Il Daily Telegraph lo ha definito uno dei più grandi festival musicali del mondo. Secondo il Guardian fa concorrenza al festival di Salisburgo. Il Festival “George Enescu” di Bucarest è nato nel 1958, ma dal 2007, anno in cui la Romania è entrata a far parte dell’Unione Europea, è diventato una rassegna di livello internazionale. Da quell’anno il governo rumeno ha avviato un’operazione di grande investimento sulla cultura, per riportare Bucarest agli antichi splendori, quando era considerata “la Parigi dell’Est”.

E il festival Enescu è stato uno dei suoi fiori all’occhiello, come ha dimostrato anche questa XXI edizione: quattro settimane fitte di concerti, 150 appuntamenti – molti trasmessi in diretta dalla tv di stato – che il direttore artistico Ioan Holender (già direttore generale della Staatsoper di Vienna) ha impaginato come sempre in diverse aree tematiche, dedicate ai solisti, alla musica da camera, alle grandi orchestra, alle opere e ai balletti, alla musica moderna e contemporanea. Con un pubblico che affollava quotidianamente l’Opera nazionale di Bucarest, la deliziosa sala liberty dell’Ateneo Rumeno (edificio costruito nel 1888, dove Enescu debuttò nel 1898, dirigendo la prima delle sue Rapsodie romene), la Sala Palatului, auditorium capace di più di 4000 posti, costruito nel 1968 per le riunioni del Partito Comunista Rumeno. In questo mese a Bucarest si sono ascoltati pianisti come Radu Lupu, Jean-Yves Thibaudet, Fazil Say, Yuja Wang, Rudolf Buchbinder, Evgeny Kissin, Murray Perahia; violinisti come Viktoria Mullova, Vadim Repin, Leonidas Kavakos; violoncellisti come Gautier Capuçon e Truls Mørk. Si sono esibite grandi orchestre (la Staatskapelle di Berlino, la Pittsburg Symphony Orchestra, l’Orchestre de Paris, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, l’Orchestra di Santa Cecilia, la London Philharmonic Orchestra, la Rundfunk-Sinfonieorchester di Berlino, i Münchener Philharmoniker, l’Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam, l’orchestra Nazionale Russa), e le grandi star del podio da Daniel Barenboim e Antonio Pappano, a Marek Janowski, Simon Bychkov, Mariss Jansons, Mihail Pletnev, Paavo Järvi. Tra questi big non sfigurava il giovane, promettente Leo Hussain, direttore inglese (già assistente di Rattle e di Gergiev) che ha guidato l’Orchestra filarmonica moldava nel Concerto per pianoforte e orchestra di Maxwell Davies (solista Marino Formenti), in Earth Dances di Harrison Birtwistle e nella Sinfonia “Memorial” di Cornel Taranu; ha poi accettato coraggiosamente una sostituzione last minute, salendo sul podio dell’ottima Orchestra filarmonica George Enescu per dirigere una partitura monumentale come i Gurre-Lieder di Arnold Schönberg. Nonostante alcuni difetti di insieme, dovuti alle poche prove, Hussain ha dipanato con intelligenza il fitto intreccio di linee, con un gesto ampio e espressivo, ha colto il lato descrittivo, naturalistico, quasi impressionistico, della musica, e insieme i tratti sinistri e visionari dell’antica leggenda danese, ripresa da Jens Peter Jacobsen (la storia del tragico amore del re danese Waldemar per una fanciulla di nome Tove, che abitava nel castello di Gurre, e della seguente uccisione di lei da parte della regina Helvig). La lettura sensuale e febbrile di Hussain trasformava la successione dei Lieder in una precisa drammaturgia, carica di tensione, che aveva il suo culmine nella Caccia selvaggia (dove Waldemar, dopo avere bestemmiato contro Dio, chiama a raccolta i suoi guerrieri, vivi e morti) e dava risalto alle espansioni liriche, alle pagine corali (eccellenti il coro diretto da Iosif Ion Prunner), ai momenti estatici, come il radioso finale corale, che inneggia al levarsi del sole: «Seht die Sonne!». Violeta Urmana era una Tove commovente, con la sua voce vellutata e copiosa, sempre ben stagliata sulla massa orchestrale. Non così il Waldemar di Nikolai Schukoff, che stentava a tenere testa all’orchestra, nonostante l’interpretazione molto musicale e piena di carattere, capace di esprimere tutto il dolore e la rabbia del suo personaggio. Di grande evidenza teatrale anche il canto impaurito del contadino, affidato al possente baritono tedesco Thomas Johannes Mayer, bravo anche nello Sprechgesang, e quello del tenore John Daszak, dalla voce un po’ fibrosa, ma che che rendeva assai bene il canto folle e grottesco del buffone Klaus, costretto a cavalcare con i morti. C’è stato anche spazio per un attore famosissimo in Romania, Victor Rebengiuc (attore ormai ottantenne, noto anche come attivista politico, spesso contrastato e censurato dal regime di Nicolae Ceauşescu) inserito nel cast come speaker, e anche un po’ come “specchietto per le allodole”.

Da Wagner a Verdi, via Enescu
Nel cartellone operistico del festival non manca mai Oedipe (1936) capolavoro di Enescu, e sintesi di tutta la sua ricerca compositiva. Ma quest’anno, naturalmente, era affiancato da Wagner e da Verdi: c’era un allestimento di Tannhäuser, un Ring integrale, in forma di concerto, affidato a Marek Janowski e alla Rundfunk-Sinfonieorchester Berlin, un Otello firmato da Vera Nemirova. La regista tedesca di origini bulgare lo aveva già messo in scena, a Dresda, nel 2006. Una regia molto discussa all’epoca, che trasformava l’isola di Cipro in una specie di villaggio vacanze, con militari in vacanza, spiagge, turisti, qualche tocco di esotismo. Molti elementi restavano identici nello spettacolo di Bucarest: i protagonisti maschili vestivano divise da ufficiali di marina; Otello non era un moro ma si colorava la faccia di nero e indossava abiti laceri nel momento in cui andava fuori di senno; Jago appariva come un boss malavitoso, pronto a insufflare i suoi veleni seduto a un tavolino da bar. Ma non c’era più niente di provocatorio. Anche le scene di Viorica Petrovici evocavano Cipro in una chiave moderna, con un declivio roccioso, un’impalcatura metallica come torre di vedetta, un grande albero stilizzato e rinsecchito, soldatesche dotate di elmetti e mitragliatrici. Solo qua e là qualche elemento simbolico (anche un po’ inutile): il canotto, nero e funereo, che alla fine del primo atto diventava l’alcova dei due sposi, i libretti rossi branditi dal coro che cantava «Vittoria», gli aeroplanini di carta lanciati dai bambini, i fazzoletti bianchi che piovevano sulla scena, materializzando l’ossessione di Otello. Attenta la concertazione della canadese Keri-Lynn Wilson, che ha già diretto quest’anno Otello a Bari. Il rumeno Marius Vlad Budoiu, che sostituiva all’ultimo momento l’indisposto Peter Seiffert, era purtroppo un Otello dalla voce velata e senza squillo. Ştefan Ignat (molto celebre in Romania nel titlerôle dell’Oedipe di Enescu) si dimostrava uno Jago esperto e disinvolto sul palcoscenico, ma dall’emissione malcerta. Ottimi invece la Desdemona di Iulia Isaev, per il timbro caldo e l’elegante fraseggio, e il Cassio del giovane, promettente Ionuţ Hotea, con una voce sempre a fuoco, rotonda e molto espressiva. Di grande successo gli appuntamenti serali con la musica barocca, dominati da ensembles e interpreti italiani. L’Europa Galante, diretta da Fabio Biondi, ha presentato un programma tutto vivaldiano, con sei concerti per violino intercalati da alcune sinfonie d’opera. L’Ensemble La Venexiana, diretto da Claudio Cavina, ha offerto una bellissima, vivida esecuzione in forma di concerto dell’Orfeo di Claudio Monteverdi, un’esecuzione molto teatrale cui davano un fondamentale contributo i giovani, talentosi cantanti: si ammirava l’estrema duttilità di emissione e la grande espressività di Roberta Mameli (Euridice), la  musicalità di Furio Zanasi (Orfeo), le voci profonde e cavernose di Salvo Vitale, nei panni di Caronte, e di Leonardo Janni, in quelli di Plutone.

Tradizione e (tanta) contemporaneità
Nel repertorio moderno e contemporaneo presentato a Bucarest, ampio spazio era ovviamente riservato alla produzione di Enescu: oltre alla sua opera Oedipe, di cui si è già detto, sono stati eseguiti altri 25 lavori. Tra questi il bel Quartetto per archi e pianoforte op.30 in re minore, affidato alle cure dei musicisti del Quartetto Tammuz (che ha da poco inciso per la CPO l’integrale dei quartetti di Enescu) in un concerto impaginato in maniera assai interessante: vi compariva infatti anche il Quartetto op.75 del compositore austriaco Robert Fuchs (1847–1927), che di Enescu fu maestro di composizione al Conservatorio di Vienna, e brillante Quartetto op.45 di Gabriel Fauré, che fu il dedicatario del Quartetto op.30 di Enescu. Si tratta di un lavoro dalla scrittura trasparente e fluttuante, di grande varietà armonica e intensità espressiva, ottenuta anche attraverso un’originale, spoglia scrittura pianistica spoglia, e un sofisticato montaggio dei materiali musicali, lontano da stereotipi e cliché. Uno spaccato su alcune tendenze polistilistiche e postmoderne dei nuovi linguaggi musicali si poteva cogliere nel concerto dell’Ensemble Telemaque di Marsiglia diretto da Raoul Lay, che ha eseguito diverse novità commissionate dalla European Contemporary Orchestra. In programma due noti compositori rumeni: Liviu Dănceanu (1954) con Hexaih op. 147, caratterizzato da una trama ritmica e movimentata, con screziature un po’ pop e interventi della fisarmonica, della chitarra elettrica, di tre vocalist amplificate; e Adrian Iorgulescu (compositore nato nel 1951, famoso anche come politico, come fondatore del Partito di Alternativa Romania), presente con Kaleidoscope, lavoro dalla scrittura densa, dalla dinamica molto spinta, con violente sequenze accordali, stacchi improvvisi degli ottoni, e le voci che creavano un sottofondo ondeggiante, ma anche pieno di brusii e di urla. Una vitale mescolanza di stili si coglieva anche in Embarquement pour l’outre-là di François Narboni, compositore nato a Parigi nel 1963 e consacratosi in gioventù al jazz prima di studiare al Conservatorio di Parigi con Betsy Jolas, Paul Méfano, Michaël Levinas: il suo lavoro mostrava una chiara matrice minimal, con cellule reiterate delle tre voci, contornate da ampi gesti sinfonici e strane screziature della chitarra elettrica e del tamburo militare. Tra movenze barocche e pop si muoveva First World dell’americano Ted Hearne, nato a Chicago nel 1982, allievo di Aaron Jay Kernis, David Lang, Julia Wolfe, vincitore del premio Gaudeamus nel 2009, convinto contaminatore di tradizione musicali diverse: il risultato era un pezzo insieme elementare e affascinante, pieno di break, reiterazioni ossessive, improvvisi squarci meditativi. Il gusto per le fratture ritmiche emergeva anche in Hop dell’olandese Martjin Padding, allievo di Andriessen (e si sentiva), lavoro costruito intorno a brevi cellule delle voci, che si muovevano spesso all’unisono col basso e con le percussioni.

Le giovanissime bacchette
Alla musica del XXI secolo erano abbinati anche conferenze e workshop, tenuti all’Università Nazionale di Musica di Bucarest da famosi compositori, come il rumeno Dan Dediu, Peter Maxwell Davies, Bernard Cavanna, Wolfgang Rihm, Zygmunt Krauze, Tristan Murail. In questa interessante galleria spiccava Jörg Widmann, allievo di Henze, Goebbels e Rihm, da anni alla ribalta internazionale sia come compositore che come virtuoso del clarinetto. A Bucarest si è presentato anche in veste di direttore, sul podio dell’Orchestra filarmonica transilvana. In programma la Sinfonia n.1 “Roads in the Light” di Ulpiu Vlad (1945), veterano dei compositori rumeni, allievo di Virgilio Mortari all’Accademia di Santa Cecilia all’inizio degli anni Settanta: si trattava di una pagina dal carattere eterogeneo ma dalla sapiente scrittura orchestrale, con trame brulicanti dei legni, fasce glissate e dissonanti degli archi, improvvise fanfare degli ottoni, un gioco di percorsi musicali sovrapposti che creavano continue frizioni, e ricordavano a tratti le sinfonie di Charles Ives. Widmann ha diretto anche due sue composizioni, di grande appeal sul pubblico. Il concerto per tromba e orchestra intitolato Ad absurdum si ammirava per le fusioni timbriche e armoniche, per i giochi d’eco tra frammenti strumentali, per gli assoli delle percussioni e della tastiera elettronica, per lo straordinario virtuosismo della scrittura solistica, concepita come un perpetuum mobile e spinta davvero agli estremi della possibilità della tromba, sfruttando le doti “sovrumane” di Sergei Nakariakov, dedicatario del concerto e suo primo interprete nel 2006. Messe, lavoro per grande orchestra del 2005, era concepito come una “messa senza parole”, una partitura assai sviluppata ma basata su elementi semplici: rarefatte plaghe timbriche, solenni progressioni, lunghe sezioni monodiche dai deliziosi effetti klangfärbig, grandi bolle sinfoniche, squarci solistici dei fiati, corali distorti degli ottoni, giochi antifonali, trame sommesse degli archi dagli effetti “subacquei”, brevi interludi e contrappunti che separano le diverse sezioni. Il tutto intessuto insieme con grande abilità, con una chiara urgenza narrativa, una tensione costante che sfociava alla fine in un maestoso crescendo.

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