Un pellegrinaggio di speranza all’insegna della libertà. Di pellegrinaggi se ne vedono molti, ma è particolarmente singolare quello compiuto da un gruppo di detenuti partiti da Assisi e giunti fino a San Pietro.

I detenuti, forniti di un permesso speciale, escono dal carcere e cominciano a camminare, accompagnati dai cappellani e da volontari, salutano Assisi davanti al crocifisso dove San Francesco ha avuto l’ordine di costruire la cappella che diede inizio alla sua opera e alla sua vita di fede nella povertà. Per i detenuti è un’esperienza veramente unica, riassaporano la libertà e hanno la possibilità di interagire per qualche giorno con il mondo esterno, oltre quelle mura. Per alcuni è entusiasmante e traumatico nello stesso tempo. Essendosi ormai abituati alla vita e ai ritmi del carcere, è traumatico ritrovarsi nel mondo libero insieme ad altri uomini che non condividono la loro stessa esperienza e le loro stesse angosce. Tuttavia ciò è anche gratificante, in quanto possono riavere, sebbene per poco tempo, la libertà che hanno perduto.

Uno di essi sta scontando l’ergastolo, il che significa che non uscirà mai. Forse proprio per questo reputa così preziosi quei giorni che gli vengono offerti, e affronta tutto con gioia, anche il mal di schiena e il mal di piedi, pur di essere in mezzo a uomini liberi. Quando è stato intervistato le sue parole sono state: “Ogni volta che devo ritornare in carcere, per me è una condanna a morte.” Forse allora quei giorni per lui sono come una iniezione di vita, che gli permette di proseguire la sua esistenza da carcerato. In fondo, alla morte si risponde sempre con la vita.

Quando tutti i detenuti sono arrivati in Piazza San Pietro, la commozione e la gioia sono state indescrivibili, soprattutto quando papa Francesco, il papa degli ultimi, dei poveri, li ha salutati durante l’Angelus, il loro cuore è traboccato di gioia e si sono sentiti di nuovo persone e non solo scarti dell’umanità.

Un altro detenuto ha detto: “Questo pellegrinaggio è come confessarsi tutti i giorni e lavare lo spirito”. Una donna, che dovrebbe uscire fra poco tempo, ha dichiarato: “E’ stato bellissimo riassaporare la libertà e rendersi conto che c’è qualcos’altro oltre la prigione. Questo pellegrinaggio mi ha restituito la dignità e mi dà la forza di tornare nella mia cella più serena e con un po’ più di ottimismo.” I cappellani e gli organizzatori sono molto fieri di questa iniziativa, in quanto la ritengono una delle tappe fondamentali per la rieducazione dei detenuti. Questo pellegrinaggio è scaturito da un’idea lanciata dalle carceri spagnole, che permettono ad alcuni detenuti di recarsi al santuario di Santiago de Compostela.

Cos’è il pellegrinaggio? Noi uomini liberi lo intendiamo come un camminare verso una meta precisa, privandoci delle cose superflue, che di solito circondano la nostra vita quotidiana, tornando così all’essenziale. Ma noi pellegrini “normali” che siamo liberi, non assaporiamo certo il gusto della libertà di una bella camminata senza costrizioni o il piacere di incontrare e parlare con chi incontriamo lungo la strada. Per i carcerati il pellegrinaggio certamente ha un significato più ampio, per loro è un vero e proprio camminare verso una meta specifica, che è la libertà, il loro desiderio più grande, la sensazione di cui sentono maggiormente la mancanza essendone stati privati, ed è anche soprattutto una ricostruzione della loro dignità personale in quanto né dai volontari, né dai cappellani che li accompagnano vengono guardati come galeotti, ma come persone che fanno un cammino verso le proprie mete personali mettendo in discussione loro stessi, pensando alla loro vita e decidendo che cosa cambiare.

San Giovanni XXIII prima di morire ha asserito che la vita di tutti noi è un pellegrinaggio, tuttavia il pellegrinaggio dei carcerati ha un valore aggiuntivo, non è solo una metafora della vita, ma è veramente un camminare per le strade da uomini liberi, sentendosi finalmente degni di poterlo fare. In questo modo la loro autostima viene incrementata e loro rivedono un piccolo pezzo di mondo che hanno perduto. Questo pellegrinaggio non mette in discussione né le loro azioni né un loro eventuale pentimento, ma semplicemente gli ridona il loro essere persone e non solo detenuti. Troppo spesso si va in pellegrinaggio per fini egoistici, per chiedere grazie personali, mentre questo esempio porta a pensare che il pellegrinaggio non dovrebbe avere fini futili, ma dovrebbe essere un cammino comune di alcune persone con una meta comune, che si aiutano reciprocamente per raggiungerla. E quella sensazione di libertà, di indipendenza che i carcerati sentono crescere dentro di loro, dovrebbe essere la sensazione che accomuna e accompagna ogni pellegrino.

Del resto, duemila anni fa non ha forse detto il figlio di un falegname, un umile nazareno, “Io sono la via, la verità, la vita. seguendo me, sarete liberi.”? Seguiamo le parole di quell’umile nazareno, e tutti quanti riassaporeremo la libertà che inevitabilmente nella vita quotidiana va perduta, perché anche noi siamo prigionieri della nostra routine, dei nostri luoghi comuni, delle nostre certezze. Cerchiamo di elevarci e di trovare una sola libertà: quella che ci renderà liberi per l’eternità. Questo deve essere il fine di ogni pellegrinaggio, ma soprattutto del pellegrinaggio che è la nostra vita. 

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