Il Dodd Frank Act – la riforma finanziaria approvata dal senato statunitense l’anno scorso – ha disposto per le imprese americane nuovi obblighi di trasparenza: dalla pubblicazione dei redditi dei dirigenti a quella dei pagamenti fiscali versati ai governi stranieri, fino alla “Conflict Mineral Law”, che impone di dichiarare alla Security Exchange Commission, una sorta di Antitrust statunitense, la provenienza della materie prime acquistate all’estero.

  Si fa pressione sui grandi produttori di high tecnology, come Apple, Ibm, Intel, Research in motion (il produttore dei BlackBerry) e altre grosse società, affinché non contribuiscano più, sia pure indirettamente, al finanziamento delle guerre civili che ancora incendiano l’Africa centrale, tramite l’acquisto dei cosiddetti “minerali insanguinati”. Parliamo di stagno, tantalio, tungsteno e oro: tutti materiali fondamentali nel settore tecnologico e provenienti in gran parte da zone di conflitto, di cui 13congo_slide11-300x200sono spesso motore e carburante. Di per sé, non si può vietare il commercio dei minerali in questione né obbligare le società a cambiare fornitori, e l’amministrazione Obama, pur di colpire le finanze dei gruppi armati, ha puntato all’immagine dei colossi dell’hi-tech, contando sulla crescente coscienza etica dei consumatori. Si rischia però di sottoporre molti Paesi ad un embargo di fatto, a scapito dei minatori indipendenti e a vantaggio del contrabbando.

 Repubblica Democratica del Congo, XV anno di conflitto.

La legge contiene anche una disposizione che riguarda unicamente i minerali provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo, dov’è in atto una guerra da quindici anni: tra stupri di massa, carneficine e carestia, dal 1998 ad oggi sono morte più di cinque milioni di persone e si ritiene che siano circa due milioni gli esuli. Per questo il conflitto è stato indicato da un rapporto del 2000 dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, “Guerra mondiale africana”, trattandosi del conflitto più cruento dalla seconda guerra mondiale.

Alla fine degli anni Novanta, il sanguinario dittatore Mobutu viene sconfitto e deposto da un esercito guidato dal generale Kabila, che godeva del sostegno di Angola e Uganda. Subito dopo l’insediamento di Kabila, un gruppo secessionista di Tutsi scatena un secondo conflitto armato, approfittando dei finanziamenti di Ruanda, Angola, Nambia e Zimbabwe, Paesi limitrofi intervenuti spesso in territorio congolese – anche con regolare esercito di bandiera – con la speranza di Congo_Profughiappropriarsi così delle ricchezze minerarie del Congo orientale, in particolare della regione del Kivu. Con la vittoria alle urne del figlio di Kabila nel 2003 si è in qualche modo stabilita un tregua; ma, ancora oggi, il governo centrale non ha il controllo della zona orientale e la popolazione è alla mercé dei ribelli Tutsi e delle truppe irregolari dei Paesi confinanti. Entrambi, nella lotta di spartizione del territorio, contrabbandano materie prime. Il 19 dicembre 2005 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu è arrivata a stabilire che la sovranità della Repubblica democratica del Congo è stata violata dall’Uganda, che l’aveva saccheggiata di miliardi di dollari di risorse. In risposta, il governo del Congo ha chiesto 10 miliardi di dollari di indennizzo al governo ugandese. Inoltre, un rapporto governativo del 2009 ha denunciato che l’80% delle esportazioni minerarie del Paese sfuggono al controllo dello Stato.

 Giro d’affari da un milione di dollari al mese. E l’Onu?

La vendita di minerali costituisce la fonte finanziaria principale dei gruppi ribelli con i cui proventi si garantiscono armi e stipendi, mentre i generali si arricchiscono. La missione di pace delle Nazioni Unite approvata nel 1999, la più grande finora dispiegata, con circa 17 mila uomini impegnati e un costo annuo superiore al miliardo di dollari, non è mai riuscita a evitare i massacri della popolazione civile e da un anno si discute insistentemente di un suo ritiro graduale. Il 23 agosto scorso è stato perfino arrestato un impiegato della missione Onu per la stabilizzazione della Repubblica del Congo mentre cercava di esportare illegalmente in Ruanda 15 tonnellate di cassiterite, pregiato minerale molto diffuso nell’industria hi-tech. Altri membri della missione erano stati già denunciati per cooperazione con i gruppi ribelli o per scandali sessuali.

38330_408614202381_71253357381_5059544_4620026_nA maggio scorso, l’associazione statunitense Centre for American Progress ha lanciato la Raise Hope for Congo, una campagna per sensibilizzare i consumatori di prodotti hi-tech sulla presenza di minerali “insanguinati” nei loro accessori tecnologici preferiti (il video I’m A Mac… and I’ve got a dirty secret è su  http://www.youtube.com/watch?v=5Ycih_jMObQ). In breve tempo è nata un’ampia mobilitazione culminata nella grande manifestazione di protesta tenutasi a giugno scorso a Washington durante l’inaugurazione di un nuovo Apple Store, e nell’invasione della pagina Facebook di Intel di così tanti commenti indignati da farla chiudere al pubblico per alcune ore.

Le società sono corse ai ripari e hanno firmato un agreement redatto dalle associazioni di categoria, la Electronic Industry Citizenship Coalition che ha sede in Svizzera e la Global e-Sustainability Initiative di base a Washington. Il regolamento mira ad impostare degli standard di condotta su questioni quali il lavoro, l’ambiente e soprattutto vieta l’acquisto di minerali non conflict-free, ossia provenienti da aree di conflitto.

 La rischiosa intermediazione asiatica.

I Paesi produttori in alternativa non mancano: al momento l’Australia è il maggior esportatore di tantalio, seguita da Cina, Arabia Saudita, Egitto, Canada, Finlandia, Groenlandia, Brasile e gli stessi Stati Uniti. Il problema di fondo resta, però, il costo di estrazione, decisamente superiore a quello africano dove i diritti dei lavoratori non sono neanche concepibili.

Il Congo, comunque, resta al centro del mercato del coltan, un composto radioattivo di tantalio e 2cqxkpkcolombite, onnipresente per l’impiego in medicina (protesi e pacemaker), nei sistemi di navigazione, nell’aeronautica (motori degli jet), nell’ingegneria nucleare, senza considerare che è il componente fondamentale dei condensatori capaci di ottimizzare il consumo di corrente elettrica, e quindi presenti in tutti i telefoni, i computer, le consolle. Al momento, le miniere del Kivu sono la riserva di coltan più grossa al mondo. Lo sfruttamento è iniziato proprio con la guerra del 1998 che ha interrotto le attività agricole (il Kivu era il cosiddetto “granaio del Congo”) e indirizzato la popolazione locale verso le miniere: se con il contrabbando dei diamanti si riusciva a guadagnare 200.000 dollari al mese, con il coltan si arriva al milione di dollari. Ribelli e militari si avvicendano al controllo delle miniere, la cui espansione tra l’altro sta mettendo a rischio l’ecosistema delle due riserve nazionali Kahuzi-Biega e Okapi, già sotto la protezione della convenzione dell’Unesco World Heritage.

 Duecentomila minatori senza diritti.

Il blocco alle importazioni metterebbe a rischio l’occupazione – seppur precaria – di circa 200 mila minatori congolesi, che artigianalmente estraggono il coltan (manca un apparato industriale di sfruttamento). Il governo locale sta cercando di mettere a punto delle possibili soluzioni con il supporto delle Nazioni Unite, dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo e di gruppi industriali del luogo. Senza il controllo della regione sarà difficile istituire quei meccanismi di congoguerraetichettatura e di autenticazione dei minerali che esige la legge americana. John Kanyoni, presidente dell’associazione degli esportatori di minerali della provincia di Kivu Nord pensa invece di ritagliarsi un mercato alternativo in Asia, dove evidentemente gli acquirenti si pongono meno questioni etiche. Questa ipotesi potrebbe inoltre chiudere di nuovo il cerchio negativo facendo entrare senza difficoltà negli Stati Uniti i minerali insanguinati proprio attraverso la mediazione di Paesi asiatici come la Cina e la Corea. Intanto, tre mesi dopo l’approvazione della legge statunitense, l’Uganda ha annunciato la scoperta di tre miniere di coltan nel territorio al confine con il Sud Kivu. Anche se queste nuove miniere hanno ricevuto la certificazione delle Nazioni Unite, la tempistica del ritrovamento ricorda le dinamiche del contrabbando di diamanti: i preziosi minerali grezzi comprati al mercato nero congolese vengono dichiarati come estratti dalle miniere del Kasese, regione ugandese di confine. E il gioco è presto fatto anche per il coltan.

 Certificazioni, controlli e interessi.

Non esiste alcuna autorità internazionale che controlli e certifichi la provenienza del minerale, come pict_20101201PHT04556avviene – sia pure con grandi difficoltà – per i diamanti attraverso il Protocollo di Kimberley. Attivo dal 2003, il dispositivo è stato sottoscritto da quasi tutti i Paesi produttori di diamanti grezzi e stabilisce i “requisiti minimi” di trasparenza per assicurare lo scambio di informazioni sull’estrazione, sulle importazioni e sulle modalità di controllo interno. L’obiettivo era quello di far circolare sul mercato solo diamanti conflict-free, che ora rappresentano il 99% del commercio internazionale: alla nascita del protocollo ne stimavano circa l’80%. Per il coltan invece, in mancanza di un’organizzazione sovranazionale bisogna per il momento accontentarsi delle autocertificazioni delle società americane.

The Time for Justice Is Now. New Strategy Needed in The Democratic Republic of Congo Rapporto Amnesty International agosto 2011
Missione Onu in Congo. Rapporto Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo 2009

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