Il 12 gennaio a Lecce c’è stato un concerto dei Band Aid, una storica band italiana che negli anni ‘70 e primi ‘80 ha espresso una musica piena di vitalità e di tensione creativa, mischiando generi e latitudini con un’energia irridente.
Dopo 40 anni di silenzio, questi musicisti che hanno nel frattempo fatto ovviamente altre cose, sono tornati insieme rimettendosi in gioco ora che l’età della pensione li vorrebbe vedere invece ritirarsi nella comodità e insieme fatica dei bei ricordi.
Sono andato pieno di aspettativa a questa serata.
Conoscevo alcuni di loro, soprattutto uno dei leader, Tony Robertini, che ho frequentato per qualche tempo e amato molto in giovinezza, scomparso pochi anni dopo che la band si sciogliesse nel 1985.
Non mi sarei mai aspettato però tanta freschezza, tanta forza musicale e intellettuale che invece ha vibrato lì sul palco per due ore tiratissime, che il bravo batterista Massimiliano Ingrosso, la new entry del gruppo insieme al sassofonista Giovanni Chirico (che in qualche modo sostituiva proprio Tony Robertini), ha saputo sostenere creando un mi basso continuo di vitalità ritmica.
La freschezza non sta nell’età anagrafica o nel fare qualcosa per la prima volta, ma nell’intensità con cui la si fa, ho pensato.
L’intensità deriva dal coinvolgimento. Quanto più il coinvolgimento è ampio e riguarda la sfera emozionale, quella immaginativa e quella intellettuale, tanto più c’è intensità… In tutte le cose, figuriamoci nella prassi creativa.
E questo vale sia per chi si esprime che per chi riceve quell’espressione.
In fondo tutte le tensioni avanguardistiche partivano da questo assunto politico o sociale se si vuole, ovvero che un gesto creativo intenso, dunque “intimo” (anche quando questa intimità era possibile attraverso l’essere creati da), poteva produrre un analogo viaggio in chi era testimone di quel gesto, nel cosiddetto pubblico. E dunque liberarlo…
L’arte non ha bisogno di libertà ma di liberazione…Oltrepassare la porta, delle regole precostituite e anche di sé stessi, è la pulsione, non tanto segreta, che muove il poeta creativo.
Ora, questa liberazione è possibile, forse all’ennesima potenza, quando si gioca. E quando si gioca ci si diverte. Si sta al centro del piacere…
Felice De Donno, bassista del gruppo, ieri sera si è divertito molto, mi ha detto dopo il concerto, e io mi commuovevo a vederlo così raccolto dentro i suoni e pensavo al suo amico Tony Robertini. Pensavo e vedevo Tony col quel suo sguardo insieme serio e ironico, quel suo volto da maschera della commedia dell’arte, che guardava i suoi compagni sul palco, tra il meravigliato, l’orgoglioso e il divertito appunto.
A un certo punto ho sentito perfino la sua anima ballare sulle teste del pubblico invece che pisciarci sopra, come qualcuno di analoga radice (dicono, ma non è vero) avrebbe fatto un giorno.
Tutto era leggero ieri, non solo la musica, ma anche il pubblico, nonostante gli affanni di un’età che comincia a essere avanzata.
E di una Lecce ridotta a essere maschera di se stessa dallo sguardo turistico e dalla propria vanità.
Nonostante la sconfitta di una generazione, quella che negli anni ‘70 era animata da un forte senso rivoluzionario, che poi in fondo, forse, nasconde un impulso alla restaurazione, perché l’ancien régime, in origine, era un paradiso pieno di mele da cogliere…
Eppure le reunion, i ritorni, spesso producono tristezza o diventano cerimonie autocelebrative.
I Band Aid invece sono stati presenti a se stessi, immersi nel gioco, nel loro gioco, che col tempo e l’assenza hanno forse imparato a fare pure meglio. Suonavano come demoni, concentrati e pieni di energia, e suonando incantavano; credo sostanzialmente meravigliando, anche un po’ loro stessi.
Il tempo non esiste, lo percepiamo tutti a volte, la leggerezza sta qui.
La leggerezza del presente che esplode senza alcun sforzo, senza alcun atto di volontà, ma anzi attraverso l’abbandono.
Che poi per abbandonarsi ci vogliano 40 anni di solitudine, di attesa, di resistenza, questo è un altro discorso. Del resto, si sa, la leggerezza vera non si conquista senza sforzo o meglio senza impegno.
Così, mentre loro suonavano concentrati e leggeri, non potendo ballare perché si stava tutti seduti, vagavo con la testa e vedevo l’impegno prendere le sembianze di un cavallo galoppante che si offriva al vento… E questo suo correre, questo loro aver dovuto o saputo aspettare, mi sembrava una resa a un destino, a una vocazione a cui non si può sfuggire. O, se si vuole, a quella segreta necessità di andare avanti nel mistero dell’aria…
A parte questi pensieri un po’ troppo gravosi, voglio però dire cosa mi ha commosso ieri sera ascoltando questi brani che insieme conoscevo e no.
Avevo un loro disco, perduto poi nei tanti traslochi, ma soprattutto la loro esperienza mi stava nelle ossa, in quelle radici che si costruiscono dentro di noi quasi solo respirando.
Più giovane di loro di un decennio circa, ho cominciato a suonare nei primi anni ‘80 ascoltando dischi che provenivano soprattutto dall’America e dall’Inghilterra; eppure, in una Lecce tanto sonnolenta quanto sotterraneamente vitale, arrivava in qualche modo tutto il mondo. Come fossimo sotto una piccola antenna potentissima che sfruttava le correnti marine e i cambi di vento per ricevere le pulsioni o gli input più febbrili.
Lecce mi sembrava il posto ideale per sognare lo spazio aperto del mondo, quel villaggio globale che poi la tecnologia o meglio la rivoluzione digitale e la deriva capitalistica hanno vanificato, facendolo diventare possibile solo sul piano virtuale.
Noi il mondo lo sentivamo, non lo vedevamo e questo portava a essere in una continua condizione di clandestinità, di naufragio o, magari, a farci sentire poeti e marinai anche placidamente seduti; navigatori di un tempo e di uno spazio senza spazio, appunto.
Ecco, questo è il punto: ieri sera ho sentito la forza di essere italiani e ancor di più di essere nato a sud.
In un paese devastato sempre più dall’ignoranza e dall’egoismo, in questi ultimi 35 anni non mi sono mai accontentato dell’enfasi delle radici, specie quelle meridionaliste, per sentirmi orgoglioso di essere nato in quello che molti definiscono come uno dei paesi più belli del mondo.
Al contrario, la visione ombelicale proposta pure da qualche “autore” pugliese come terapia proprio per credere in se stessi e cominciare a produrre un fare, una cultura autoctona, mi ha sempre disturbato costringendomi a diventare antipatico e perfino aggressivo contro tante operazioni che in nome di questo amor proprio spacciava come interessanti o “proprie” cose che non lo erano affatto. Perfino la pizzica o il tarantismo, per esempio, hanno dentro tante radici e anche De Martino in fondo ce lo ha lasciato sentire… Perché si può leggere il disagio o il “rimorso” di fronte alla disgregazione delle culture indigene nel mondo postcoloniale o l’invito gramsciano a considerare il folklore l’espressione culturale peculiare delle classi subalterne, anche come figlio della nostalgia per un mondo dove il locale e il globale erano la stessa cosa. Dove, magari, i poveri e i ricchi non esistevano neanche.
Dove le cose si assomigliavano pur avendo forme diverse e si trasmettevano e contagiavano senza bisogno di intermediari, di influencer del pensiero e dell’agire…
Lasciate così… anche un po’ al caso, a quelle onde di probabilità che ora l’intelligenza artificiale ha fatto diventare la logica con cui orchestrare il caos vigente. Quel caso che la fisica quantistica comincia a interpretare guardando oltre la materia, capendo che tutto è solo energia in continua trasformazione.
Dunque, cos’è che mi ha fatto sentire orgoglioso di avere delle radici?
Proprio questa innata “posizione” o inclinazione della vita italiana, riproposta dal “gesto” dei Band Aid, questa nostra vocazione particolare a essere e non essere, a costruire e distruggere.
In fondo l’Italia, soprattutto dal dopoguerra fino alla fine degli anni ’80, ha dimostrato una grande vitalità insieme a un’intensa inquietudine esistenziale e questo connubio è stato piuttosto fertile.
L’entusiasmo senza malinconia, a mio parere, non può portare cose molto interessanti. L’Italia ha camminato sul bordo di queste due linee prospettiche, dando vita a “opere” molto potenti, finché non è caduta nel pozzo dimenticato aperto, in mezzo a quella campagna che invece era così importante; cominciando a morire lentamente come Alfredino, in quello che si può considerare l’evento più tragico del mondo televisivo postmoderno.
Nel modo con cui Robertini e i suoi compagni affrontavano il linguaggio musicale e lo affrontano ancora oggi, vedo non solo una smania viscerale, un gusto anarchico e beffardo, pervaso di elettricità e velocità futurista e di scherno dadaista, ma anche una filosofia o se si vuole una consapevolezza che immediatamente rende più potente il loro discorso, più di quello dei loro colleghi americani o inglesi. Di là dalle etichette, dalle definizioni, nei brani dei Band Aid c’è qualcosa che appunto mi seduce e commuove più di analoghe operazioni del mondo anglosassone, pure di quelli che come Brian Eno, David Byrne, Peter Gabriel e tanti altri sono stati e sono ancora i miei eroi, maestri di un fare sperimentoso e multidisciplinare. O che mi commuove per motivi diversi.
Perché Tony era uno che pensava oltre che soffriva, era uno che esplorava oltre che godere del proprio talento.
Uno che investiva… Cosa che purtroppo noi italiani abbiamo perso ormai del tutto. Per questo il paese è fermo.
E non lo dico perché Tony, subito dopo che i Band Aid spensero la luce, si immerse in altri progetti estremamente interessanti come i Moments of life o perché credette in me, giovanissimo e mi aiutò a registrare il mio primo demo, suonando un flauto dolcissimo, ma perché l’intensità di questa musica è data, come ho scritto all’inizio, dalla consapevolezza che si attorciglia alla visceralità.
La consapevolezza di voler usare un linguaggio per frantumarlo e dissolverlo, di mischiare le cose per esaltare il gesto, di fare drammaturgia con il “reale”.
Gli americani hanno un altro talento, quello della capacità di saper collaborare tra loro, pervasi in questo, come sottolineò il nostro grande viaggiatore Carlo Levi, dalla vastità dei loro paesaggi. Affrontano cioè il pericoloso mistero della no man land cercando di stringersi tra loro, aiutandosi pur in una società altamente competitiva e aggressiva.
Gli inglesi poi, tendenzialmente, sono molto sicuri di se stessi e dunque si lanciano più automaticamente alla conquista delle cose, anche per proteggere uno stato di privilegio che gli conviene ancora, conservatori come sono.
Noi italiani siamo forse più complessi. Siamo macchine più sofisticate, che uniscono il temperamento latino con il gusto del sospetto o del dubbio francese e tedesco, e l’intelligenza empatica con il distacco metafisico che non è solo di chi sente l’invisibile ma anche di chi proprio contempla la bellezza del caos.
Il Rinascimento e il neorealismo, così diversi per certi versi, non sarebbero stati possibili se non ci fosse stata questa nostra capacità di percepire la bellezza del caos.
Dunque… complessità e consapevolezza forse sono le parole chiave.
Si può essere punk per istinto, senza o anzi rifiutando qualsiasi approfondimento intellettuale, ma si può esserlo anche godendo della propria anima tormentata, non tanto per vanità vittimistica quanto riconoscendo che nel viaggio infernale c’è il passaggio per il paradiso.
Allora diciamo così: ieri sera un gruppo di mezzi dannati si è lanciato dalla montagna del purgatorio che aveva conquistato non senza fatica, senza sapere se ora cadrà all’inferno o conquisterà il paradiso.
Da parte mia gli auguro il viaggio, di vivere ancora il sentimento dell’infinita possibilità, e di farlo senza fare troppi autostop, come hanno già dimostrato di poter fare; ovvero di sentire la velocità e il ritmo di tutte le macchine che passano on the road camminando però coi propri piedi…
E mi auguro che le nuove strade (titolo di un bellissimo brano che hanno suonato) li porteranno lontani, a creare nuove cose.
Allora questa terra da cui un giorno sono partiti o a cui sono tornati non sarà più solo la terra del rimorso, che ha bisogno di un ciclo, di una catarsi terapeutica per liberare energia, quanto quel luogo che mi piacerebbe un giorno chiamare la terra senza terra.
Un luogo non più sopraffatto dalla retorica dei prodotti tipici e dall’ansia di piacere, non più innamorato di se stesso e invece aperto all’infinità possibilità delle cose, dove lo spazio e il tempo sventolano orizzonti che finalmente possano essere autenticamente misteriosi e consapevolmente fertili.