Nel momento, purtroppo ancora molto lontano, in cui si tireranno le somme di quanto accaduto in Europa negli ultimi anni, di alcuni paesi non saranno rimaste che le macerie.
Alcuni studiosi della prestigiosa London School of Economics profetizzano scenari apocalittici simili per l’Italia, della quale tra 10 anni «non resterà più nulla».
Nell’attesa di toglierci il dubbio su questa sentenza, possiamo guardare il nostro destino nell’odierna situazione greca: i cittadini ellenici, secondo i calcoli dell’Istituto Nazionale di Statistica, oggi sono più poveri del 40% rispetto al 2008. In buona sostanza, la ricchezza si è quasi dimezzata in meno di cinque anni, dissolta tra tagli agli stipendi, aumenti delle tasse e, in parte minoritaria, a causa dell’inflazione.
L’analisi della vicenda promossa dalla Troika parla curiosamente di ottimi risultati sul fronte della stabilità, con il PIL in ulteriore calo “solo” del 4% ed un debito pubblico più sicuro. Il classico punto di vista, che cambia completamente le prospettive.
Per comprendere fino in fondo le conseguenze dell’austerity a tutti costi, occorre vestire i panni del popolo greco, capire le loro ragioni, vedere l’Europa con gli occhi di chi sta perdendo ogni prospettiva di futuro benessere.
I numeri sono impietosi: -34% in media sui salari, tagli al welfare (che include scuole, sanità, sussidi) pari al 26%, aumenti di tasse ed inflazione.
Il reddito disponibile, ovvero quanto rimane da spendere dopo il prelievo fiscale, si è così ridotto complessivamente del 40%, obbligando le famiglie ad intaccare pesantemente i risparmi, che stanno per finire.
Rimanere in poco tempo con la metà dei soldi in tasca, a prezzi invariati, non è semplice per nessuno e non può certo stupire la rabbia che tale condizione suscita. Tanto più che nuove restrizioni sono previste per il 2014.
Una società che non riesce a risparmiare, o peggio si indebita per consumare, non è sostenibile nel lungo periodo: i risparmi, infatti, sono la base su cui le banche concedono prestiti a famiglie e imprese. Senza risparmi, dunque, non ci sono investimenti e quindi non c’è ripresa.
L’opinione pubblica nord-europea, di pari passo con la politica economica guidata dall’asse Bruxelles-Berlino, emette spesso sentenze lapidarie sulle colpe della Grecia, creando volontariamente un clima di guerra fredda tra cittadini europei, rimarcandone le differenze culturali.
La confusione che si viene a creare è totale: cosa si intende esattamente con “Grecia”? Il governo, la classe dirigente? I banchieri? L’insieme dei cittadini?
Addossare una generica colpa ad una nazione intera è francamente ridicolo, come se tutti i suoi abitanti fossero in grado di controllare variabili complesse come il debito pubblico.
Se anche fosse vero che il cittadino greco, come d’altra parte quello italiano, ha vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità, l’attribuzione di una responsabilità oggettiva è tanto iniqua quanto inutile. Ad avere delle colpe sono i sicuramente i precedenti governi greci, consapevoli del disastro che stavano preparando e che hanno sfruttato l’eccesso di welfare per raccogliere consensi. I segnali allora non c’erano ed anche l’Europa taceva.
Secondo molti analisti, non esiste una soluzione “ordinaria” che possa riportare la Grecia a livelli di crescita e benessere accettabili secondo gli standard europei, non senza una fase lunghissima di sofferenza.
L’unico spiraglio è costituito da un nuovo taglio del debito, un nuovo fallimento controllato, che riduca drasticamente gli attuali 300 miliardi in titoli.
Ad oggi, la grande maggioranza del debito ellenico è in mano alle istituzioni, tra fondo salva-Stati e BCE. In un paese unitario questa sarebbe la condizione ideale, perché non coinvolge entità private.
In Europa, invece, le istituzioni, piuttosto che agire in modo razionale, devono soddisfare i bisogni elettorali degli Stati Membri, specie di quelli più influenti, i cui leader non possono permettersi un nuovo salvataggio della Grecia.
Con le elezioni per il parlamento europeo, alle porte, poi, non se ne parla nemmeno.
Nel frattempo, paradossalmente, il fondo salva-Stati continua ad acquistare bund tedeschi, allo scopo di garantirsi la tripla A, ma la stessa Germania impedisce il finanziamento alle banche dei paesi in crisi da parte dell’agenzia. A che serve allora il Fondo, se non può aiutare la Grecia?
Il nodo della questione, al di là dei tecnicismi, è capire fino a che punto conviene stringere i denti e condividere questo progetto europeo, attualmente molto sbilanciato e germano-centrico. I costi, specie per i paesi mediterranei, stanno diventando enormi. La perdita della politica monetaria a livello nazionale è un fattore decisivo, in quanto la crisi debitoria sarebbe stata gestita in modo diverso e probabilmente più incisivo.
L’apprezzamento dei nostri prodotti, inoltre, ha scoraggiato le nostre esportazioni e favorito quelle tedesche, dove i governanti non ci pensano proprio ad incrementare i consumi interni. L’Italia si sta gradualmente impoverendo, anche se non solamente a causa dell’Euro: le barriere burocratiche, la difficoltà di fare impresa, la tassazione elevata senza contropartite accettabili sono errori nostri, o meglio dei nostri politici degli ultimi decenni.
D’altra parte non è possibile empiricamente stabilire le conseguenze dell’ipotesi alternativa, ovvero l’uscita dall’Euro. Prima della moneta unica, i tassi d’interesse sui nostri titoli erano perlomeno il doppio, se non il triplo, di quelli attuali, l’indebitamento galoppava e veniva tenuto sotto controllo attraverso acquisti massicci della banca centrale, con conseguente crescita dell’inflazione. Se non fossimo entrati nell’Euro, avremmo continuato a pagare quantomeno i tassi attuali, svalutando di tanto in tanto la lira per garantirci i livelli di esportazione.
La sostenibilità di questo processo è dubbia, soprattutto alla luce della partecipazione ad un’area di libero scambio. Una ritorsione da parte dei membri sarebbe stata inevitabile, perché anche se non si adotta l’Euro occorre mantenere i cambi fissi, che di fatto implica le medesime conseguenze. In altre parole, l’Euro ha consentito un pacifico sviluppo del mercato unico: il vero problema è che a trarne benefici è stata solo una parte, mentre paesi come l’Italia sono rimasti indietro.
Dare una risposta secca sul tema dentro/fuori dall’Euro, se non dall’Europa, è complicato, ma chiedere un maggiore impegno ai nostri rappresentanti è un obbligo.
Fino a che punto è conveniente rimanere agganciati ad un’entità che, politicamente soggiogata da alcuni governi, abbandona i propri Stati, quindi i cittadini, condannandoli a tempo indefinito ad una condizione di sostanziale impoverimento? Qual è il limite oltre cui l’uscita dal progetto diventa l’unica scelta logica?
Questo limite è probabilmente politico, piuttosto che economico, in quanto gli strumenti tecnici per correggere le anomalie ci sono. A mancare è la volontà politica di camminare insieme, cercando di comprendere le ragioni altrui e non solo quelle in casa propria. Quando questo sentimento disgregativo diventerà irreversibile, la scelta sarà obbligata.

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