Il caso di Cipro ha dimostrato che il sistema bancario del vecchio continente non è poi così sano come si è sempre affermato, con convinzione sempre più scarsa a partire dallo scoppio della crisi finanziaria. Le principali figure istituzionali, tra capi di governo e governatori di banche centrali, si affannano in questi giorni nel ribadire che quanto accaduto in quell’isola nel Mediterraneo, più vicina alle coste mediorientali che a Bruxelles, sia un fatto del tutto straordinario e che nulla di simile può accadere sulla terraferma.

Ripristinare un clima di fiducia è l’obiettivo principale, ma sembra ormai evidente che le parole non bastano più: sarebbe più corretto ammettere che la questione bancaria in Europa esiste ed è più grande di quanto si pensasse, piuttosto che negare per l’ennesima volta l’evidenza.

 

Eppure di campanelli di allarme, specialmente in tempi recenti, ce ne sono stati diversi, a cominciare dalla gigantesca operazione di salvataggio delle banche irlandesi nel 2008. Gli istituti sovvenzionati dallo Stato oppure acquistati da altri sono andati crescendo ed il fenomeno non riguarda solamente gli indisciplinati governi del sud Europa, visto che alcuni casi si sono verificati a latitudini ben più elevate, come in Belgio, Francia e Finlandia.
Di questa settimana la notizia che la banca centrale tedesca sta indagando sui conti della Deutsche Bank, vero pilastro della finanza europea, per via di alcune “stranezze” rilevate negli ultimi bilanci, per cui potrebbero esser state nascoste notevoli quantità di titoli derivati ch ormai sono carta straccia. Anche in casa nostra ci si è accorti che istituti storici come il Monte dei Paschi, detentori di buona parte del risparmio delle famiglie, non sono rimasti immuni di fronte al fascino dei guadagni esponenziali e soprattutto fittizi.

Nonostante questa situazione di evidente degrado finanziario, dove regna la tendenza a “fregare” il prossimo, sia esso il privato risparmiatore oppure lo Stato in veste di autorità vigilante e soprattutto fiscale, l’Europa sembra essersi intestardita su un unico aspetto, quello dei conti pubblici. Le politiche di austerità promosse in questi anni difficili, infatti, non hanno di certo coinvolto le banche del vecchio continente, che al contrario hanno beneficiato di una linea di finanziamento privilegiata come non mai da parte della BCE, senza che nessuno chiedesse loro il conto. Non si tratta di chiedere misure improponibili: lo Stato, ed in questo caso le istituzioni comunitarie, non possono certo prelevare dalle banche quanto necessario per coprire il deficit, ma d’altra parte allo l’obbligo di garantire la stabilità del sistema, attraverso le leggi e l’attività di controllo.
Pretendere che un sistema del genere possa autoregolamentarsi in modo efficiente sembra oggi una follia agli occhi di molti, soprattutto “normali” cittadini, eppure ancora adesso molto poco è cambiato, perché in effetti nessuna regola in materia è stata ancora introdotta e gli organi vigilanti arrivano quando ormai il danno è fatto.

Ma allora il cittadino europeo, ma soprattutto il contribuente, cosa deve pensare? Che l’intero apparato edificato in sessant’anni abbia come unico scopo la difesa ad oltranza di banchieri spregiudicati, per di più a scapito della spesa sociale? L’Europa, con questo suo comportamento da tecnocrate cieco, sta rischiando seriamente di buttare alle ortiche gli enormi risultati raggiunti attraverso le politiche comunitarie. In questo scenario di allontanamento progressivo delle istituzioni dalla vita reale, le ragioni del “popolo”risultano tutte ugualmente valide.
Hanno ragione i cittadini degli stati periferici, quando affermano che Bruxelles salva le banche tagliando i fondi per scuola e sanità. Ed hanno ragione i tedeschi, che non possono tollerare la fuoriuscita di soldi pubblici, raccolti attraverso le loro imposte, a favore di governi che non hanno voce in capitolo e che soccombono senza reagire. Ognuno, in sostanza, inizia a temere il proprio vicino, perché potrebbe fargli aumentare le tasse, anche se nessuno ha chiaro quale sia il meccanismo di collegamento.

La sensazione è che chiunque, in questo momento, possa costituire un potenziale pericolo, prima economico e poi sociale, ma alcuni più di altri. A finire sotto la lente sono stati finora gli Stati meridionali, spendaccioni ed indebitati, ma dopo la crisi cipriota nuovi ed insospettabili “nemici” si stanno palesando.
Si tratta dei cosiddetti “Stati-banca”, ovvero di quelle economie piccole o piccolissime dove il settore finanziario prolifera e talvolta esagera.
A Malta, ad esempio, gli asset bancari sono pari a circa l’800% del Pil, con una situazione molto simile a quella cipriota, per cui una buona parte dei depositi è posseduta da cittadini stranieri. Pericoli del tutto simili si registrano per la Slovenia, che inoltre non riesce più a finanziare il proprio debito, visto che non emette bond in euro dal 2011, e per la Lettonia, anch’essa terra di conquista finanziaria dei russi. In quest’ultimo paese, è bene ricordarlo, non c’è ancora l’Euro: ai fini della sostenibilità del sistema bancario europeo questo è un dettaglio quasi trascurabile, poiché le interconnessioni con gli istituti dell’Eurozona rimangono comunque fortissime.
Un salvataggio, in caso di bancarotta, sarebbe comunque necessario, con o senza l’Euro, dal momento in cui vige la libera circolazione dei capitali. A detenere il record per quanto riguarda il rapporto tra finanza ed economia reale è sempre il Lussemburgo, dove gli asset bancari superano il 2.000% del Pil.

Alla luce dei fatti, occorre che i governanti europei prendano in mano la situazione e la tolgano dal controllo di lobby troppo potenti, i cui interessi divergono in maniera sostanziale da quelli di 500 milioni di cittadini. L’introduzione di nuove regole è un aspetto fondamentale per la sostenibilità futura del sistema bancario, ma ancora più importanti sono gli strumenti di controllo e sanzione. Il vero nodo della questione riguarda a chi affidare tutto questo, in un settore che non ha certo brillato per indipendenza dal potere economico e soprattutto politico.
La via d’uscita non può che essere “democratica”: un’eventuale autorità indipendente dovrebbe rispondere al Parlamento, unico organo comunitario ad essere eletto in via diretta, perché è questo l’unico modo per consentire una valutazione dell’operato di chi prende le decisioni.

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