Mancava molto Wagner alla Scala, dopo l’epoca di Barenboim. Ma è tornato con i Meistersinger, in un bell’allestimento di Harry Kupfer (già messo in scena all’Opera di Zurigo) e con la memorabile direzione di Daniele Gatti (che aveva già diretto l’opera a Salisburgo e a Zurigo). Kupfer ha cercato di togliere all’opera wagneriana ogni connotazione medievale, ma anche ogni riferimento alla Germania nazista (spesso si è letta la glorificazione dell’arte e della cultura germanica, da parte dei maestri cantori, come anticipatrice del nazismo).

Ha mostrato una Norimberga distrutta, dopo la Seconda Guerra Mondiale, scegliendo come scena fissa le rovine di una cattedrale gotica, diroccata, sullo sfondo di un cielo grigio e nuvoloso (scene di Hans Schavernoch). Una cattedrale sostenuta da impalcature, in fase di ricostruzione (e se non si fosse capito, c’era un cartello con la scritta: «Spenden für die Renovation»), che atto dopo atto sembrava riprendere vita: scomparivano le coperture di cellophane, spuntavano alberi fioriti, sullo sfondo le facciate annerite e i palazzi sventrati dai bombardamenti lasciavano il posto alle gru e ai grattacieli. Uno spettacolo di grande impatto visivo (accentuato dal palcoscenico girevole, che mostrava la cattedrale a 360 gradi) e dai contenuti profondi, dove tutto pareva simboleggiare la rigenerazione di una civiltà in grado di fare sintesi dell'”arte dei maestri” (le vecchie regole) con un nuovo afflato creativo, proprio come riassume alla fine dell’opera il saggio Sachs. Kupfer è stato anche abilissimo a muovere i personaggi con naturalezza (cosa non semplice in un’opera così complessa e piena di discussioni), a farli recitare con spontaneità, coordinando anche molto bene le scene corali con la musica. Senza peraltro rinunciare ad alcune soluzioni spettacolari, come la variopinta scena finale, dove l’entrata delle corporazioni era accompagnata da carri, gonfaloni, giocolieri e acrobati, su un palco che ruotava come una giostra.
Michael Volle era un Hans Sachs intenso e autorevole, con una voce piena, ricca di sfumature, sempre attento alla recitazione. Vocalmente impeccabile anche il Beckmesser di Markus Werba, peccato solo che gesticolasse un po’ troppo trasformando il suo personaggio in una specie di marionetta. Nobile il Pogner di Albert Dohmen, espressivo e ben timbrato il David di Peter Sonn. Pessima invece la prova di Michael Schade, un Walther fuori forma, con poca voce, acuti instabili e anche ritmicamente impreciso. Poco interessanti le interpreti femminili, soprattutto la Eva di Jacquelyn Wagner, con un bel caratterino (quando si arrabbiava, sbatteva tutto per terra) ma poca voce. Ma la scena, musicalmente, la rubava Daniele Gatti, che estraeva dalla partitura una materia orchestrale densa, una pasta omogenea, ma disegnando tutto con nitidezza e grande precisione, dipanando con naturalezza le linee cantabili, fondendo brio e calore, avvolgendo di sottile lirismo sia l’ouverture che la “gazzarra” contrappuntistica nel finale del primo atto, cogliendo la malinconia nel preludio del terzo atto, e tutta la delicatezza del quintetto.

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