 2560 C.C.

La questione   era particolarmente interessante, in quanto la contestazione posta in essere dall’imprenditore, non appariva priva di pregio giuridico.
Il proprietario dell’azienda rilevava che, sotto il profilo fiscale, lo Stato non aveva perso il diritto a procedere per i propri crediti, laddove l’art. 2560 c.c. espressamente statuisce nel secondo comma che “nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti risultanti dai libri contabili, anche l’acquirente”.
Poiché nel caso specifico i debiti erano stati ritualmente trascritti nei bilanci rilevava dunque l’imprenditore che non poteva egli rispondere del reato di sottrazione fraudolenta del pagamento delle imposte, proprio in quanto lo Stato avrebbe potuto tranquillamente recuperarle dall’acquirente.
La Cassazione con una discutibile sentenza è stata di contrario avviso, ritenendo che se l’imprenditore scinde la società trasferendo la parte di azienda inefficiente, il Fisco non è tenuto a rincorrere l’acquirente per riscuotere i propri crediti.
Secondo la Suprema Corte infatti la condotta di costituire una nuova società cessionaria,  sottraendo gli importi dovuti al fisco, non fa venir meno il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, laddove l’erario, pur potendo in ipotesi rivolgersi anche alla società acquirente, troverebbe enormemente più complessa ed estremamente difficile l’aggressione dei beni del debitore.
In altro caso, (si trattava di un’impresa di trasporti rilevante sul territorio nazionale),  anche se il trasferimento non avvenga materialmente, ma tramite conferimento di ramo d’azienda, egualmente il meccanismo di scindere la società (nel senso che quella passiva viene cancellata e quella attiva viene trasferita a terzi), non può trovare l’approvazione dei Tribunali. Si configura infatti pur sempre un illecito stratagemma per cancellare tutti i debiti e lasciare in vita solo la parte di azienda in attivo.
A tale convincimento aggiungevano i giudici,  si arrivava anche dall’esame delle circostanze relative alle operazioni compiute, (l’azienda prima di essere cancellata era stata fatta trasferire in un luogo inesistente, veniva nominato un liquidatore mai rintracciabile ed infine si procedeva alla cancellazione) e soprattutto dalla riconducibilità delle operazioni sempre alla stessa persona, dalla “frettolosità” e dalla “opaca” cancellazione della società debitrice dalla Camera di Commercio, tutti elementi da cui si poteva trarre sicuramente il pieno convincimento circa l’intento fraudolento e la piena consapevolezza dell’imprenditore del reato commesso.

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