Dedicato all’Eritrea e al Giappone
Ispirato dalla musica di Ryuichi Sakamoto
http://www.youtube.com/watch?v=ug2s7zkEWpA

Tutti noi piangiamo ancora. Improvvisamente o inevitabilmente, alla fine di una giornata, alla fine di una lunga impressione, alla fine di un’attesa.

Il pianto sempre ci fa bene. Come acqua che perdiamo e che ci lava. Ci stringe e ci apre… all’infinito.
Ma di cosa piangere se tutto è stato già vissuto? Se nulla difficilmente, ormai assolutamente, ci sa sorprendere? Se il mondo che noi siamo ha perso la purezza o l’imperscrutabilità?
La cultura del pianto ha prodotto la morte del pianto, forse?
Potrebbe farci piangere un happy end o una domanda insistente, uno sguardo teso che lotta?
Potrebbe farci piangere il niente? Una gru che resta sospesa lassù, nella notte di una città?
Potrebbe farci piangere una mela o un mandarino che ci chiede un bambino, le sue smorfie quando le mangia? O la fine di un amore che non finirà?

Se fossi veramente un documentarista me ne andrei a cercare il momento in cui le persone piangono e non sapevano che lo avrebbero fatto. E cercherei quelle persone che nessuno si aspetta di vedere piangere. Non per mostrarle al mondo. Né per vederle io. Ma per testimoniare che è accaduto, qualora qualcuno lo chiedesse o fosse necessario farlo, fosse necessario testimoniarlo.

Il pianto è come la musica, liberatorio perché ci imprigiona. Come un volo supera la forza di gravità, con un semplice movimento del capo. Non sappiamo se il motivo per cui stiamo volando è quello per cui siamo partiti, non sappiamo se il cielo è intorno o sotto. Se sopra c’è qualcosa che ci aspetta o se stiamo ancora giù, attaccati. Non sappiamo se siamo foglie o se potremo ancora vederci, se vale la pena sorridere. Quello che avviene è che, improvvisamente, non ci sentiamo più soli. Sentiamo di avere una strana, bellissima, disperazione dentro. Qualcosa che abbiamo avuto in eredità, più della nostra faccia o della nostra pelle. Del nostro amore.

Così piangiamo, come pulcini e foglie. Come assenti e innamorati.
E se ci voltiamo con la testa, piangiamo ancora di più.
Anche se la finestra non è aperta. O fuori, il vento, non c’è. Né ci porterebbe con lui.
E sembriamo infine qualcosa a noi. Ghiaccio che si scioglie e diventa specchio, quello strano occhio smarrito che resta ancora e osserva così la nostra mutevolezza.

Noi siamo fuoco. Siamo una corda. Siamo come quello scorcio che s’incunea nell’immobilità.
E fa finta di muoverla. O, certe volte, di esserne mosso.
Noi siamo noi stessi. Foglie che seccano, per lasciare un peso.
Se qualcuno ci dicesse che non vale la pena di piangere, resteremmo meravigliati.
Anche se il mondo dorme. O se la terra dorme. Anche se le zebre e i serpenti sono lontani. E non torneranno questa notte nello stesso posto. Anche se la notte cancellerà le loro orme. E l’acqua si alzerà, fino alle alte vette del buio.

Il monte ci chiama, ora. Forse per questo piangiamo. Forse per la morte. O per quel fiore giapponese. L’Africa sventola il vento che piange. Ora.

Non lo faremo. Non è il momento. E’ forse il momento di piangere? E’ forse il momento di tornare al libro? O al legno?
Il suono è tutto, però. Il suono sta qui adesso e regna, tremando, sempre tremando.
Non piangeremo. No. E’ la notte che lo farà. Farà anche questo per noi.

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