Nei prossimi quattro mesi il compito del governo sarà, se possibile, ancora più complicato di quanto non lo sia stato fino ad oggi. In vista delle elezioni, crescerà l’insofferenza dei partiti, desiderosi di ricreare la propria identità dopo un anno vissuto all’ombra dei tecnici. Tra i decreti attuativi della spending review e dismissione del patrimonio pubblico parte l’agenda di settembre dell’esecutivo.

Il paese si sta gradualmente abituando al governo attualmente in carica, dimenticando che tra pochi mesi si entrerà in una nuova campagna elettorale dai tratti ancora poco delineati. La strana maggioranza che appoggia l’esecutivo di Monti, dove sta diventando difficile distinguere fazioni che solo qualche mese prima sembravano agli antipodi, sta infatti perseguendo una strategia attendista. Non è chiaro se quest’ultima dipenda da un preciso indirizzo politico, dettato dall’appoggio incondizionato al “lavoro sporco” svolto dal Professore, oppure se manchino effettivamente idee e competenze per affrontare gli scenari europei, che in autunno si prospettano notevolmente burrascosi. Al momento sarebbe infatti difficile immaginare un esecutivo differente da quello Monti, in grado di reggere pressioni esterne senza precedenti nella storia dell’Unione Europea.

Mettendo da parte le questioni prettamente politiche, con cui prima o poi i leader italiani dovranno fare i conti, rimangono a questo governo circa quattro mesi di lavoro per riportare l’Italia sui binari della sostenibilità economica, dimostrando agli scettici di mezza Europa che il nostro sistema è in grado di reggere l’onda d’urto di attacchi speculativi più o meno forti. Gli sforzi compiuti fino a questo momento, tra tagli alla spesa e riforme in tutti i settori chiave, non hanno portato risultati di breve periodo, prolungando lo stato di incertezza che aleggia sul futuro dell’Italia e dell’Euro. In buona sostanza, le maggiori entrate determinate dagli aumenti fiscali sono state quasi del tutto annullate da un anno di spread alle stelle. I nostri titoli di debito sono considerati all’estero al limite della “spazzatura”, per usare il gergo finanziario: questo significa che nei prossimi anni la spesa per interessi crescerà ulteriormente, condizionando inevitabilmente le scelte di politica economica.

Ha probabilmente ragione Monti quando afferma che i benefici delle misure più importanti si vedranno solo nel lungo termine. Si pensi alla riduzione delle province, in vigore solamente dal 2014, oppure all’introduzione dei costi standard per la spesa degli enti locali. Al di là delle critiche sull’adeguatezza e sull’equità degli interventi, è importante però sottolineare che la relativa efficacia dipende soprattutto dal contesto globale dell’Eurozona e non necessariamente dalla qualità delle singole riforme. In particolare, sulla missione principale di Monti pesa un’unica grande spada di Damocle, rappresentata da un’eventuale richiesta di assistenza finanziaria alle istituzioni internazionali. In questi giorni sta infatti crescendo la tensione sull’approvazione del fondo salva-Stati, così come messo a punto durante l’ultimo Consiglio economico: spetta sostanzialmente alla Germania, dilaniata dalle polemiche interne, dare il via libera al progetto che permetterebbe l’erogazione di aiuti ai paesi in difficoltà senza troppi obblighi “politici”.

Nel caso in cui i fondi dell’ESM non possano essere utilizzati con il nuovo sistema, che delega alla BCE il potere di acquisto dei titoli di debito, paesi come la Spagna e l’Italia finirebbero ancora una volta sotto assedio da parte degli investitori. Il meccanismo speculativo, come più volte sottolineato, si autoalimenta determinando potenzialmente l’ennesima crisi di fiducia: a quel punto non sarebbe più possibile evitare il finanziamento diretto in stile Grecia, attraverso l’implementazione delle politiche di austerity dettate direttamente da Bruxelles. Sul piano strettamente economico questa soluzione non conviene a nessuno, nemmeno alla Germania che dovrebbe comunque partecipare all’operazione investendo un ammontare almeno pari a quello stanziato per il fondo salva-Stati. Molto diversa è invece l’ottica elettorale: politici e media tedeschi stanno cavalcando l’ondata anti-europea senza sosta ormai da mesi, fomentando posizioni di scetticismo al solo scopo di colpire la cancelliera Merkel. Le accuse riguardano anche il governatore Draghi, colpevole di aver trasformato la BCE in un salvagente per paesi malgestiti che stanno dissanguando le casse tedesche. Le dinamiche sono ovviamente molto più complesse di quanto alcuni leader vogliano lasciar credere, tuttavia le ragioni di politica interna non possono essere sottovalutate: la pubblica informazione diventa dunque uno strumento primario per l’uscita dalla crisi debitoria.

Per fronteggiare eventuali sviluppi critici sul piano europeo, l’esecutivo di Monti sta elaborando nuovi interventi di garanzia per il contenimento del debito pubblico, che si attesta ben oltre il 120% del nostro PIL. Le intenzioni sono chiare: una riduzione massiccia del rapporto in tempi brevi (intorno al 20%) metterebbe i leader euroscettici con le spalle al muro, non potendo rinnegare anni di interventi tutti incentrati sul contenimento di questa variabile. Una volta assicurato un accordo europeo definitivo, anche i mercati dovrebbero adeguarsi al nuovo scenario, conferendo nuovamente la fiducia verso i titoli italiani. In quest’ottica dovrebbero essere approvati a settembre i decreti attuativi della spending review, ma la novità più importante riguarda la dismissione di parte del patrimonio pubblico. L’immenso capitale dello Stato dovrebbe subire un processo di rinnovamento sul fronte della gestione: i tecnici stanno lavorando in particolare sulla revisioni delle concessioni demaniali, ad esempio per quanto riguarda le spiagge ed i porti, ma anche alla vendita diretta di immobili ed al rinnovo dei contratti di locazione. Non sarebbero invece dismesse le partecipazioni finanziarie sulle aziende di punta del nostro paese, come ENEL o Finmeccanica, poiché in questo momento i prezzi di vendita risulterebbero troppo bassi per via della crisi in corso. È stata invece del tutto abbandonata l’idea di un’imposta sul patrimonio, invisa alla maggioranza dei gruppi d’interesse nonché a buona parte della maggioranza che sostiene il governo.

Nei prossimi quattro mesi il compito del governo sarà, se possibile, ancora più complicato di quanto non lo sia stato fino ad oggi. In vista delle elezioni, crescerà certamente l’insofferenza dei partiti, desiderosi di ricreare la propria identità dopo un anno vissuto all’ombra dei tecnici. Tale aspetto potrebbe rappresentare il punto debole non solo per il governo Monti, che rischia di trascinarsi con le mani legate fino a dicembre, ma anche per l’immagine del nostro paese nei confronti di istituzioni europee e gruppi finanziari. Nell’ultimo periodo si è infatti formato un consenso internazionale incentrato sulla figura di una singola persona, ovvero il premier, dimostrando una profonda carenza di fiducia nel meccanismo democratico. Questa tendenza non riguarda solo l’Italia, ma coinvolge tutti i paesi che dimostrano criticità economiche non compatibili con una certa linea imposta dall’oligarchia europea: anche Hollande, democraticamente eletto in Francia, ha dovuto lottare contro pressioni più o meno velate provenienti dall’esterno. Pur non rassegnandosi all’idea di una gestione non democratica dell’economia, è innegabile che nel nostro paese esiste un problema di “successione” a questo governo, in quanto nessun leader sembra volersi assumere realmente la responsabilità di fronteggiare una situazione quantomeno pericolosa. Occorre dunque che da settembre i partiti abbandonino la strategia attendista, prendendo posizioni nette e mettendo gli italiani nelle condizioni di decidere nuovamente del proprio destino.

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