Due miliardi di euro. A tanto ammonta la spesa annua dello Stato per ripagare i danni che le piogge torrenziali causano alla rete idraulica italiana, alle case, alle persone, alle colture. Una somma ingente che però in ogni caso non serve a ripristinare la situazione originaria. Servirebbero molte più risorse che il governo fa sempre più fatica a trovare e le regioni pure anche per via degli stretti vincoli del patto di stabilità.

Eppure, basterebbero pochi interventi essenziali sul territorio per scongiurare il rischio idrogeologico, mettere in sicurezza fiumi, canali e torrenti e impedire il verificarsi di tragedie come quelle che si sono verificate, negli ultimi due anni, in Lunigiana, Liguria, Veneto o Sicilia, per dirne alcuni.
Secondo l’Anbi, l’Associazione nazionale delle bonifiche, occorrerebbero 6,8 miliardi di euro per realizzare circa 3mila interventi di messa in sicurezza su tutto il territorio italiano e scongiurare il rischio idrogeologico.
«Sono opere non più dilazionabili – spiega Massimo Gargano, presidente dell’Anbi – senza le quali il territorio continua a essere esposto a un rischio di dissesto idrogeologico sempre crescente. Le bombe d’acqua autunnali, non possono più essere considerate degli eventi atmosferici eccezionali. Di fatto si verificano ogni anno, anche in più occasioni e causano ogni volta dei disastri. Tre miliardi di euro i danni causati nel 2010; 2 miliardi nel 2011. Sono morte delle persone. Non ha più senso continuare a ragionare con la logica dell’emergenza anche perché le risorse del fondo nazionale di solidarietà sono insufficienti».
La disponibilità attuale del fondo, infatti, sarebbe di poco meno di 12 milioni di euro per tutto il Paese, a fronte dei 300 milioni ipotizzati per il solo secondo semestre 2012.
«Le risorse – continua Gargano – si possono trovare, basta la volontà e la capacità di razionalizzare la spesa. Questi 3mila interventi devono essere considerati necessari anche perché favorirebbero anche la crescita economica del Paese. Abbiamo calcolato che per ogni milione di euro investito in manutenzione del territorio si generino 7 posti di lavoro. Si tratta quindi di complessivi 47mila posti di lavoro che si sbloccherebbero subito perché i nostri progetti sono immediatamente attuabili oltre che privi dell’aggravio Iva perché i consorzi di bonifica non sono soggetti a questo regime fiscale».
Gli interventi andrebbero a rimettere in piedi una rete idraulica che, è proprio il caso di dirlo fa acqua da tutte le parti soprattutto perché si tratta di opere obsolete, vecchie di secoli, dove l’ordinaria manutenzione ormai non serve più. Se un argine ha più di 200 anni non c’è da stupirsi se cede di fronte a un aumento eccessivo della portata del fiume. In tal caso non sarà più sufficiente metterci una toppa riedificando il tratto crollato.
Si pensi al Bacchiglione e al Brenta in Veneto. Le criticità di questi due corsi d’acqua hanno causato le alluvioni disastrose che tutti ricordiamo.

 

Il Veneto e la rete idrica della Serenissima
«La nostra rete idraulica – chiarisce Tiziano Pinato, dirigente della struttura di difesa del suolo della regione Veneto – risale all’epoca della Repubblica veneziana. Si parla più o meno di 5 secoli fa. Qualche opera è stata aggiunta durante la dominazione austriaca, mentre gli ultimi interventi significativi sono stata fatti durante il ventennio fascista. In ogni caso stiamo andando indietro nel tempo di quasi un secolo». La rete idraulica vecchia e malandata ha ceduto sotto i colpi delle imponenti piogge. Le sole alluvioni del 2010 e del 2011 hanno causato danni per 600 milioni che sono stati riparati solo per una piccola parte. «Mancano ancora all’appello – continua Pinato – 500 milioni di euro. Gli interventi più importanti che dobbiamo fare riguardano la messa in sicurezza del territorio perché quelli fatti fino ad ora, con risorse statali, regionali e in parte con quelle europee del programma operativo regionale del fondo europeo di sviluppo regionale sono serviti soltanto a tamponare l’emergenza. In questi giorni sono appena usciti i bandi per la realizzazione di due casse di espansione di Caldogno e Trissino, due Comuni del Vicentino, per complessivi 86 milioni di euro ma gli interventi che rimangono da fare sono ancora tantissimi».
La mancanza di opere di straordinaria manutenzione e di messa in sicurezza del territorio non fa che peggiorare la situazione della rete idraulica e allargare la fetta di territorio sottoposta al rischio di alluvioni, esondazioni, frane o smottamenti. Secondo il ministero dell’Ambiente nel 2012 il rischio dissesto riguarda l’82% dei Comuni italiani (ossia 6.633 centri abitati, più o meno grandi) spalmati su 3 milioni di ettari pari al 10% del territorio nazionale.

L’Umbria e i fondi per l’emergenza
Gli eventi alluvionali più recenti, hanno riguardato particolarmente l’Umbria, fino a oggi poco colpita. Circa un mese fa, una bomba d’acqua destinata alla Liguria, si è spostata sull’Umbria facendo piovere in 24 ore circa 300 millimetri d’acqua che hanno determinato un aumento della portata dei fiumi fino a 2.200 metri cubi al secondo.
«Una situazione ingestibile – spiega Angelo Viterbo, dirigente servizio risorse idriche e rischio idraulico della regione Umbria – se considera che la nostra soglia di allerta è sui 400 metri cubi al secondo. Le zone più colpite sono quella di Orvieto, Todi e Marsciano. Per fare rientrare l’emergenza abbiamo speso 3 milioni di euro provenienti dal fondo ministeriale definito con le Regioni nel 2008. La somma ci è stata trasferita tre mesi fa, dopo 4 anni e ha rappresentato solo una parte finanziamento complessivo da 17 milioni di euro destinato alla nostra Regione. Con questi soldi abbiamo potuto coprire solo in parte le spese dell’emergenza ripulendo gli alvei dei fiumi da tutto quello che creava l’effetto tappo sotto i ponti. Alberi, spazzatura, e oggetti di ogni genere. Adesso occorrerebbe fare interventi più massicci come la ricostruzione degli argini o la creazione di casse di espansione. Ci vorrebbero almeno altri 20 milioni di euro».

Genova e i lavori sospesi da trent’anni
Nella mala amministrazione del nostro Paese è successo anche che in alcuni casi, le opere per la messa in sicurezza del territorio sono state progettate, approvate, aperti i cantieri e anche pagate. Ma mai completate. E’ il caso per esempio dello scolmatore sul torrente Fereggiano di Genova, proprio quello che è esondato l’anno scorso provocando una fiumana di acqua e fango che si è riversata sulle abitazioni adiacenti.
«Negli anni Ottanta – racconta Vittorio d’Oriano, vicepresidente dell’Ordine nazionale dei geologi – il Comune di Genova aveva approvato un progetto per la costruzione di un canale divisore che favorisse il deflusso di questo torrente, una specie di scolmatore per distogliere dal rischio dissesto idrogeologico i due quartieri urbani che si affacciano sul Fereggiano. I lavori, assegnati a un’azienda poi coinvolta nello scandalo di tangentopoli, furono interrotti a causa delle vicende giudiziarie così le opere iniziate e i canali scavati, furono abbandonati. Tutto questo è costato al Comune quasi 20 miliardi delle vecchie lire». Dopo vent’anni la situazione è ancora ferma.

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