È una delle regioni italiane più impegnate nella valorizzazione del proprio territorio e delle testimonianze delle civiltà che ne hanno fatto grande il passato e fissato l’identità. Custode gelosa della propria unità culturale e linguistica, culla di siti archeologici poli d’attrazione per studiosi di tutto il mondo, cantiere aperto, sensibile agli orientamenti della ricerca nazionale, e terreno di dibattito continuo, la Toscana è un’instancabile promotrice di iniziative culturali originali e interessanti come l’Archeofest – un fitto programma di iniziative incentrate sulla straordinaria dimensione archeologica e naturalistica della Terra di Siena – che offre mostre temporanee, convegni, rappresentazioni teatrali legate a temi dell’antichità, laboratori educativi per adulti e bambini, aperture straordinarie con visite guidate, percorsi a piedi.

Senza dimenticare il Festival internazionale del cinema archeologico, a Pisa, con un fitto programma di documentari e il meeting Mediterraneo: archeologia fra crisi e conflitti che ha riunito direttori dei musei, archeologi, rappresentanti dei governi e giornalisti per esaminare le conseguenze dell’impatto della situazione geopolitica sul patrimonio archeologico mondiale, in particolare sulla tutela dei siti, dei reperti e più in generale dei musei.
Nonostante questo grande impegno, anche la Toscana spesso rimane imprigionata nei cavilli e nel malcostume della burocrazia italiana. Anche in questa regione si registrano numerosi siti archeologici abbandonati, progetti costosi mai ultimati, soldi svaniti nel nulla, promesse non mantenute. Vediamo alcuni di questi siti.

FossaneraArea delle Cento Fattorie o Fossa Nera
Porcari (LU), Piana di Lucca
Situata in età antica sulla sponda sinistra del basso corso dell’Auser, l’area archeologica di Fossa Nera, nella Piana di Lucca, conserva consistenti resti di un’abitazione rurale di età romana, edificata nel II secolo a.C. e occupata fino all’età tardoantica. Le indagine archeologiche, con sistematiche campagne di scavo condotte dal 1987 da Michelangelo Zecchini, hanno individuato anche tracce di precedenti fasi insediative; in particolare, resti di un villaggio dell’età del Bronzo e di un abitato etrusco del V secolo a.C. Quest’ultimo doveva essere costituito da un piccolo agglomerato di abitazioni, con le relative strutture di servizio; sono state rinvenute alcune grandi buche con probabile funzione di silo per la conservazione di derrate. In prossimità dell’area di abitazione si trovavano inoltre due fosse di discarica, che hanno restituito numerosi reperti ceramici. Dopo l’abbandono dell’insediamento etrusco, l’area viene rioccupata nel II secolo a.C. dai romani. L’edificio tardorepubblicano, i cui resti sono attualmente visibili nell’area archeologica, presenta un apparato per la spremitura dell’uva. A partire dall’età augustea, la fattoria viene ristrutturata e progressivamente ampliata. Ulteriori ristrutturazioni e ampliamenti sono documentati infine per l’età tardoantica, con numerosi reperti che ne attestano ancora la consistente occupazione.
Come in altri siti della piana lucchese (Chiarone), anche a Fossa Nera, l’alternanza tra periodi di abbandono e fasi di occupazione, è strettamente connessa con il particolare contesto ambientale del basso corso dell’Auser, tendente, in periodi climaticamente sfavorevoli e in assenza di consistenti opere di regimazione, ad esondare nella piana, allagando e impaludando ampie zone.
Anno della scoperta: 1987

 

Il progetto interrotto
Gli insediamenti agricoli, rinvenuti quasi intatti, costituiscono un tesoro archeologico unico che permette di ricostruire l’aspetto del paesaggio di duemila anni fa. Questa certezza ha spinto alcuni enti toscani a finanziare un ambizioso progetto. Il 20 novembre 2004 è stato presentato il progetto “Il parco archeologico naturalistico delle 100 Fattorie Romane della Piana di Lucca” finanziato da Regione Toscana, Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Provincia di Lucca e Comuni di Porcari e Capannori. Il progetto, costato 300.000 euro, ha portato alla realizzazione del Parco archeologico naturalistico della Piana di Lucca nell’area di Palazzaccio e Fossanera (nei comuni di Capannori e Porcari). Gli interventi effettuati hanno riguardato sia la ricognizione del territorio, l’esecuzione ed il rilievo degli scavi archeologici, il restauro delle strutture antiche, gli approfondimenti scientifici del sito. Sono state inoltre realizzate le strade di accesso, le passerelle, i percorsi didattici per i visitatori, è stata allestita la cartellonistica, l’apparato didattico, un sito web e un dvd. È stato eseguito il restauro dei reperti e la conseguente schedatura degli oggetti che faranno parte del museo archeologico di Porcari.
Si tenga presente l’alto valore ambientale e le bellezze naturali della zona, considerata un’oasi unica racchiusa tra i Monti Pisani e le Cerbaie, tanto da costituire un anello fondamentale per l’intero sistema ecologico della Toscana settentrionale. Questa doppia ricchezza archeologica e naturalistica, storica e ambientale, è diventata l’ennesima occasione sprecata insieme a centinaia di migliaia di euro. Dei 300.000 euro stanziati, mancano all’appello i 50 mila euro della Provincia, i 65 mila di Porcari e i 18 mila di Capannori. Zecchini ha visto solo una parte dei soldi. E così un progetto che aveva catturato studiosi di tutto il mondo si è fermato.

 

Incuria e stato di abbandono
Il sito è visitabile, ma in molti lamentano un parziale stato di abbandono, la cartellonistica in deterioramento e difficoltà di raggiungimento. Bastano le buche nella strada di accesso per capire che più che una gita nel parco definito naturalistico-archeologico, sembra di essere in una sorta di escursione Camel Trophy. Il terreno è decisamente impervio, il rischio di restare impantanati è costante anche senza maltempo. “Una vergogna l’abbandono del Parco delle Cento Fattorie Romane del Frizzone. Vanificati anni di lavoro e sprecati 700 mila euro”. Non usa mezzi termini il consigliere provinciale del Pdl, Maurizio Marchetti. La Soprintendente ai Beni Archeologici della Toscana, Mariarosaria Barbera, precisa che il Parco Archeologico delle 100 Fattorie Romane del Frizzone non fa parte dei progetti della Soprintendenza ma è di competenza di Provincia e Comune a causa, a quanto pare, della mancanza di una firma del presidente Baccelli su un semplice certificato riguardante la privacy. Alcuni turisti sostengono di aver trovato nell’area un capanno da cacciatori, con tanto di cartucce a pallettoni lasciati in prossimità dei siti.
Sito sotto la tutela della Soprintendenza Archeologica della Toscana e del Comune di Vicopisano (Pi). E non è l’unico, per la zona di Lucca.

 

FrizzoneTempio di Dioniso
Capannori (Lu)
Nel 2006, durante la costruzione del nuovo casello autostradale di Capannori, è emerso dagli scavi un tempio dedicato a Dioniso, tutto in legno di quercia, legno di 2150 anni. Una cosa mai vista, unica. Si tratta infatti dell’unico edificio in legno di epoca romana che è riuscito a sopravvivere. E questo grazie alla coltre di limo fluviale che lo ha preservato dagli agenti esterni con una sorta di “effetto Pompei”. Ancora entusiasmo. Provincia e Autostrade per l’Italia hanno subito firmato un accordo per realizzare accanto al casello un museo sotterraneo dove custodire il tempio. Il museo, 240 metri quadrati di superficie, è stato costruito da Autostrade, ma è vuoto. Il tempio è oggi immerso nelle vasche di acqua depurata del laboratorio Piacenti di Prato e rischia lo sfratto perché i Piacenti non hanno mai ricevuto il denaro per il restauro. «Si tratta di un lavoro molto delicato – spiega Gianmarco Piacenti – perché le travi, sopravvissute per tutte questi secoli, sono imbevute d’acqua. Il rischio che si incorre in questi casi è quello di asciugare il legno e vederselo frantumare. Per questo le travi sono mantenute dentro delle vasche con acqua sterile in modo da eliminare tutte le impurità in attesa di arrivare al processo di consolidamento. Lo scopo finale è quello di sostituire l’acqua, che al momento funge per così dire da collante, con un’altra sostanza. Stiamo studiando insieme all’Università di Firenze quale sia la soluzione migliore da adottare». Il lavoro si prospetta molto lungo: sono previsti altri tre anni prima di poter pensare di riportare le travi sul luogo del loro ritrovamento. Oltretutto finora la società Autostrade ha finanziato il trattamento conservativo ma non quello di consolidamento. Chi sogna ad occhi aperti aspettando il momento di ricomporre il puzzle romano è il direttore degli scavi del Frizzone, Michelangelo Zecchini, direttore del Dipartimento archeologia dell’Unesco. «È una scoperta unica al mondo – sottolinea Zecchini – In genere i reperti romani non si trovano in profondità ma sotto un metro di superficie».

 

L’area sacra
Sempre nella stessa area, sono stati rinvenuti anfore, bicchieri, boccali, coppe e una terracotta raffigurante Dioniso con la cetra usata come decorazione esterna. «La presenza di un tempietto in pietra – spiega Zecchini – rappresenta un’ulteriore testimonianza che si trattava di un’area sacra. Lì abbiamo trovato anche quattro scheletri di neonati e i resti ossei di un cane. Sono passati cinque anni dal momento in cui gli scheletrini furono ricoverati nel deposito “Cavanis” di Porcari, gestito da Giulio Ciampoltrini, funzionario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Dalle sue dichiarazioni pubbliche si apprende con sorpresa e sgomento che ancora non ha fatto restaurare quelle esili ossa. La giustificazione è che mancano i soldi. Ma è fuor di dubbio che i soldi ci sono stati, e nemmeno pochi, giacché i reperti del Frizzone hanno beneficiato di un sostanzioso finanziamento da parte di una Fondazione bancaria. Evidentemente, si è preferito utilizzarlo in toto per scopi (restauro di ‘cocci’, un convegno locale …) che attraggono interrogativi amari. Per quale motivo, pur possedendo gli strumenti necessari (soldi ed esperti più che disponibili), chi ne aveva il dovere non è intervenuto d’urgenza?». Dello stesso parere Francesco Mallegni, professore ordinario di Antropologia presso l’Università di Pisa, che si è candidato, dietro un modestissimo compenso, per lo studio degli scheletri.

 

Castello della Verruca
Castello medievale Monte Verruca, Vicopisano (Pi)
La Rocca della Verruca è una antica e cadente fortificazione eretta dalla Repubblica di Pisa sui monti pisani e collocata in una posizione tale da dominare tutta la piana pisana e la valle dell’Arno. Di qui la sua importanza strategica ed il motivo per cui fu a lungo contesa tra pisani e fiorentini. La Verruca è indicata con il nome di “rocca”, piuttosto che quello di “castello”, per la sua dislocazione e per il suo aspetto massiccio, ma anche per il fatto di essere un complesso architettonico esclusivamente militare, per i suoi apprestamenti unicamente difensivi e non residenziali. È probabile che esistesse un borgo ai piedi del roccione su cui è edificata la rocca, ipotesi convalidata anche dalla presenza della chiesa e del monastero di San Michele.

 

LeonardoScontri e assedi tra fiorentini e pisani
La Rocca esisteva sicuramente prima dell’anno Mille. In un documento del 21 Luglio del 996, in cui l’Imperatore Ottone III conferma all’abate Majone tutti quei beni che l’abbazia possedeva precedentemente, è citata per la prima volta “… Rocca etiam que dicitur Verruca…” insieme all’abbazia di San Michele alla Verruca. Esisteva quindi un importante nucleo costituito da due distinti insediamenti: la Rocca posta sulla sommità del colle e la Chiesa di S. Michele Arcangelo posta alla base dello stesso. In un registro di censi della Chiesa Romana del 1192 viene invece nominata per la prima volta la fortezza “ ..et pro quodam campo juxta Rocam”.
La Verruca fu protagonista di continui scontri e assedi, contesa tra fiorentini e pisani sino al 1503, quando cadde sotto l’assalto delle truppe francesi e quindi passò sotto il controllo dei fiorentini che decisero di fortificarla ulteriormente. Del progetto fu incaricato il più famoso ingegnere militare del tempo: Leonardo da Vinci. È riferibile a questo periodo tutta la serie di vedute dei Monti Pisani e della piana di Pisa contenute nel codice di Madrid II. Una leggenda narra che Leonardo avrebbe preso ispirazione proprio dall’altezza ripida in cui si trova la rocca per progettare le sue macchine per il volo.

 

CalciScavi aperti soltanto a luglio (con prenotazione)
Perduta ogni validità militare dal XVI secolo e del tutto abbandonata, oggi è mèta di scampagnate per la sua importanza panoramica e paesaggistica. Forse di qui la leggenda secondo cui sarebbe stata collegata con la città di Pisa mediante una galleria sotterranea.
Oggi la rocca versa in rovina, sebbene sia proprio questo suo aspetto decadente a renderla tanto affascinante e sia il suo stato di abbandono a trasmettere a chi vi si reca quel senso di mistero conservato nelle mura avvolte dalla vegetazione.
Una fortezza non del tutto esplorata nella quale ogni tanto emergono aperture dal suolo che conducono verso stanze nascoste, passaggi segreti luoghi mai solcati o ricoperti di terra franata  che conservano ancora chissà quali oggetti o segreti. Non sono stati effettuati restauri ed opere di valorizzazione e conservazione.
Gli scavi sono visitabili solo nel mese di luglio con partenza da Vicopisano, su prenotazione.
Sito tutelato dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e dai Comuni di Calci e Vicopisano. È la Compagnia dei Calci, associazione culturale nata nel 2003 a tutela del territorio e dell’ambiente di Pisa e provincia, ad occuparsi della conservazione della Verruca. Il 12 novembre 2009 La Compagnia ha ottenuto da Costantino Conforti la concessione di comodato d’uso gratuito della parte di Rocca di sua proprietà, che corrisponde alla parte di Verruca (particella catastale 289) sita nel territorio comunale di Calci. I volontari dell’Associazione si impegnano costantemente in opere di pulizia e di messa in sicurezza, allo scopo di salvaguardare la Verruca dallo stato di abbandono e di rendere visibili ai numerosi visitatori le strutture minacciate dalla vegetazione. Le radici di lecci, edera, rovi e altri arbusti minacciano seriamente la solidità delle loro fondamenta.

 

abbazia_san_micheleAbbazia di San Michele alla Verruca
Monastero cistercense medievale (IX-XV secolo) Monte Verruca, Vicopisano (Pi)
Il monastero di San Michele alla Verruca sorge sul Monte Grande, a 440 metri di altezza, su un ampio pianoro sottostante al rilievo roccioso della Verruca.
Il cenobio benedettino di San Michele è ricordato per la prima volta nel 996, mentre una chiesa privata situata nello stesso luogo era già attestata a partire dall’861. È solo nella prima metà del XII secolo però che i monaci benedettini riedificano interamente il monastero, tipicamente costituito da un chiostro centrale intorno al quale si distribuiscono la chiesa abbaziale e gli edifici canonici. È la fase romanica del complesso architettonico che si è conservata in planimetria fino ad oggi.
A partire dal 1260 l’abbazia passa ai Cistercensi che eseguono una serie di modifiche anche strutturali degli edifici per adattarli alle regole della loro liturgia. Entro i primi decenni del XV secolo i monaci di San Michele abbandonano il monastero per trasferirsi definitivamente in quello di San Ermete in Orticaria nei pressi di Pisa.
Il complesso è nuovamente occupato sullo scorcio del Quattrocento, quando prima le truppe pisane e poi quelle fiorentine si stanziano a San Michele nell’ambito delle guerre per la conquista di Pisa.
Dalla fine del XV secolo il monastero rimane in buona parte distrutto. Nei secoli successivi i ruderi sono usati da carbonai e boscaioli come riparo temporaneo fino agli inizi del XIX secolo, quando crolla anche la chiesa.
Gli scavi archeologici, diretti da Sauro Gelichi docente dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, in collaborazione con l’Archeoclub di Pisa ed i Comuni di Vicopisano e Calci hanno permesso di individuare le principali fasi insediative:
1) la fase premonastica, quella cioè riferibile all’esistenza di una cappella con la medesima intitolazione (IX secolo);
2) la fase monastica benedettina, che non possiamo far risalire a prima della fine del X secolo;
3) la fase cistercense, cioè quella del momento in cui il monastero passò sotto il controllo del nuovo ordine (circa la metà del XIII secolo);
4) la fase fiorentina, o meglio l’occupazione degli spazi del monastero da parte delle truppe fiorentine in occasione dell’assedio alla fortezza della Verruca verso l’ultimo quarto del XV secolo;
5) il definitivo abbandono e temporaneo riutilizzo dei ruderi, certificato dalle descrizioni di alcuni viaggiatori (tra cui quella del Targioni Tozzetti) e da tutta una serie di disegni, che trascrivono anche visivamente la situazione di degrado e di collasso delle strutture del monumento. Questa sequenza è documentata di nuovo solo dall’evidenza archeologica. Frequentazioni occasionali, come ripari all’interno della grande cisterna o l’utilizzo della chiesa, sono certificati da ceramiche, strutture e livelli di frequentazione sui crolli o sugli edifici oramai in rovina. Da questo momento in poi, oltre che un’area di appoggio per quelle comunità legate ad un’economia del bosco, ciò che resta del monastero diviene una sorta di quinta scenografica per quanti, scrittori, disegnatori e paesaggisti, intendono illustrare le antichità sul Monte Pisano.
Anno della scoperta: inizio scavi nel 1996. Lo scavo di San Michele alla Verruca rappresenta una delle più lunghe esperienze archeologiche (1996-2003) che abbiano interessato un sito dell’Italia medievale e, sicuramente, il primo monastero estesamente indagato di tutta quanta la Tuscia. Un cantiere che ha visto la sperimentazione di metodi diagnostici ancora poco presenti nelle operazioni di recupero e restauro dei grandi monumenti architettonici o di aree archeologiche nel nostro Paese; che ha registrato la presenza di numerosi studenti e dottorandi di diverse università italiane e straniere, insieme ad un folto gruppo di volontari; che è stato anche luogo di studio e di formazione per giovani ricercatori. Un cantiere aperto, dunque, sensibile agli orientamenti della ricerca nazionale ed anche terreno di dibattito e di discussione continui.
Non risultano essere stati effettuati restauri ed opere di valorizzazione e conservazione.
Il sito è raggiungibile ma non inserito in un piano stabile di tutela, conservazione e visita. La strada non è asfaltata e il tragitto è molto scomodo.
Sito tutelato dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana e dal Comune di Vicopisano (Pi).

 

TumuloTumulo del principe etrusco
Pisa, via S. Jacopo
Il tumulo si trova in un’area funeraria di epoca etrusca (VIII-VII sec. a.C.). È situato a 4 metri di profondità dal terreno e ha un diametro di circa 30 metri. Al suo interno sono stati rinvenuti resti umani che fanno supporre si trattasse di un monumento funebre dedicato a una persona socialmente rilevante, un principe pisano. La tomba è infatti situata al centro di un complesso di tombe più piccole, in modo analogo all’organizzazione sociale della comunità etrusca. Il tumulo è databile tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C.
Anno della scoperta: 1994/1998.
Sono stati effettuati restauri ed opere di valorizzazione e conservazione.Il sito è visitabile secondo un orario irregolare (Marzo, Aprile, Maggio, Giugno, Settembre, Ottobre: da martedì a venerdì 9:00-12:00; sabato e domenica 9:00-12:00 16:00-18:00. Luglio Agosto: da martedì a domenica 18:00–20:00. Novembre Dicembre Gennaio Febbraio: apertura su prenotazione e per gruppi precostituiti. Chiuso il lunedì.) Quest’anno sono state organizzate delle aperture straordinarie con visite guidate gratuite in collaborazione con il Gap (Gruppo Archeologico Pisano) e con l’ Associazione Guide Turistiche Pisatour nelle date del 17 e 24 giugno, 8 e 29 luglio, 2 e 30 settembre.
Sito tutelato dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana, e dal Comune di Pisa.

 

Colle del Pionta
Sepolcreto di età romana, cittadella vescovile e Duomo I-XIII sec (rinvenimenti anche di epoca tardo etrusca) Arezzo, Colle del Pionta
Anno della scoperta: scavato già dagli inizi del Novecento (1911), oggetto di scavi negli anni Sessanta, ripresi negli anni Settanta e continuati dall’Università di Siena tra il 2001 e il 2005.
Non risultano essere stati effettuati restauri ed opere di valorizzazione e conservazione.
Il sito non è visitabile in quanto invaso da erbacce e rifiuti, a cui si aggiunge l’assenza di pannelli informativi.
La proprietà è comunale anche se ‘in teoria’ gli scavi si trovano in un’area concessa alla Asl che rimpalla con il comune di Arezzo gli oneri e le attività di pulizia del sito. Il risultato è uno: l’abbandono totale del sito.

 

Poggio Cavolo
Villaggio medievale (VIII-XII sec d.C.) Poggio Cavolo
Anno della scoperta: ricognizioni alla fine del XX secolo e scavo negli anni 2004-2006.
Non risultano essere stati effettuati restauri ed opere di valorizzazione e conservazione.
Il sito non è visitabile perché di proprietà privata. Versa nel totale abbandono, è sotto la tutela del Comune di Grosseto e della Soprintendenza archeologica.

 

Fattoria dell’Acquarella
Sito denominato “Acquarella”. Località Capezzano Pianore, Camaiore (Lu)
Fattoria romana (II-I sec. a.C.), re-insediata in età tardo antica (IV-V sec. d.C.) e medievale (VI-VII sec. d.C.), con pre-esistenze etrusche (VI sec. a.C.).
Lo scavo della fattoria romana dell’Acquarella ha permesso di riconoscere diversi ambienti legati al ciclo produttivo dell’olio, quale viene descritto nei trattati di agricoltura di epoca romana, in particolare da Catone, Columella e Plinio il Vecchio. Sono stati riconosciuti l’ambiente che ospitava il torchio per la spremitura delle olive, una serie di vasche per la raccolta e la decantazione dell’olio e un magazzino nel quale si trovano sei grandi orci in terracotta. L’edificio ebbe certamente una vita prolungata con interventi di ristrutturazione. L’area archeologica riveste un’importanza particolare anche per la presenza di testimonianze di occupazioni precedenti e successive alla vita della fattoria. Sotto l’impianto romano infatti sono stati individuati materiali e strutture relative ad un edificio etrusco, risalente al VI-V secolo a.C. Sulle strutture superstiti della fattoria romana invece sono stati riconosciuti i resti di modeste case in legno con tracce di attività domestiche e produttive del periodo altomedievale.
Anno della scoperta: 1994
AcuarellaSono stati effettuati recentemente restauri (pavimentazione e strutture romane).
Il sito non è visitabile perché si trova in un terreno privato e attualmente risulta in allestimento; una scelta dei materiali è visibile al Museo Archeologico di Camaiore. La situazione è stata complessa in quanto la zona archeologica era di proprietà privata. Fu individuata infatti durante i lavori di costruzione di una villetta. Dopo una prima segnalazione del gruppo archeologico locale, la zona venne presa in carico dalla Sovrintendenza dei Beni Archeologici della Toscana che avviò diverse operazioni di scavo e recupero e coprì tutta l’area con una grande tettoia. Nel 2005 i lavori si bloccano: Comune e privati non si accordano sulla proprietà. Il Comune promette che una volta divenuto proprietario della fattoria dell’Acquarella, la Sovrintendenza potrà riavviare gli scavi grazie ad un grande progetto di recupero e valorizzazione del valore di 500 mila euro. La situazione non decolla. Il segretario Pd di Camaiore, Alessandro Del Dotto lancia accuse durissime contro il Municipio: “Il Comune di Capezzano ha perso, per pura inerzia, ben 300 mila euro che la Regione Toscana aveva messo a disposizione per la valorizzazione dell’area archeologica dell’Acquarella e che ora giacciono inutilizzati. Abbiamo perso un’occasione di rilancio turistico. L’Amministrazione non sa cosa vuole fare in questa area. C’era un progetto di parco archeologico che l’Ufficio Musei aveva predisposto per l’amministrazione. Non si è concluso nulla. L’area è di proprietà privata. Non si è arrivati ad un accordo. Se oggi volessimo fare qualcosa dovremmo fare un nuovo progetto, ricoinvolgere la Soprintendenza e ripartire da zero. L’amministrazione deve mettere mano a questo progetto perché l’area dell’Acquerella potrebbe costituire un’attrattiva turistica importante verso questo territorio e una grande risorsa economica”. Altra denuncia, questa volta da un cittadino: «Si portano via anche i sassi». Secondo il giovane, spesso, di notte, alcuni ragazzi portano via sassi e pezzi di cocci dell’area archeologica. A chiudere il passaggio agli estranei dal sito archeologico c’è una rete. Ma uno dei due cancelli è lasciato aperto. E la rete, comunque, è così bassa che basta veramente poco per scavalcarla.
Il sito è sotto la tutela del Comune di Camaiore e della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana

 

Villa romana di Giannutri
Villa romana I sec. d.C. Isola di Giannutri (Gr)
Anno della scoperta: sottoposto a tutela archeologica dal 1973
Il sito archeologico di Giannutri è tornato pubblico nel 2004 quando la Regione Toscana ha acquistato, al prezzo di 86.000 euro, il lotto su cui sorge la Villa Romana di Giannutri, sottoposta a vincolo di tutela archeologica dal 1973. Il lotto è stato messo all’asta dopo il fallimento della società proprietaria. L’acquisizione si colloca a pieno titolo nelle politiche regionali per la conservazione dei beni culturali della toscana e la loro valorizzazione come strumento di crescita economica e culturale della Regione. Ufficio Stampa – Giunta Regionale Toscana, Comunicato stampa del 23/01/2004: “Ora che la Villa ha di nuovo un proprietario disposto a prendersi cura della sua conservazione e del suo ruolo nel panorama di siti archeologici della Toscana, dobbiamo pensare a far nascere e crescere rapporti costruttivi di collaborazione tra Regione, Ministero per i beni culturali e le attività culturali e Parco nazionale dell’arcipelago toscano. Ora che l’intero sito archeologico è tornato ad essere di proprietà pubblica, in accordo con le altre istituzioni dovremmo studiare un modo per promuovere l’area. Un ruolo chiave in questo senso potrà essere svolto anche dalla Provincia, che si è dimostrata interessata a partecipare attivamente alla valorizzazione della Villa, e dalla Soprintendenza archeologica, che è l’unica ad avere le competenze necessarie per assicurare l’assistenza tecnico-scientifica di cui il sito ha bisogno”.
Villa Domizia fu costruita dalla famiglia imperiale dei Domizi Enobarbi, nella seconda metà del primo secolo dopo Cristo. Fu eretta senza risparmio di finanze ed energie in un territorio impervio e totalmente privo di acqua e di materie prime. Posta sulla costa occidentale, si estende verso l’interno e si integra con due approdi, Cala Maestra, a occidente, e Cala Spalmatoio, a oriente.
Le strutture collegate alla villa occupano un’estensione di circa quattro ettari e si distribuiscono su tre piani. La villa un tempo doveva essere ricca di marmi, mosaici e affreschi. Oggi, delle decorazioni restano solo tracce, mentre sono ben conservate le strutture murarie e un peristilio interno.
Il complesso comprendeva gli alloggi della famiglia imperiale, dove tre saloni dovevano essere addirittura provvisti di impianto di riscaldamento, quartieri per gli schiavi, terme, annessi. È ancora oggi ben visibile il sistema di condutture e cisterne che distribuiva in tutta l’isola l’acqua piovana raccolta, o quella importata dal continente attraverso navi. Da segnalare il fatto che l’approdo di Cala Spalmatoio e una delle cisterne romane sono ancora oggi utilizzati dalla popolazione residente.

 

Il custode volenteroso
L’Isola si raggiunge con il servizio effettuato dalla compagnia di navigazione Maregiglio che ha sede a Porto Santo Stefano da dove partono le motonavi, nella stagione estiva esiste anche un servizio direttamente da Giglio Porto. Famosa per i suoi mosaici e per le poche colonne che rimangono in piedi, era visitabile fino a qualche anno fa nel primissimo pomeriggio, chiedendo al custode (presso un ristorante di Cala Maestra, oggi chiuso) di aprire il cancello. Il custode apriva, i visitatori visitavano indisturbati, qualcuno calpestava le incerte tessere dei mosaici pavimentali, altri si limitavano invece a gioire della bellezza dei luoghi e dell’incomparabile panorama sull’Isola del Giglio fra le colonne antiche e i muretti fatti di mattoncini obliqui. Poi il guardiano è morto; il compito si aprire i cancelli passò al figlio, ma poco dopo morì anche lui, poi il ristorante fu chiuso, e più a nessuno fu assegnato l’incarico di portare i rari visitatori a vedere la villa romana nelle ore più calde del giorno. Oggi il sito non è visitabile come indicano i numerosi con cartelli di divieto d’accesso. È coperto di vegetazione, tutto il complesso è in via di progressivo disfacimento. Come spiega la Paola Rendini – archeologa della Sovrintendenza Toscana che si è occupata di Giannutri – “fin da quando ci si è cominciati ad occupare della tutela e valorizzazione della villa romana, gli intenti storico-scientifici ed anche quelli tesi alla fruizione pubblica del bene archeologico si sono scontrati con situazioni giuridico-amministrative, problemi di proprietà pubblica/privata, conflitti di competenze fra diversi enti pubblici. In questo ginepraio è veramente difficile operare. Non è giusto scatenare campagne di stampa sullo stato di abbandono “scandaloso” della villa romana. Sarebbe meglio piuttosto impegnarsi a far funzionare con efficienza gli enti preposti, e far conoscere il più possibile questo tesoro da proteggere e da mostrare ai visitatori”.
Il sito è sotto la tutela del Ministero Ambiente e della Soprintendenza archeologica toscana
Quello che emerge dalla situazione archeologica toscana, è che in Italia si è abituati a pensare che il patrimonio culturale sia essenzialmente costituito di manufatti e di oggetti portatori di valori universali, condensatori della memoria storica nazionale. Non vi è dubbio che sia così, tuttavia gli oggetti non sono l’unica chiave di accesso alla conoscenza del passato. È necessario imparare a comprendere i nessi tra le “cose”, e tra queste e il territorio. Occorre andare al di là della semplice elencazione ed esposizione degli oggetti per riuscire a raccontare anche fatti e storie, per descrivere comportamenti e fenomeni. Così come vanno custoditi gelosamente i reperti antichi allo stesso modo va preservato il contesto archeologico da cui essi provengono, perché il reperto “narra” di quel contesto. È su questo che va concentrata l’azione di tutela, facendo in modo che non si perdano irrimediabilmente le opportunità che ancora ci vengono offerte. Solo allora si compirà un passo in avanti nella conoscenza del proprio passato.

2/Continua (in allegato la prima puntata sul Molise pubblicata il 13 luglio 2012)

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