ROMA. La disperata lotta del falco contro il serpente. La vita nei campi, bucolica, ma durissima. E poi lo sguardo impietoso su di sé nella sequenza degli autoritratti, dove dietro al volto emaciato e la barba incolta, però, si può scorgere la dolcezza di un panorama o il decoro di una raffinata carta da parati.

Sono le visioni e i tormenti di ”Antonio Ligabue”, artista dalla vita sfortunata e una delle figure più interessanti del Novecento, oggi protagonista della grande mostra promossa dalla Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri e dal Comune di Gualtieri, organizzata da Arthemisia Group e Creare-organizzare-realizzare, fino all’8 gennaio al Complesso del Vittoriano. Un excursus attraverso un centinaio di opere, con 80 dipinti, oltre a disegni e sculture, che ripercorre l’evoluzione del suo genio. ”Ma quale pittore naif. Ligabue ha sempre cercato una progressione, aveva coscienza d’artista. Stava ore a studiare, il corpo umano come gli animali”, esordisce subito Sergio Negri, tra i massimi esperti del maestro (che frequentò sin da bambino) e curatore della mostra insieme al direttore della Fondazione Ligabue, Sandro Parmiggiani. ”L’etichetta di naif – concordano entrambi – non gli giovò. Basta guardare le sue opere per rendersi conto quanto fosse piuttosto un espressionista tragico, quanto sia sempre andato a fondo con la sua pittura, cercando non solo la piacevolezza estetica, ma la forza interiore”. Ne è emblema il grande Leopardo con serpente del ’53-’55, uno degli 8 inediti esposti ”e uno dei pochi dipinti di Ligabue oggi di proprietà di privati”. Il percorso, in tre sezioni, segue il filone cronologico (’28-’39; ’39-’52; e ’52-’62) e insieme tematico (gli animali, gli autoritratti, le crocifissioni, i campi), a raccontare la maturazione artistica, soprattutto dopo l’incontro con Renato Marino Mazzacurati, e l’aggravarsi del tormento personale del maestro, sfociato in più ricoveri per disturbi psichiatrici (espulso dal suo paese, la Svizzera tedesca, nel 1919, visse fino alla morte a Gualtieri, lavorando all’inizio come scariolante sul Po e sentendosi tutta la vita un esule). Si va dai primi tentativi come Caccia Grossa del ’29 all’Autoritratto con berretto da fantino (1962), tra gli ultimi dipinti poco prima che la malattia chiudesse per sempre la sua carriera. E poi gli olii Carrozza con cavalli e paesaggio svizzero, Tavolo con vaso di fiori, il Gorilla con donna, accanto a sculture in bronzo come Lupo siberiano o disegni e incisioni come Mammuth e Sulki. ”In tutte le opere – dice Parmiggiani – spira un vento di sofferenza e dramma: uno strazio interiore che vediamo negli occhi dei suoi autoritratti, come in quelli dei suoi animali. Ma che diventa grande pittura”. E dietro quelle tele dai colori sgargianti, anche aneddoti quasi incredibili, da un’Aratura con buoi ‘regalata’ a un capitano della Polizia municipale in cambio di qualche pezzo di vecchie motociclette (una delle grandi passioni di Ligabue) al Serpentario ”commissionato nel ’61 da un industriale di Carpi per 350 mila lire. Ligabue – racconta Negri – ne era entusiasta, ma all’altro non piacque e non lo volle. Ricordo ancora la testa china del maestro in auto mentre tornavamo a casa. Questa – conclude – è una delle più belle mostre a lui dedicate dal punto di vista estetico e per la qualità del materiale. Spero susciti lo stesso interesse di quella del ’61 a Roma, quando finalmente scoppiò una febbre su giornali e tv intorno al ‘Caso Ligabue”’.

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