La Grecia è tornata purtroppo alla ribalta delle cronache europee: a Marzo andranno in scadenza bond per circa 14 miliardi e il rimborso è praticamente impossibile.
 

L’anno nuovo sembrava aver portato una ventata di timido ottimismo sul futuro dell’Eurozona: con la stabilizzazione della situazione italiana, garantita da un “Europeo” a tutto tondo come il premier Monti, le prospettive sulla resistenza della moneta unica sono andate lentamente rasserenandosi. Durante l’ultima settimana, tuttavia, l’odiato vocabolo “default” è tornato prepotentemente alla ribalta, legato al paese che per primo ha messo in seria discussione la tenuta del sistema economico continentale. La Grecia, nonostante la prolungata assenza dai media, è sull’orlo del fallimento. A marzo, infatti, andranno in scadenza bond per circa 14 miliardi, ma allo stato attuale le finanze pubbliche non dispongono di tale cifra, per cui il rimborso non sarà possibile. D’altro canto, viste le valutazioni della agenzie di rating secondo cui i titoli greci equivalgono a “junk bonds” (spazzatura), difficilmente le banche acquisteranno nuove obbligazioni. Alla lue dei fatti, in settimana si sono susseguite voci di ogni tipo, spesso contrastanti, riguardo le ipotesi di fallimento “controllato” e la potenziale uscita della Grecia dall’Eurozona, ma ancora una volta si avverte la mancanza di una vera comunione d’intenti tra governi animati da interessi ed ideologie differenti.

I messaggi che arrivano dalle alte sfere europee confermano l’apparente di volontà di tenere in vita il malato cronico: “Noi vogliamo che la Grecia resti nell’euro”, ha dichiarato il presidente della Commissione Europea Barroso, aggiungendo che “il costo di un default della Grecia e della sua eventuale uscita dall’euro sarebbe molto più elevato rispetto al costo di continuare a sostenerla”. Il piano di salvataggio, ovvero il prolungamento dello stesso, consiste in un’ulteriore iniezione di liquidità, pari a circa 130 miliardi complessivi, che si andrebbero ad aggiungere ai 110 miliardi già erogati a partire dal 2010, da parte della cosiddetta “Troika” composta da Unione Europea – BCE – FMI. Come era facile aspettarsi, non si tratta di beneficienza: i fondi sono subordinati all’approvazione da parte del parlamento greco, prevista per domenica, di una serie di riforme molto pesanti, volte a comprimere ulteriormente la spesa pubblica. In sostanza, il premier greco Papademos dovrebbe convincere deputati e cittadini ad accettare altri tagli al pubblico impiego (si parla di circa 15.000 licenziamenti) ed al salario minimo, che scenderebbe sotto i 600 euro al mese, mentre nuovi sforzi dovrebbero essere compiuti sul piano delle privatizzazioni. L’accordo è stato predisposto da giorni, ma le difficoltà parlamentari ne hanno bloccato l’iter: la Grecia è un paese in ginocchio, con il PIL in caduta libera ed un tasso di disoccupazione al 16,5%, in cui l’avversione verso nuovi “sacrifici” è più che comprensibile.

Mentre il presidente dell’Eurogruppo Junker convoca l’ennesima riunione straordinaria per discutere del caso Grecia, è chiaro che dietro le quinte i governi si stanno preparando ad affrontare un eventuale fallimento. La ristrutturazione del debito ellenico prevede sostanzialmente l’accettazione “volontaria”, da parte dei creditori, di nuovi bond in sostituzione di una parte dei precedenti, ad un tasso intorno al 3,7%, circa la metà di quanto dovrebbero ricevere. Il rimborso totale dalla parte restante sarebbe garantito dagli aiuti finanziari e dalla BCE, che acquisterebbe titoli ad un prezzo largamente inferiore a quello attuale di mercato. Il fallimento “controllato” ha l’obiettivo di mantenere la stabilità del sistema finanziario, in quanto non vi sarà alcuna imposizione verso i privati, che stanno contrattando la propria posizione: in questo modo si dovrebbero evitare spiacevoli reazioni in termini di fiducia sui mercati globali, che porterebbero ad una nuova impennata dello spread sui titoli più a rischio, tra cui figurano ovviamente i BTP italiani.

Al di là dei tecnicismi sulle forme di rimborso, regna sovrana l’incertezza sulla conseguenza più temuta dai governanti europei, ovvero l’uscita della Grecia dalla moneta unica. Questa ipotesi, fino a poco tempo fa considerata come un tabù inviolabile, inizia ad affiorare non solo negli articoli di economisti euroscettici, ma anche tra i rappresentanti politici. L’ultima in ordine di tempo è stata l’olandese Neelie Kroes, Commissario per l’Agenda Digitale: “Quando un paese membro lascia non significa che c’è un ‘uomo in mare’ (…) si dice sempre che se un Paese viene lasciato uscire o chiede di andarsene allora l’intero edificio crollerà e ciò non è vero”, ha dichiarato qualche giorno fa. L’errore più grave che i dirigenti europei possono commettere è considerare queste espressioni come marginali o addirittura estremiste. Negli ultimi mesi, infatti, si è creduto che la nuova posizione della Germania, ormai rassegnata a trovare forme di aiuto diretto nei confronti dei governi in difficoltà finanziarie, potesse facilmente convincere tutti della necessità di rimanere uniti. Questo non è avvenuto, in quanto paesi più piccoli (come appunto l’Olanda), che non avvertono il peso della tenuta dell’intero castello, saranno sicuramente poco disponibili ad investire soldi per salvare di volta in volta dei governi ritenuti dalla pubblica opinione “irresponsabili”.

L’interrogativo dunque rimane: è possibile uscire dall’euro? In linea teorica i trattati non consentirebbero tale scelta, a meno di voler rinunciare completamente alla partecipazione all’Unione Europea, perdendo così i benefici conseguenti, a partire dal mercato unico. Per quanto riguarda la Grecia, il ritorno alla Dracma consentirebbe un svalutazione immediata della moneta con conseguente riduzione del costo della vita. Rimarrebbero tuttavia i debiti, sia pubblici che privati, contratti in euro, che assumerebbero proporzioni insostenibili viste le difficoltà attuali. Inoltre sarebbe quasi impossibile importare beni dall’Europa: l’aumento esponenziale dei prezzi in euro metterebbe in difficoltà tutto il sistema economico, rendendo molto complesso ad esempio l’approvvigionamento di materie prime per le industrie, di energia elettrica, di gas, di prodotti agricoli, ma anche l’acquisto di macchinari ed automobili.

Per il momento lo scenario è molto incerto, sia sul fronte del fallimento sia sull’uscita dall’euro. L’impressione è che i grandi decisori mondiali vogliano fare della Grecia un esempio per tutti, un monito verso chi non rispetta a qualunque costo i precetti dettati dalle attuali teorie sulla stabilità. La punizione inflitta ai cittadini, costretti a subire tagli ai servizi, riduzioni agli stipendi e licenziamenti in nome del sistema finanziario, è l’emblema della traslazione del potere dai parlamenti alle sedi economiche europee e mondiali, in grado di condizionare l’operato dei governi come mai prima d’ora. In quest’ottica, anche l’uscita dall’euro ed il declino che ne deriverebbe, almeno nel periodo iniziale, potrebbe incidere sui comportamenti economici dei paesi in condizioni simili. In attesa degli eventi, è senza dubbio possibile constatare la caduta del dogma secondo cui la sola partecipazione all’euro è garanzia di stabilità e sicurezza: la perdita di uno dei principali benefici della moneta unica apre le porte a nuove prospettive, per cui l’uscita potrebbe non è essere più un atto di irresponsabilità, ma una sorta di autodifesa democratica.

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