Pierre Boulez è morto il 5 gennaio a Baden-Baden. Aveva appena compiuto 90 anni: una vita dedicata alla composizione, alla direzione d’orchestra, all’organizzazione musicale. Tre attività che lui stesso mette in un ordine preciso: «Prima di tutto sono un compositore, insisto su questo, poiché le altre occupazioni sono collaterali. Secondo, sono interprete, e ho scoperto più tardi nella vita che potevo dedicarmi anche alla direzione d’orchestra. Terzo, sono stato sempre più coinvolto nell’organizzazione della vita musicale, e dell’educazione musicale, su richiesta delle istituzioni francesi, ma è l’ultima cosa che è arrivata nella mia vita».

Da giovane aveva scandalizzato l’establishment culturale francese, poi è diventato incarnazione  dell’establishment. Esaltato e maledetto, è stato giudicato come una figura di potere, che ha condizionato pesantemente lo sviluppo della nuova musica in Francia (si diceva: «è come un baobab, niente può crescere nella sua ombra»). In un filmato del 1965, lo si vede intento a convincere l’anziano Stravinskij che c’è un errore nella partitura delle Noces (qualche battuta in più che renderebbe squilibrata la struttura musicale), arrivando a mettergli in mano una penna perché lo corregga. In quei pochi minuti, quasi comici, c’è tutta l’acribia del musicista, vista da molti come vera e propria arroganza intellettuale. Figlio di un ingegnere, che voleva fare di lui un matematico (e che, secondo una leggenda di Montbrison, chiudeva a chiave il pianoforte per impedirgli di suonare), il piccolo Pierre cominciò a studiare musica a 7 anni. A 17 aveva già deciso di fare il compositore. A 18 si trasferì a Parigi, dove intraprese gli studi di armonia (con Georges Dandelot) e di contrappunto (con Andrée Vaurabourg, moglie di Honegger). Fu influenzato nei primi lavori dalla musica di Honegger, frequentò la classe di Olivier Messiaen, poi quella di René Leibowitz, che gli insegnò la tecnica dodecafonica. A 20 anni ottenne il premio di armonia e compose le 12 Notations per pianoforte, quasi per dispetto, per prendersi gioco della dodecafonia: «Era insopportabile l’accademismo delle analisi di Leibowitz, lo trovavo quasi ridicolo, dopo avere avuto l’esperienza delle lezioni di Messiaen. Anche se non ero d’accordo con tutto quello che faceva Messiaen, almeno era creativo. Aveva un proprio mondo musicale. Leibowitz invece era arido, privo di immaginazione, parlava per numeri, da 1 a 12… orribile. E allora mi sono detto: sono capace di farlo anch’io. Così ho scritto 12 pezzi di 12 battute ciascuno […] ma erano pezzi molto spontanei, che ho scritto in due o tre giorni». Boulez cominciò allora ad orientarsi verso il «serialismo» weberniano, guardò con curiosità alla musica di André Jolivet, e nel 1946 compose la prima Sonata per pianoforte in cui definiva la «chiarissima consapevolezza della necessità della atonalità». Lo stesso anno cominciò a guadagnarsi da vivere facendo il direttore di scena per la compagnia Renaud-Barrault, trovando molto stimolante il contatto con il teatro: «Non vi è nulla di più produttivo del contatto con un’altra disciplina: la quale ci procura una maniera di vedere, ci arricchisce di idee  e sforza la nostra immaginazione a una “radioattività” più alta». Mentre nella vulgata dei manuali di storia della musica si è enfatizzato l’interesse di Boulez per le scienze esatte e per la matematica (dalla quale era fuggito per dedicarsi alla musica), gli stimoli più forti alla sua attività creativa sono sempre venuti dalle arti figurative (Mondrian, Klee) e dalla poesia (Mallarmé, Henri Michaux, René Char): «è il modo col quale ho sempre tenuto fresca la mia immaginazione. Si è supposto che io lavorassi come un matematico – ho studiato matematica solo per un anno – ma ho provato a leggere dei libri recenti di matematica e li ho trovati incomprensibili […] mi piace semmai fare delle escursioni nel bosco, quando ho tempo». Un altro dei grandi interessi coltivati da Boulez è stato il cinema, soprattutto quello di Godard. Ma ha sempre rimarcato il suo disinteresse per la musica per il cinema: «è come la tubatura di un bagno. Dopo che hai deciso come disporre i sanitari, si ha bisogno di fare i collegamenti, di mettere le tubature. È un’aggiunta a materiale visivo preesistente».

Una svolta importante nell’evoluzione del linguaggio musicale di Boulez è avvenuta nel 1948 con la monumentale Seconda Sonata per pianoforte, momento di rottura volontaria e definitiva con il passato dal punto di vista della forma: «dopo questa Seconda Sonata non ho più scritto in riferimento ad una forma passata. Ho sempre trovato una forma che è stata pensata con l’idea stessa». Poi sono venuti gli anni del serialismo totale, come tecnica capace di governare non solo le altezze, ma tutti i parametri del suono, tecnica abbozzata nel Livre pour Quatuor (1948-49), influenzato ancora da Webern e Messiaen, e portata alla sua compiuta realizzazione nel primo libro delle Structures per due pianoforti (1951-52). Nel successivo Marteau sans maître (1952-54), che completa la trilogia dedicata al surrealista René Char, dopo Le visage nuptial e Le soleil des eaux, Boulez ha cercato una sintesi tra il costruttivismo (di ascendenza  tedesca, mediato da Webern) e il gusto armonico e timbrico della tradizione francese (sui modelli di Debussy e di Messiaen), tra sistematicità e spontaneità, sfruttando le seduzioni della voce, le finezze delle combinazioni timbriche, il tocco esotico delle percussioni. Dopo il grande successo del Marteau, negli anni 50 Boulez è entrato nel Mainstream della musica contemporanea, ha insegnato ai Ferienkurse di Darmstadt, ha fondato a Parigi i Concerti del Domaine Musical. L’allargamento delle tecniche seriali lo ha spinto a interessarsi anche alla forma aperta, a concepire ogni singola opera come un work in progress, perché nell’universo senza centro del serialismo le idee musicali hanno un potenziale illimitato di sviluppo. Emblematico il caso di Pli selon Pli, ritratto musicale di Mallarmé (Boulez si disse «sedotto dalla straordinaria densità formale delle sue poesie […] mai la lingua francese era stata spinta così lontano dal punto di vista della sintassi […] ciò che mi ha interessato era di trovare un equivalente musicale , poetico e formale alla sua poesia»), iniziato nel 1957 ma portato a compimento nell’arco di trent’anni di riscritture.

Dal 1963 ha iniziato la sua carriera di direttore: «Sono arrivato alla direzione tardi, avevo oltre trent’ anni. E ci sono giunto per necessità, per difendere le opere e i classici del XX secolo, che erano eseguiti poco e male. Per esempio si trascuravano Schönberg, Webern e Berg». Da direttore, Boulez si è prima concentrato sulle proprie musiche e sul repertorio contemporaneo (fondando anche l’Ensemble Intercontemporain, nel 1976), poi si è via via rivolto al grande repertorio orchestrale, ridefinendo soprattutto alcune possibilità di interpretazione della musica tardoromantica, da Wagner e Bruckner a Mahler, trovando però sempre utile la pratica direttoriale ai fini di quella compositiva: «Dirigendo, ho imparato cosa è possibile fare e cosa è pratico fare quando si scrive per orchestra e quali idee eliminare, o piuttosto come adattarle agli strumenti dell’orchestra». A partire da Eclat(1965), ha cominciato a rivolgere la sua attenzione al contrasto fra gruppi strumentali distinti, tra solisti e accompagnamento, e alle possibilità date dalla dislocazione di un ensemble nello spazio: in Rituel in memoriam Bruno Maderna (1975) l’orchestra è suddivisa in otto gruppi; in Domaines (1968) il clarinetto solista si sposta sulla scena tra diversi leggii stabilendo dei dialoghi individuali con i diversi strumenti, e giocando sulla permutabilità e la reversibilità delle strutture musicali. Negli anni 80 ha inziato una sistematica opera di rielaborazione o di orchestrazione di partiture giovanili (ne è un esempio il grande ciclo delle Notationsper orchestra che riprendono le Douze Notations per pianoforte, scritte a 20 anni), interessandosi contemporaneamente al rapporto fra suono strumentale ed elaborazione elettroacustica, come testimoniano Répons per orchestra da camera e sei strumenti solisti, e Dialogue de l’ombre double per clarinetto e nastro, giocato sul dialogo tra lo strumento e la sua ombra elettronica, e sul movimento del suono dato dagli spostamenti dello strumentista sul palco e sulla dislocazione circolare degli altoparlanti) dello strumentista sul palco proiettata attraverso la parte elettronica. Nella produzione più recente la scrittura di Boulez ha cominciato a mostrare un gusto ornamentale, più “barocco”, per la ricchezza dei dettagli, la differenziazione degli sviluppi musicali, le metamorfosi continue dei materiali, sempre basato sul concetto di proliferazione. Sur Incises (1996-98) per tre pianoforti, tre percussioni, tre arpe, derivato da Incises per pianoforte solo, è ad esempio costruito come una scomposizione e ricomposizione del suono del pianoforte nelle sue diverse componenti acustiche, con le arpe e le percussioni usate in modo analogo ai filtri nella musica elettronica, per accentuare alcune proprietà acustiche ed attenuarne altre. È stato attratto dalle percussioni metalliche per le loro innate possibilità timbriche: «anche quando fai un crescendo, o uno sforzato molto forte, hai una risonanza molto interessante in sè, perché il suono viene così modificato al punto da terminare in un suono diverso. Mi piace questa metamorfosi. Se fai uno sforzato col pianoforte, non c’è molto cambiamento nel suono. Ma con le percussioni metalliche hai una trasformazione del suono che talvolta si avvicina all’elettronica».

Per festeggiare i suoi 90 anni ci sono state molte rassegne, retrospettive, festival, un po’ in tutto il mondo. Ma la manifestazione più importante – per la quantità dei lavori eseguiti, per la qualità delle esecuzioni, per gli omaggi scritti da altri compositori, per la grande partecipazione di pubblico – è stata la rassegna “Un giorno per Pierre Boulez” organizzata a Lucerna, da un festival al quale Boulez era molto legato, e dove aveva anche fondato la celebre Accademia nel 2003. Proprio gli allievi dell’Accademia, insieme all’Ensemble intercontemporain – le due creature predilette di Boulez – si sono uniti per eseguire Rituel in memoriam Bruno Maderna, con Matthias Pintscher sul podio, che ha colto molto bene il carattere ieratico e processionale di questo pezzo, con il suo raffinato gioco di echi tra gli otto gruppi strumentali disposti sui lati della sala. Pintscher ha anche diretto Notations, e alternando ciascun brano con l’originale versione pianistica. Immancabili l’esecuzione di Sur Incises, con i suoi frenetici intrecci ritmici, e gli echi spazializzati di Dialogue de l’ombre double, eseguito en plein air sulla terrazza del KKL; i musicisti dell’Accademia hanno interpretato altri lavori cameristici, mettendone a confronto le diverse riscritture, dal Livre pour quatuor, a Mémoriale (… explosante-fixe … Originel), a Messagesquisse, in un’esecuzione carica di energia proposta sia nella versione per violoncelli che in quella per viole. Nella stessa “folle giornata” bouleziana ci sono state anche otto prime mondiali, otto omaggi a Boulez commissionati dallo stesso festival. Heinz Holliger ha composto uno spigoloso brano per voce (quella duttilissima di Sarah Maria Sun) e tre strumenti, intitolato à plume éperdue. György Kurtág ha dedicato all’amico una Petite musique solennelle per orchestra, piuttosto semplice, costruita come una stratificazione di armonie attraversata da un lento melodizzare dei fiati. Si è impegnato di più Wolfgang Rihm con il suo Gruss-Moment, lavoro orchestrale intenso, imprevedibile, pieno di chiaroscuri. Pintscher ha reso omaggio a Boulez con un nuovo pezzo per pianoforte, Now, che alternava una parte virtuosistica e una più sospesa, dal carattere quasi impressionistico. L’inglese Christian Mason ha composto Open to Infinity: a Grain of Sand Pezzo, partitura per grande ensemble dal carattere sinuoso, dalla materia densa, stratificata, piena di glissati e zone meccaniche. Il composer-in-residence americano Tod Machover ha rivisitato le Strucutres di Boulez in un pezzo intitolato Restructures per due pianoforti e elettronica, a dire il vero un po’ ingenuo. Un po’ acerbi anche i due nuovi lavori per orchestra commissionati dalla Roche (“Roche Young Commissions”) a due giovani compositori: il polacco Piotr Peszat (Pensées Étranglées) e il canadese Samy Moussa (Crimson). Ma tutti questi pezzi erano un segno tangibile della grande eredità lasciata da Boulez alla cultura europea, assai prima della sua scomparsa, un’eredità che è di gran lunga superiore alle polemiche ideologiche che hanno punteggiato la sua carriera musicale. La sua vera forza è stata la battaglia contro il conservatorismo istituzionalizzato, contro la tendenza a indirizzare le risorse pubbliche alla conservazione della musica del passato. Boulez vi si è opposto con forza, ha creduto al ruolo dell’avanguardia con autentica passione (mai per interesse), sottolineando sempre come l’innovazione, la ricerca, anche il rischio, fossero una necessità. Anzi un’ovvietà, perché era esattamente quello che avevano fatto tutti i compositori nella storia della musica. Proprio per questo la sua morte non significa la morte della musica d’avanguardia, che è più viva e diffusa (anche geograficamente) adesso che negli anni in cui lui dominava la scena. Perché l’avanguardia musicale non è mai stata un monolite, destinato a scomparire con la scomparsa del suo ultimo testimone, ma un’esperienza plurale, che si è diversificata e moltiplicata, è stata declinata in modi diversi a diverse latitudini. Boulez lascia la sua musica, l’Ircam, l’Ensemble intercontemporain, ma soprattutto un humus fertile che ha continua a alimentare la nuova musica. «Pierre Boulez – dice il compositore Fabien Lévy, allievo di Grisey e Dalbavie – resta una figura unica di nume tutelare, brillante, esigente, polemico, un vero creatore, un fondatore. Certo è da tempo che si era voltato pagina, ma è lui che ci ha insegnato a voltarla».

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