La questione, pertanto, è chiarire se ed quali condizioni tale relazione sia possibile, per non ridurre la riflessione ad un esercizio di scuola o ad una conversazione informale.
Conviene dunque partire da una presa d’atto: economia ed etica si occupano del medesimo oggetto materiale, il comportamento umano, ma con un diverso oggetto formale: per l’economia l’efficienza e la sua ottimizzazione; per l’etica la categoria della giustizia, diversamente declinata.

Dunque, ci troviamo davanti ad una “separazione di intenti” per lo stesso oggetto di interesse, che ha generato la situazione per cui se è l’etica a porre questioni all’economia, tuttavia solo quest’ultima indicherebbe le risposte. Conseguentemente, se l’indicazione del fine spetta all’economista, quella dei vincoli morali sta all’eticista (o, su un piano tecnico, all’ingegneria economica). La separazione tra fine economico e vincolo (morale o tecnico che sia) dice anche che il primo avrebbe natura soggettiva, frutto delle preferenze individuali, il secondo carattere oggettivo, perché “esterno” al soggetto ed alla stessa disciplina economica, che ottimizzerebbe l’efficienza all’interno dei vincoli assegnati. Su questi presupposti è stato costruito il modello della “rational choice” su cui si basa in larga misura il ragionamento economico.

Questo modello della “separazione” è andato in crisi per due motivi: primo, la “non scontatatezza” dello statuto oggettivo dell’efficienza, dal momento che essa è sempre in relazione ad un fine e la scelta del fine precede comunque ogni ulteriore analisi; secondo, l’evidenza per cui non è sempre vero che i vincoli morali siano oggettivi mentre fini ed obiettivi risultano inesorabilmente soggettivi. Tale paradigma, infatti, o non spiega la realtà o porta a conclusioni aberranti. È così che si è giunti ad argomentare il superamento della presunta avalutatività weberiana dell’economia, come sottolineato dai più attenti economisti: un nome fra altri, Amartya Sen (1988). Egli, infatti, ritiene ineludibile la presa contestuale della duplice origine comune dell’economia: l’etica e l’ingegneristica. Pertanto, la presunta neutralità della scienza economica è insostenibile così come l’antropologia sottesa alla concezione positivistica dell’economia risulta riduttiva e senza verifiche empiriche decisive. Infatti, il criterio paretiano dell’“homo oeconomicus” che persegue i propri interessi con razionalità ottimizzante rimane lungi dal descrivere adeguatamente il comportamento umano. Dunque, etica ed economia sono chiamate ad una intensa relazione, non ad una semplice giustapposizione.

Le ragioni alla base della necessità di tale confronto – con Stefano Zamagni (1994) – sono almeno tre. In primo luogo, nelle economie avanzate l’azione individuale non garantisce più in assoluto il perseguimento degli obiettivi individuali. Infatti, i commons (le risorse essenziali per la sopravvivenza per le quali le persone non dovrebbero pagare) o i beni posizionali (quelli che conferiscono utilità per la posizione relativa nella scala sociale che il loro consumo consente di occupare) smentiscono l’assunto smithiano secondo cui il perseguimento del self-interest garantirebbe la compatibilizzazione degli obiettivi individuali e collettivi. Di conseguenza, l’economia necessita di un confronto con il sapere etico per individuare regole comportamentali che, oltre la mera moralità mercantile fondata su valori peraltro condivisibili quali onestà e fiducia, includano la benevolenza in vista di una economia civile efficiente. In secondo luogo, si annota la criticità di una pedissequa assunzione del principio paretiano quale criterio guida in materia di giustizia distributiva. In terzo luogo, la necessità che il fondamento del dover sociale riposi sulla giustizia del sistema nel suo insieme.

Chiarito dunque che economia ed etica hanno ben più di qualche marginalità da condividere, rimane da chiarire a quali condizioni tale relazione possa darsi. Sembrano almeno tre gli ambiti da considerare: anzitutto, il previo reciproco riconoscimento di legittimità e di autonomia, assumendo che la stessa economia è “necessariamente” informata di requisiti etici tanto nella sua fase politica (decisionale), e questo è noto, ma anche nella sua fase tecnica in termini di correttezza ed onestà metodologica.

La seconda condizione fa capo sia alla necessità che l’interazione etica/economia eviti commistioni indebite che ridurrebbero l’etica ad una sorta di “wishful thinking”e l’economia ad una disciplina “monca” se pensata ed agita come sapere meramente “tecnico” ed autoreferenziale sia, per altro verso, alla valorizzazione della condivisa propensione ad una analisi puntuale della complessa realtà quali/quantitativa, avendo ciascuna disciplina un “proprium” metodologico, in vista di soluzioni ottimizzate alla luce di un sistema di valori dichiarato.

La terza, ed ultima condizione indica nel fattore antropologico lo snodo comune dirimente tra etica ed economia, ovvero nel riferimento ultimo alla persona umana, colta nella sua integralità, quale cardine inevitabile per ogni soluzione “tecnica” che sia a misura dell’uomo stesso e della sua peculiare dignità.

Dario Sacchini
Istituto di Bioetica – Università Cattolica (Roma)

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