In Kandinskij, l’idea di sintesi delle arti, di Gesamtkunstwerk, si concretizzò in quattro composizioni sceniche dedicate a diversi colori (giallo, verde, bianco e nero, viola), realizzate tra il 1909 e il 1914. Progetti teatrali astratti, visionari, precorritori della multimedialità, che miravano a individuare le relazioni profonde tra forma, suono, colore, luce, movimento, ma che non arrivarono però mai a una realizzazione scenica durante la vita di Kandinskij. Solo Der Gelbe Klang, pubblicato nel 1912 sulla rivista Der Blaue Reiter, conobbe alcuni tentativi di realizzazione, tutti falliti.

Nel testo di Kandinkij, suddiviso in un’Introduzione, sei Quadri e un Epilogo, non c’è un’azione vera e propria, gli avvenimenti si succedono senza una logica, i personaggi – cinque giganti, esseri indistinti, un tenore (dietro la scena), un bambino, un uomo, persone in vesti drappeggiate, persone in calzamaglia e un coro (dietro la scena) – sono presenze mute o hanno solo una minima parte di frasi da cantare o recitare, a fronte della grande dovizia di indicazioni sceniche e sonore. Kandinskij discusse a lungo col compositore Thomas Aleksandrovič de Hartmann (1885-1956) e col danzatore e coreografo Alexander Sacharoff (1886–1963), sulla forma che avrebbe dovuto prendere questo spettacolo. L’allestimento fu proposto a Stanislavkij, all’epoca alla guida del Teatro d’arte di Mosca, che rimase però molto perplesso, e alla fine rifiutò. Un altro tentativo fu fatto nel 1914 a Monaco, al Künstlertheater di Georg Fuchs, grazie alle pressioni del drammaturgo Hugo Ball, in un teatro che aveva tra l’altro un sistema di luci all’avanguardia che avrebbe permesso più facilmente la realizzazione scenica. A quel progetto lavorarono attivamente diversi artisti legati al Blaue Reiter, come Franz Marc, August Macke, Alfred Kubin, ma tutto si dovette interrompere per lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Due altri progetti furono fatti in Germania, a Berlino e al Bauhaus, ma non andarono ugualmente in porto, suscitando l’amarezza di Kandinskij. Solo negli ultimi quarant’anni Il Suono giallo è stato realizzato diverse volte con nuove musiche (ad esempio di Alfred Schnittke, nel 1975) e nuove coreografie. Per ultimo vi si è cimentato Alessandro Solbiati, con la sua terza opera che è andata in scena al Comunale di Bologna. Il compositore ha realizzato da sé il libretto, ibridando le poche frasi cantate del testo originale con un secondo testo di Kandinskij, un frammento appuntato a mano sul dattiloscritto del saggio Über der Mauer (al di là del muro), che descrive appunto la nascita di un’opera d’arte: «Avevo letto tutti i testi di Kandinskij, ma non dovevo fare un trattato sulla composizione scenica, dovevo fare un’opera. Poi ho scoperto questo frammento, un po’ miracolosamente, che descrive il percorso psichico ed emotivo dell’artista durante l’atto creativo, e che è veramente parallelo alle energie del Suono giallo. C’è un parallelismo fortissimo, perché Kandinskij parla di uno stato iniziale di vuoto creativo, poi di un’idea che erompe velocemente, si cerca di afferrarla, e così facendo essa crolla in un vuoto, questa volta negativo e di sensazione disperata di avere perso tutto. Da qui poi lentamente si risale con un lento lavorio, che alla fine prende la forma dell’opera d’arte». L’opera intendeva seguire da vicino il percorso tracciato da Kandinkij, mostrando la graduale materializzazione di organismi viventi, accompagnata da una progressione insieme musicale e luminosa (dal vuoto, alle presenze viventi ma indistinguibili, a quelle viventi ma non umane, quasi vegetali, alle presenze viventi distinguibili, alle presenze individuali). Doveva essere una metafora della creazione artistica, un percorso di ricerca lento, tormentato che partiva dall’inconscio, da spunti indistinti, che cominciava a prendere forma in un’alternanza di tentativi riusciti e fallimenti, con una tensione crescente, che arrivava alla fine alla certezza e al compimento dell’opera. L’idea di fare del Suono giallo un’opera, o meglio una «sinfonia scenica», comunque di dare peso drammatico a un testo privo di dialoghi, di azione, anche di personaggi veri e propri, se non figure simboliche o allegoriche, era davvero una sfida. Una sfida vinta solo in parte. Sul piano musicale si ammirava la finezza e la densità della scrittura orchestrale (grazie anche alla direzione energica, e molto accurata di Marco Angius), ricca di atmosfere, di umori contrastanti, di continue metamorfosi armoniche, la concentrazione espressiva degli intermezzi, il raffinato gioco di “madrigalismi” nelle parti vocali, reso ottimamente dalla prova dei due cori e dei cinque solisti (Alda Caiello, Laura Catrani, Paolo Antognetti, Maurizio Leoni e Nicholas Isherwood). Ma l’opera non funzionava altrettanto bene sul piano drammatico, perché la vicenda immaginata si perdeva nelle ondate di suono dense e avvolgenti, nelle spire strumentali e corali, che avevano semmai un carattere statico e oratoriale. L’insulsa regia di Franco Ripa di Meana faceva poi il resto. Con un meccanismo teatrale così delicato, al limite delle possibilità drammatiche, il regista ha fatto di testa sua, senza seguire il percorso immaginato dal compositore. Ha affidato a coristi e solisti un repertorio di gesti plastici, un po’ vecchiotti e senza senso, assemblati in modo casuale: movimenti di coristi tra la platea e il palcoscenico, personaggi che strappavano e mangiavano pezzi di carta, altri che si accasciavano a terra all’improvviso. Nemmeno l’apporto del video migliorava la situazione: con un uomo che si radeva, coprendosi interamente di schiuma da barba, con una pioggia di donne che si trasformava in una danza forsennata. Belle invece le scene di Gianni Dessì: la stanza presentata come un cubo giallo, dalla prospettiva capovolta, con un soffitto-pavimento a scacchiera, le grandi teste dei giganti, che si stagliavano sul fondale nero come sculture primitive, la grande mano che alla fine sorreggeva una casetta, illuminata da un giallo accecante, simbolo dell’atto creativo, finalmente compiuto.

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