La definizione più azzeccata dell’interismo la diede anni fa Beppe Severgnini. Cito a memoria. Tifare Juve – disse – è come un investimento in banca, tifare Inter è come giocare d’azzardo: ma cosa c’è di più struggente quando ti sei rovinato al tavolo verde e l’indomani ti affacci alla finestra dell’albergo, guardi l’alba livida e pensi di buttarti giù?
Certo la similitudine risente per certi aspetti del peso degli anni, considerando che di questi tempi i soldi in banca non sembrano più al sicuro e che la Juve solo adesso, dopo un settennato entusiasticamente catastrofico, sembra aver imboccato (ahinoi) la strada della rinascita. Resta tuttavia intatto il concetto di fondo, perché chi per senso artistico, naturale attrazione per la Bellezza o semplicemente per avventura si innamora dei colori nerazzurri deve rassegnarsi all’idea che da quel momento in poi niente sarà più come prima e che l’equilibrio fisico e nervoso ne resterà sconvolto per sempre.
Esagerazioni? Si prenda un interista, uno qualsiasi, lo si sottoponga a test simili a quelli adottati dalla Nasa per i suoi astronauti, e ne verrà fuori l’identikit di un soggetto fuori dalla norma, che malgrado il fegato ingrossato e il cuore ballerino appare comunque capace di sopravvivere alle situazioni più estreme. Si badi bene, qui non si sta parlando dell’amore per una squadra perdente né si intende fare retorica a buon mercato sulla estetica della Sconfitta che pure è assai diffusa in un paese come il nostro che nella sua storia non conserva troppi esempi di successi e quei pochi non sembrano meritevoli di essere ricordati (”gli italiani vanno alla guerra come a una partita di calcio e a una partita di calcio come si va alla guerra”, fu il giudizio sprezzante ma incontrovertibile di un premier inglese). Non fosse altro che l’Inter di vittorie ne ha conquistate parecchie (anche se meno di quelle che avrebbe meritato) e in massima parte esaltanti. Dal primo scudetto, ad appena due anni dalla fondazione del club, a quelli dell’era di Meazza (il primo campionissimo italiano di questo sport), dalle Coppe dei Campioni negli anni Sessanta, quando i nerazzurri riscattavano in campo internazionale la reputazione del calcio italiano preso a sberle dal Cile e dalla Corea, alle imprese dei ”sorpassi” (due rimonte ai limiti dell’incredibile, e entrambe le volte ai danni del Milan, a maggior gloria…), via via al Triplete di Mourinho.
Ma l’Inter è squadra imprevedibile, incostante, volubile, mai banale nelle vittorie come nelle sconfitte, e queste ultime hanno talvolta una grandiosità epica, come Waterloo o un finale wagneriano. E ciò che per i supporter avversari rappresenterebbe soltanto una semplice battuta d’arresto, un insuccesso come capita a chiunque nello sport, per gli interisti si trasforma in uno psicodramma collettivo, in una tragedia shakespeariana o, peggio, in una farsa oppure in un’opera buffa.
Quanti, come il sottoscritto, portano sulle spalle già mezzo secolo di passione per l’Inter, hanno ancora amaro e vivido il ricordo di quell’orribile maggio del 1967 quando, nel giro di una settimana, si perse una Coppa dei Campioni nella finale di Lisbona contro il Celtic Glasgow e uno scudetto (campionato condotto in testa dalla prima alla penultima giornata…) a Mantova (papera del portiere, che aveva il sole negli occhi). E nei sogni ricorre costante e implacabile l’incubo dello scudetto sfuggito all’ultima giornata all’Olimpico con la Lazio: se dici 5 maggio, data di quella catastrofe, nessuno di noi pensa più alla poesia di Manzoni. No, non sono normali sconfitte ma spaventose, inconcepibili, surreali ed eroiche cadute nel precipizio della sofferenza. Ma sono proprio storie come queste a rendere indistruttibile la passione di un interista, a temprarne lo spirito rafforzando la fede nella resurrezione.
Perché alla fine all’alba livida seguirà il giorno tiepido e finalmente la notte quando potrai tornare a puntare tutto su quell’unica carta che, se si incastra, ai tuoi avversari toglierai anche le mutande.