È divenuta celebre per spettacoli di danza come NoBody, Korper, Impromptus, e per le grandi performances al Maxxi di Roma e al Neuesmuseum di Berlino. Ma la coreografa Sasha Waltz coglie sempre nel segno quando si cimenta con un’opera. Sold out e applauditissimo anche il suo allestimento, alla Staatsoper di Berlino, di Matsukaze di Toshio Hosokawa.
Ispirato a un classico del teatro Nô, un dramma scritto da Kan’ami Kiyotsugu nel XIV secolo e poi ripreso da Zeami Motokiyo nel secolo successivo, il libretto di Hannah Dübgen (in tedesco) racconta la forza della passione amorosa, e le sue capacità distruttive, attraverso la vicenda di due sorelle, Matsukaze (che significa vento tra i pini) e Murasame (che significa pioggia d’autunno), che vivono della raccolta dl sale sulla spiaggia di Suma, nella provincia di Settsu. Si innamorano di Yukihira, un cortigiano in esilio. E poco dopo la sua partenza, ricevuta la notizia della sua morte, muoiono loro stesse di crepacuore. Trasformate in spiriti, cominciano a vagare sulla spiaggia, tormentate ancora dal desiderio, e ancora alla ricerca dell’uomo amato, illuse di rivederne le sembianze in un pino. I loro spiriti appaiono in sogno a un monaco pellegrino, e gli raccontano la loro storia, la loro condanna a rivivere la pena trasportando acqua salata come le loro lacrime, lo esortano a pregare per loro affinché possano ritrovare la pace e vincere i ricordi terreni. Poi svaniscono con il vento.

La tradizione orientale e l’avanguardia occidentale
L’idea di fondere insieme la tradizione dell’opera e quella del teatro Nô non è nuova. Ci avevano provato anche Kurt Weill e Bertold Brecht in Der Jasager, e Benjamin Britten in Curlew River. Ed è stata un’idea centrale anche nelle precedenti opere di Hosokawa, Vision of Lear del 1989, e Hanjo del 2004. Ma qui il compositore giapponese (nato nel 1955 a Hiroshima, allievo di Toru Takemitsu, Klaus Huber, Brian Ferneyhough, Isang Yun, a lungo attivo a Berlino) sembra essere riuscito compiutamente nell’opera di “fusione” tra tradizioni orientali e avanguardia occidentale, evitando soprattutto di fare della musica “esotica”. Hosokawa ha colto il nucleo di quella vicenda fatta di tensioni sublimate, ne ha conservato la dimensione contemplativa, le venature orientali (date ad esempio dalle campane giapponesi, o dall’arpa che imita il suono di un koto, l’antico strumento a corde di seta poggiate su ponticelli mobili), una certa aura ritualistica e religiosa. Ma all’interno di una drammaturgia compatta (non dilatata come quella del teatro Nô), piena di tensioni sotterranee, di trame percussive e evaporazioni sonore, dove anche il suono del vento, della pioggia, del mare fanno parte integrante della partitura. La struttura musicale è concepita come un’immensa arcata sonora, che prende avvio dal tranquillo rumore delle onde (registrate dal compositore sulla costa vicino a Tokyo), che culmina nella sconvolgente visione di Matsukaze, con una stridente muraglia sonora, punteggiata dalle esplosioni degli ottoni, e poi ritorna al silenzio carico di fremiti dal quale era partita. Una trama coleidoscopica e ipnotica, capace di suggerire il respiro della natura, e resa magnificamente dalla direzione di David Robert Coleman.

L’opera d’arte totale
Anche Sasha Waltz è riuscita in questo spettacolo (coprodotto e già rappresentato dal Théâtre Royal de la Monnaie, dal Grand Théâtre de Luxembourg e dall’opera di Varsavia), a fondere generi diversi, a dare vita a un nuovo esempio di Gesamtkunswerk, di opera d’arte totale, riprendendo l’ideale che fu di anche di Wagner, di Skrjabin, di Kandinskji, di Klimt, di Schönberg. Era una coreografia in perenne movimento, che mescolava cantanti e danzatori, che metteva insieme la dimensione statica di dramma ritualizzato del teatro No, e l’approccio muscolare, spettacolare, anche acrobatico, tipico della danza moderna. Attratta dalla dimensione del sogno e dell’incoscienza, da quello spazio intermedio tra vita e morte dove fluttuano le anime cercando di ritrovare un’armonia con la natura, la Waltz ha creato uno spazio vuoto con figure galleggianti nell’aria, e un continuo contrappunto di movimenti sulla scena, fatto di spettacolari giochi di specchi, di figure geometriche, di rallentamenti e improvvise accelerazioni, di movimenti di gambe e di braccia che si sommavano formando effetti di onde e di spirali. Le belle luci calde di Martin Hauk esaltavano gli effetti plastici, e davano un’impronta classica all’insieme, un po’ alla Puvis de Chavannes. Fondamentale l’apporto delle scene di Pia Meier Schriever e di Chiharu Shiota, artista che ha intessuto una gigantesca rete verticale di lana nera, una doppia ragnatela che rappresentava il diaframma tra la vita e la morte. Su quel reticolato emergeva qualche figura tirando fili lunghissimi, come una mosca impigliata, e le due sorelle e gli altri spiriti si aggrappavano e volteggiavano. Riuscire a muovere i personaggi a mezz’aria, e lì farli cantare, danzare e recitare, dev’essere stato il sogno di molti operisti e uomini di teatro. Se Sasha Wlatz c’è riuscita, è stato però anche per la straordinaria abilità delle due protagoniste, il soprano canadese Barbara Hannigan (già diretta dalla Waltz nell’opera Passion di Pascal Dusapin) nei panni di Matsukaze, e il mezzosorpano svedese Charlotte Hellekant, in quelli di Murasame. Bravissime entrambe nell’affrontare le loro impervie parti vocali, con fluidità e sicurezza, intrecciavano le loro voci insieme a quelle del coro (il Vocalconsort di Berlino) e due dei due interpreti maschili, il basso Frode Olsen (il monaco) e il baritono Kai-Uwe Fahnert (il pescatore). E intrecciavano i loro movimenti con quelli di tutti gli altri danzatori della compagnia. Da provette danzatrici.

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