“L’economia è una scienza triste”, come diceva Carlyle già ai primi dell’ottocento. La natura intima di questa disciplina può essere riassunta come lo studio dell’allocazione efficiente, attraverso i meccanismi di domanda e offerta, di risorse scarse. L’assunto di base è appunto la “scarsità” delle risorse, ovvero di beni e servizi, di cui disponiamo sempre e comunque in modo limitato e non necessariamente sufficiente a soddisfare i nostri bisogni.
La citazione appare particolarmente adeguata per tutti coloro che stanno cercando di spiegare la crisi attuale: qualcuno deve soccombere mentre altri guadagnano, fatto questo che intristisce tutti, economisti e non.
La terminologia, non solo giornalistica ma anche politica, si adegua alla gravità della situazione: la “guerra di agosto”, prospettata dal premier Monti, è un modo per esprimere un atteggiamento di conflitto, ma anche fermezza nei confronti di eventuali nemici, presenti in ogni guerra che si rispetti. Sorgono tuttavia spontanee alcune domande, specialmente da parte di chi non si occupa di economia: volendo rimanere nella metafora, chi sono i nemici? Qual è la causa per cui si combatte? Quali armi saranno utilizzate? Non è poi possibile trascurare la parte peggiore di tutte le guerre, che inevitabilmente comportano un sacrificio, anche in caso di vittoria: le vittime. Cercare le risposte rischia forse di diventare un processo ancor più triste, tuttavia necessario per comprendere il mondo in cui viviamo.

Il nemico dichiarato di tutti i governi sul fronte economico è senza dubbio il mercato. Tenere sotto controllo una variabile come la “fiducia”, elemento caratterizzato dalla forte soggettività, è forse la missione più complessa per un esecutivo, poiché non dipende direttamente da calcoli matematici. Una scarsa fiducia implica tassi d’interesse sul debito elevati, per cui la spesa aumenta: per contenere l’esplosione dei conti pubblici è dunque necessario tagliare di un ammontare pari altre spese, riducendo stipendi, servizi e investimenti. La “guerra di agosto” vede protagonisti proprio i mercati, in quanto i governi dell’Eurozona temono un attacco speculativo diretto al nostro paese in tale periodo, generalmente favorevole vista l’assenza delle principali istituzioni. Gli operatori di mercato seguono generalmente un trend: se il sentore comune è che tutti vendono titoli, venderanno anche loro. Il punto è che ci sono pochi istituti che, essendo in grado di comprare e vendere ingenti quantità di titoli in pochi minuti, sono in grado di “influenzare” questo trend, assumendo di fatto un controllo indiretto sull’andamento dei tassi.

Esiste poi un nemico “occulto”, con il quale i paesi sotto attacco devono confrontarsi nonostante faccia parte della stessa alleanza: si tratta del gruppo di paesi nordeuropei, guidato dalla Germania. In realtà la posizione di tali paesi potrebbe essere definita come “neutrale”: ritengono infatti che ogni paese debba cavarsela da sola, riducendo il debito attraverso i tagli alla spesa pubblica, recuperando per questa via la fiducia dei mercati. Purtroppo questo meccanismo non sempre funziona, almeno nel breve periodo, come dimostrano i casi di Grecia, Spagna ed Italia.

In un’economia fortemente integrata come quella Europea, con l’aggravante di una moneta unica, essere neutrali di fronte a problemi di questo tipo può voler dire essere nemici, perché le uniche armi efficaci devono essere costruite e condivise da tutti. Il cosiddetto “fondo anti-spread”, messo a punto non senza fatica durante l’ultimo Consiglio Europeo e grazie al quale la BCE avrebbe potuto acquistare direttamente titoli ad alto rischio sul mercato, è stato bloccato dalla Corte Costituzionale tedesca, che ne discuterà l’ammissibilità solo il 12 settembre prossimo. Le responsabilità derivanti da questa decisione sono potenzialmente enormi: in pratica la Germania ha deciso di lasciare i paesi in crisi in balia delle onde finanziarie, senza alcuno strumento per potersi difendere se non ulteriori tagli e restrizioni di bilancio. Nuove misure di questo genere renderanno ancora più grave una situazione al limite del collasso, in termini sia economici che sociali. La Spagna, di cui tra l’altro oggi è stato reso pubblico il rischio default, ha un tasso di disoccupazione giovanile che sfiora il 50%, il PIL è in caduta libera e i giovani stanno emigrando in massa. C’è il rischio concreto che il vento si sposti sull’Italia, rendendo completamente vani gli sforzi fiscali dell’ultimo anno.

Le vittime del conflitto saranno certamente i cittadini dei paesi sotto attacco, che paradossalmente subiscono i colpi inflitti dai propri governi. Si tratta della peculiarità di questa guerra, dove le armi utilizzate contro il nemico finiscono per colpire necessariamente la parte che si vuole difendere. Privati delle contromisure finanziarie, ai governi non resterà che un ultimo disperato tentativo di reazione, attraverso l’approvazione di nuove leggi che riducano la spesa ai minimi termini. La sensazione da “ultima spiaggia” emerge chiaramente dal dibattito in corso: la proposta di abolizione delle feste patronali per risollevare il PIL è emblematica sotto tale profilo. Inoltre, la giustificazione universale di tutte le riforme in campo non convince più di tanto: si parla di una giustizia intergenerazionale, per cui gli interventi di oggi andranno a beneficio dei cittadini del futuro, grazie all’abbattimento di vincoli e garanzie che tengono in vita un sistema anacronistico. Nel frattempo sono tuttavia i giovani di oggi a subire più di ogni altro le conseguenze di queste scelte, come dimostrano i tassi di disoccupazione crescenti. Si tratta di una generazione che è stata caricata di aspettative, ultra formata, che avrà un reddito in prospettiva inferiore a quello dei genitori e che dovrà lentamente abituarsi al precariato.

Lo scenario, che si presenta nella sua caratteristica tristezza, pone dei dubbi sulla causa per cui sarà combattuta questa guerra, dove si perde anche quando si vince. Abbassare lo spread, riguadagnare la fiducia dei mercati, porterebbe indubbiamente dei benefici di medio-lungo periodo: se per raggiungere tali obiettivi viene tuttavia utilizzata la bomba atomica, nelle sembianze di una recessione drammatica, gli esiti saranno imprevedibili a livello economico e sociale. Questo conflitto ha dunque un senso solamente se gestito a livello comunitario, condividendo l’onere tra gli Stati Membri, in quanto tutti hanno da perdere nel caso di un’implosione del sistema. L’Unione Europea, nata per evitare nuove ostilità nel vecchio continente, è diventata ancor più necessaria sotto l’aspetto economico, rappresentando l’unica vera possibilità per gli Stati Membri di sostenere la competizione globale. Il principio è chiaro a tutti, ma purtroppo la politica ha molto da guadagnare dalle tensioni anti-europee, che portano comunque voti e potere. Quando tale blocco sarà superato, avremo tutti un motivo per combattere, mentre per il momento ci limitiamo a subire.

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