L’autonomia economica raggiunta dal figlio,  che fa cessare l’obbligo del padre di dover provvedere al mantenimento, è prevista sia dall’art. 9 della legge divorzile n° 898/70 e successive modifiche, sia dal recentissimo articolo 337 quinquies introdotto nel Codice Civile dalla legge n° 28/12/2013 n° 154.

Entrambe le norme (in caso di separazione, di scioglimento, di cessazione degli effetti civili del matrimonio o di crisi della convivenza), prevedono espressamente come il genitore abbia diritto di richiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti tra l’altro la misura e le modalità del contributo.

Il punto ovviamente sul quale si scontrano gli interessi dell’ex marito e della ex  moglie, è quello di comprendere in che cosa consista “l’autonomia economica”  tale da legittimare la revoca del mantenimento.
Attualmente si è formato un quadro giurisprudenziale abbastanza costante (pur se generico nei contenuti), laddove la Suprema Corte in più occasioni ha precisato che il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne gravante sul genitore, (tanto separato quanto divorziato), sotto forma di obbligo di corresponsione di un assegno, cessa solo all’atto del conseguimento da parte del figlio di uno status di autosufficienza economica. Tale situazione coincide con la percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato.
Non è rilevante in tal senso il tenore di vita condotto dal figlio in costanza di matrimonio durante la separazione.
Va quindi dimostrato in sede giudiziale, in caso di contestazione, l’inizio dell’attività lavorativa da parte del figlio e l’adeguata remunerazione.
In concreto, non è quindi sufficiente dimostrare l’inizio di qualche lavoretto saltuario con compensi della durata di qualche mese, ma è necessario dare prova di un’attività lavorativa di una certa continuità, (è stato ritenuto sufficiente anche il contratto a progetto o l’assunzione in prova), con un reddito in genere almeno superiore a 600/700 euro.
Ciò che conta tuttavia non è tanto l’entità del reddito, quanto la continuità del rapporto lavorativo, laddove la dimostrazione della percezione di un reddito basso anche se non porta all’annullamento del contributo, tuttavia può dar luogo alla riduzione dello stesso.

…e se il figlio non si dà da fare

Se si esaminano le sentenze si vede che il relativo accertamento (e questa è una delle questioni spesso dibattute nelle aule di Giustizia), non può che ispirarsi a criteri di relatività in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post universitario del soggetto che gode del mantenimento e dalla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto ha indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione.
Molto spesso però le tesi dei padri le quali sostengono il diritto a revocare l’assegno di mantenimento si basano semplicemente sul fatto che il giovane non si adopera sufficientemente per ricercare un’attività lavorativa.
Sotto tale profilo è indubbio che il Tribunale possa revocare l’assegno allorché sussista un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato e sostanzialmente di colpa
.
Debbono tuttavia escludersi profili di colpa nella condotta del figlio che rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella in cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi sono rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui detta aspirazione abbia una ragionevole possibilità di essere realizzata e sempreché tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia.

Troppi figli ancora a casa

In Italia gli uomini e le donne che non vanno via da casa tra i 18 ed i 30 anni sono circa l’80% (in Gran Bretagna li chiamano Knipers: restano a casa e sfruttano il reddito o la pensione dei genitori).
Si tenga conto che la causa finalizzata ad ottenere l’annullamento dell’obbligo del versamento del contributo mensile per la partecipazione al mantenimento del figlio, per inerzia di questo nel reperire un lavoro, presenta sempre aspetti di estrema difficoltà, sia per la riluttanza dei tribunali nell’eliminare il mantenimento, sia per la necessità di prove rigorose, che dovranno vertere certamente sul comportamento presuntivamente colpevole del figlio, ma soprattutto sulle occasioni di lavoro disattese.
Normalmente data la situazione economica attuale, si tende a mantenere l’obbligo contributivo fino ai 30/32 anni.
Tuttavia è dato ravvisare, una forte difformità di decisioni fra tribunale e tribunale ed anche tra giudice e giudice dello stesso tribunale.
È comunque indiscusso per giurisprudenza della Suprema Corte che il giudice di merito non possa prefissare un termine ex ante alla cessazione di tale obbligo di mantenimento, atteso che il limite di persistenza dell’onere va determinato non sulla base di una data astratta (ancorché desunta dalla media della durata degli studi in una determinata facoltà e dalla normalità del tempo occorrente ad un giovane laureato in una data realtà economica affinché questo possa trovare impiego), bensì sulla base del fatto che il figlio, malgrado i genitori gli abbiano assicurato le condizioni necessarie e sufficienti per concludere gli studi intrapresi e conseguire il titolo indispensabile ai fini dell’accesso della professione auspicata, non abbia saputo trarne profitto, per inescusabile trascuratezza o per libera, ma discutibile, scelta circa le opportunità offertegli. Ovvero ancora non sia stato in grado di giungere ad una autosufficienza economica per propria evidente colpa.

E se al figlio provvede il nuovo compagno della moglie…

In alcuni casi il coniuge obbligato sosteneva di non dover più provvedere al mantenimento del figlio, in quanto l’ex coniuge aveva trovato un nuovo compagno facoltoso, il quale ben avrebbe potuto e dovuto, a parere del ricorrente, provvedere al mantenimento del giovane.
Tuttavia il Tribunale e poi anche la Cassazione, sono stati di diverso avviso, anche se si era dimostrato che la madre utilizzava quale abitazione l’appartamento condotto in locazione dal proprio nuovo compagno e comunque godeva di condizioni molto favorevoli sotto il profilo economico, derivanti da tale nuovo rapporto.
Infatti, secondo la Cassazione, non assume rilievo, al fine di ridurre la portata dell’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio, il fatto che la moglie possa giovarsi di eventuali condizioni di favore garantite dal nuovo convivente.
Ciò anche perché un simile rapporto non può che considerarsi precario, mancando una tutela giuridica in favore dei semplici rapporti di convivenza.
Se la decisione è da condividersi, non sussistendo alcun obbligo giuridico a carico del convivente, pur se facoltoso, la fattispecie tuttavia ha ricordato una singolarissima situazione nella quale a seguito del ricorso per separazione, un operaio edile era stato condannato a versare un assegno per la partecipazione al mantenimento del figlio di 200 euro oltre circa 100 euro in favore della moglie, su un reddito percepito di circa mille euro.
Successivamente la donna aveva rinvenuto un nuovo compagno estremamente ricco, il quale le permetteva di accedere ai propri beni.
Il marito lamentava che l’ex moglie veniva nel cantiere dove lavorava con la Mercedes del nuovo compagno tra i vari sarcastici commenti degli altri operai, pretendendo il pagamento dei 300 euro a lei attribuiti dal Tribunali.

Mai interrompere il pagamento 

Va sempre sconsigliato ovviamente di interrompere il pagamento ritenendo unilateralmente l’obbligo del mantenimento cessato.
Ciò in quanto il padre rischierebbe di vedersi sottoporre sia ad esecuzione forzata sia agli altri provvedimenti coattivi previsti dalla normativa.
La giurisprudenza ritiene ormai in maniera assolutamente univoca (ex multis Cass. n° 6975/2005 ed altre analoghe) come non sia possibile, autoridursi, o escludere il mantenimento senza l’assenso formale dell’altro genitore, o senza un provvedimento del giudice.
Tra l’altro non è possibile, in caso di mancato pagamento, opporsi al precetto notificato dalla moglie, mediante ufficiale giudiziario, eccependo solo in tale sede l’avvenuta autonomia economica della prole.
Infatti il giudice dell’esecuzione non è tenuto ad effettuare un accertamento nel merito, neanche incidenter tantum e quindi, se si desidera far valere un mutamento dei presupposti che danno luogo alla modifica dei provvedimenti divorzili ( o della separazione) è necessario procedere a norma di legge, cioè rivolgendosi al Tribunale e richiedendo la revisione delle condizioni divorzili o di quelle che regolano la separazione dei coniugi.

L’onere della prova e l’efficacia ex tunc

Se è chiarissimo che la maggiore età non fa automaticamente cessare l’obbligo di mantenimento in quanto tale onere rimane fino all’autonomia economica del figlio, la Corte di Cassazione ha stabilito come, ai fini dell’esenzione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento a favore dei figli maggiorenne, l’onere di dimostrare che il figlio abbia raggiunto l’autonomia economica, incombe sempre sul genitore che pretenda di essere esentato, ma gli effetti decorrono dal momento in cui il figlio è divenuto autonomo.
Una volta raggiunta tale prova, il Tribunale provvederà a statuire sul punto revocando il diritto al mantenimento nel caso anche ex tunc.

E se il figlio perde il posto di lavoro

Una volta che il figlio abbia poi raggiunto l’autonomia economica e l’assegno sia stato revocato, se successivamente egli perde il posto di lavoro o comunque si trova in seguito in ristrettezze economiche, non è più possibile per l’avente diritto o per la madre di questo, riaprire di nuovo il procedimento di separazione o divorzio e ripristinare il mantenimento cessato.
Infatti la giurisprudenza ha sempre specificato che, tutte le successive vicende negative relative all’andamento economico dell’attività lavorativa espletata dal figlio, non incidono più nel senso di legittimare una nuova richiesta di mantenimento, che una volta cessato non può più essere ripristinato dal giudice.

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