J. Edgar Hoover era un bastardo. Manipolatore, scaltro e privo di scrupoli, aveva capito che la sicurezza per il cittadino medio americano era il nodo della vita politica e sociale statunitense e riuscire a garantirla equivaleva a ottenere un potere assoluto, a discapito dell’etica, delle istituzioni e delle stesse leggi. Hoover, come un monarca, diresse incontrastato per 48 anni l’Fbi, il Federal Bureau of Investigation, dal 1924 al 1972. Lo rifondò, ne garantì lo sviluppo. Ne fu padre e padrone. Sopravvisse politicamente a otto presidenti, da Calvin Coolidge a Richard Nixon passando da Roosevelt, Eisenhower e J.F. Kennedy. Come fece ad assicurarsi indifferentemente da capi di Stato repubblicani e democratici la conferma dell`incarico? Il rinnovo delle cariche istituzionali è alla base di ogni forma di democrazia e la vicenda di Hoover, nella sua eccezionalità, è la testimonianza dei rischi che un Paese corre nel momento in cui disattende queste regole basilari.

 

Un direttore per tutte le stagioni
hooverI politici – come il senatore McCarthy che nel secondo dopoguerra scatenò la caccia alle streghe con tanto di liste di proscrizione per i comunisti antiamericani – per Hoover erano soltanto arrivisti e opportunisti. Lui che a 29 anni riceve l`incarico di dirigere “pro-tempore” l`Fbi, si reputa invece il vero garante della sicurezza del popolo statunitense. È lui l`anticomunista e con lui il “suo” Ufficio. Con rigido piglio maniacale riorganizza il Bureau puntando sulla professionalità degli agenti e su nuovi metodi investigativi, quelli scientifici. Ma c`è un altro elemento che caratterizzerà l`èra Hoover: l`ossessione del controllo, una smania che va al di là della raccolta e dell`archiviazione delle impronte digitali di farabutti e gangster da assicurare alla giustizia, e che lo porterà a infiltrare uomini in gruppi, movimenti politici e perfino uffici istituzionali a suo dire “pericolosi” per conoscerne in tempo le mosse ed essere sempre preparato a eventuali azioni di contrasto. Non solo, Hoover arriva a disseminare cimici in camere d`albergo e abitazioni private per intercettare mafiosi, e perfino politici e più di un presidente degli Stati Uniti e i suoi congiunti. Conosce l`importanza dei media, Hoover, e crea una rete di giornalisti amici a cui far giungere notizie riservate o semplicemente verosimili da diffondere per sollevare l`opinione pubblica e pressare i nemici. Nemici che negli anni finiranno per essere equiparati – sia che costituiscano una minaccia per la sicurezza del Paese, sia che la rappresentino per lui e il suo potere, non c`è differenza: vanno entrambi combattuti. Ed è così che il direttore J. Edgar Hoover, porterà avanti l`Fbi con mentalità conservatrice e priva di scrupoli tra le rivolte sindacali, il proibizionismo, la guerra fra gangster, il conflitto mondiale, la guerra fredda, il movimento per l`uguaglianza dei diritti degli afroamericani.

 

L’ossessione del controllo
Senza mai descriverlo direttamente ma limitandosi a riportarne soltanto le discussioni telefoniche, James Ellroy ne traccia un preciso quanto sanguigno ritratto in American tabloid e in Sei pezzi da mille, due romanzi impietosi sulla vita pubblica statunitense tra il 1962 e il 1968, che vanno dal complotto che porterà all`uccisione di John F. Kennedy a quelli che elimineranno Martin Luther King e Bob Kennedy, rallentando così un processo di modernizzazione ed emancipazione sociale di un`ampia fascia di popolazione. Hoover era contrario ai cambiamenti, li temeva. Era pronto a tutto pur di ostacolarli. E in quegli anni caldi, non amava i Kennedy e men che meno il reverendo King. Tre uccisioni eccellenti avrebbero stroncato la carriera a chiunque, soprattutto a un responsabile della sicurezza nazionale, ma non a Hoover. Di questo Hoover, Clint Eastwood ripropone ben poco nel film biografico J. Edgar interpretato da Leonardo DiCaprio e sceneggiato da Dustin Lance Black, il giovane autore che ha vinto l’Oscar con Milk entrando nelle grazie hollywoodiane al punto da vedersi produrre nel 2010 una colossale quanto improbabile opera prima, What`s wrong with Virginia, con Ed Harris e Jennifer Connelly protagonisti con un cast stellare. Ed è proprio la sceneggiatura di Dustin Lance Black il grosso punto debole del film che sorvola quasi su quanto di più drammaticamente attuale rappresenta la vicenda del direttore storico dell`Fbi, anziché farne il motore dell`azione.

 

I segreti dei dossier riservati
hoover-2-2459491_0x410Il vero lato oscuro di Hoover, quello del pubblico ufficiale che adotta qualsiasi mezzo per raggiungere i propri scopi, finisce sullo sfondo e al suo posto Black colloca il rapporto strettissimo con la madre (un`inossidabile Judy Dench) e quello con Clyde Tolson (Armie Hammer) che per mezzo secolo sarà il suo braccio destro e il suo innamorato segreto. Helen Gandy (Naomi Watts), la fedele segretaria che rifiutò il corteggiamento di Hoover e ne sposò la causa custodendo i dossier confidenziali (sarebbe più giusto definirli illegali), completa il gruppo. Sono i rapporti privati tra i quattro personaggi a costituire la zona d`ombra di J. Edgar che Black si affanna a svelare. Filo conduttore del film – escamotage narrativo tutt`altro che brillante – sono le memorie che il direttore dell`Fbi detta a giovani collaboratori affinché i posteri conoscano la “sua” verità. Con una serie ininterrotta di flash back, mezzo secolo di storia Statunitense, dalla Depressione alla sconfitta del Vietnam, scorre in un attimo, senza quasi lasciare segno: nessun coinvolgimento drammaturgico ad eccezione delle indagini condotte sul rapimento del figlioletto di Charles Lindbergh, l`eroe nazionale che per primo trasvolò l`oceano. Interessante è anche il modo in cui viene narrato il cambiamento di opinione che gli statunitensi hanno nei confronti dell`Fbi. Qui Black si affida al cinema. In sala alla proiezione di Nemico pubblico di William Wellman (1931), Hoover scopre quanto siano apprezzate le gesta del gangster interpretato da un irresistibile James Cagney e ritiene che è giunto il momento di dare lustro all`Fbi per far conquistare al Bureau la fiducia dei cittadini. La proiezione successiva alla quale assiste il capo degli investigatori è G Men di William Keighley (1935), qui James Cagney incarna un giovane agente federale. In quattro anni Hoover è riuscito a cambiare l`immagine della “sua creatura”. Il resto del film (137`), scorre lento, monotono, senza sussulti. Persino la recitazione di Leonardo DiCaprio è sempre uguale, salvo in un paio di scene private, come la morte della madre e la scazzottata con Clyde Tolson che finisce con un bacio. Perfino la sequenza clou del film, quando nel finale Tolson rinfaccia a Hoover di mistificare la storia dell`Fbi, la vicenda si risolve in un confronto tutto di coppia. Eppure sarebbe stato sufficiente attenersi alle cronache per proporre un finale più interessante con Hoover che col passare degli anni trasforma la sua sete di controllo in una vera e propria paranoia, trascorrendo gran parte del tempo ad ascoltare e riascoltare i nastri delle intercettazioni illegali.

 

Vecchi trucchi
Un buon lavoro lo fa comunque il truccatore, ma solo per il protagonista, visto che l`invecchiamento di Tolson è a dir poco improbabile. La regia predilige le luci fredde, quasi a voler creare un distacco dal personaggio ancora oggi ingombrante, forse troppo se un vecchio leone repubblicano come Clint Eastwood preferisce restituirne un ritratto così edulcorato.

 


J. Edgar
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Dustin Lance Black
Interpreti: Leonardo DiCaprio, Naomi Watts, Armie Hammer, Judi Dench, Josh Hamilton, Geoff Pierson, Ken Howard, Dermot Mulroney, Josh Lucas, Cheryl Lawson, Kaitlyn Dever, Gunner Wright, David A. Cooper, Ed Westwick, Kelly Lester, Jack Donner, Dylan Burns, Jordan Bridges, Brady Matthews, Jack Axelrod Fotografia: Tom Stern
Montaggio: Joel Cox, Gary Roach
Musiche: Clint Eastwood
Produzione: Imagine Entertainment, Malpaso Productions, Wintergreen Productions
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
Paese: Usa 2011
Durata: 137’
Formato: Colore 2.35 : 1

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