Sbarchi e respingimenti. Aumentano le fughe dai conflitti, si incrementano i piani di sbarramento e di rimpatrio forzato. Il rischio di rimandare uomini, donne e bambini nello stesso inferno da cui pericolosamente sono riusciti a sottrarsi è alto. Il caso di Ali Ben Sassi Toumi non rientra nella cronaca di queste ultime settimane, ma resta indicativo.

 

 

Prima di raccontare la storia di questo cittadino tunisino conosciuta attraverso una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha sanzionato l’Italia, va fatto un passo indietro, precisamente al 13 dicembre 2007 quando i Paesi dell’Unione europea sottoscrivono il Trattato di Lisbona. E’ il momento in cui bisogna superare le bocciature che la Costituzione europea ha incassato dai francesi e dagli olandesi nel 2005 e quindi l’accordo viene concepito e preparato per recepire la maggior parte delle innovazioni contenute nella Carta. E’ un lavoro diplomatico delicato che dura circa due anni. Dai princìpi fondanti si passa agli ambiti di azione. Quando viene affrontata la questione dell’accoglienza dei migranti e di coloro che fuggono dalle aree di conflitto, i Paesi dell’Unione preferiscono non mettere a punto un piano condiviso, ma lasciano ai singoli Stati membri scelta d’azione, convinti come sono che gli accordi bilaterali stretti con le nazioni confinanti col vecchio continente (comprese quelle che si affacciano sul Mediterraneo) siano più che sufficienti ad allontanare il rischio di un’affluenza di massa. La decisione si è rivelata proprio in queste ultime settimane un grosso errore di valutazione politica, tant’è per fare soltanto un esempio che il nuovo corso filoccidentale di Gheddafi – che ha visto il raiss trasformarsi da gran padre degli africani pronto a dare ospitalità a quanti attraversavano la Libia per poi imbarcarsi verso l’Italia a invalicabile frontiera meridionale per conto degli italiani stessi e degli europei – si è mostrato in un attimo in tutta la sua fragilità. C’è un altro elemento su cui soffermarsi: i Paesi nordafricani con i quali i singoli Stati europei hanno stretto intese sono caratterizzati dall’essere poco o per nulla democratici. Restando sempre alla Libia, il Trattato di amicizia firmato dal capo del governo Silvio Berlusconi con il colonnello Gheddafi nel 2008 non si sofferma sulle questioni umanitarie e quando nel giugno del 2010 la Libia decide di chiudere l’ufficio locale dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, l’Italia non dice nulla. E veniamo all’emergenza di questi giorni col governo italiano che invoca l’intervento di Bruxelles mentre fa la spola da Tunisi in cerca di un ennesimo accordo; con la Francia che chiude la frontiera di Ventimiglia, la Lega che urla “Immigrati fora da i ball” e l’Unione europea che non sa che linea adottare. E dinanzi a questa situazione drammatica, le persone diventano folla, una massa di grandi numeri in cui le storie individuali rischiano di confondersi, di non essere adeguatamente prese in considerazione neanche per poter distinguere un migrante da un rifugiato politico. L’organizzazione degli aiuti annaspa, la priorità sembra essere allontanare il problema.

Anche Ali Ben Sassi Toumi ha rappresentato un problema. Lui è un cittadino tunisino nato nel 1965 e residente a Benevento. Sposato con un’italiana, ha tre figli piccoli. Condannato nel 2007 a sei anni di reclusione per terrorismo internazionale beneficia di una riduzione della pena e viene rilasciato il 18 maggio del 2009. Nel frattempo, il Tribunale di Tunisi celebra un processo contro di lui per truffa. Toumi, contumace, viene a conoscenza del fatto soltanto a sentenza di condanna avvenuta grazie ad alcuni parenti residenti nel paese d’origine. Così, lo stesso giorno in cui esce dalle carceri italiane, gli viene notificato l’ordinanza di espulsione verso la Tunisia e viene quindi rinchiuso nel centro di detenzione temporaneo di Crotone. Toumi si rivolge alla Corte europea dei diritti dell’uomo e ottiene un’immediata sospensione, prevista dall’articolo 39, secondo cui il governo italiano non può espellerlo fino a nuovo ordine, nell’interesse delle parti e nel regolare svolgimento delle procedure. Il 20 maggio, il giudice di pace della cittadina calabrese ritiene valido il provvedimento di rimpatrio forzato ma concede una proroga di trenta giorni. Il 21 giugno Toumi richiede lo stato di rifugiato politico che gli viene negato il 7 luglio. La macchina per l’allontanamento si rimette in moto. Il 24 luglio deve intervenire una seconda volta la Corte europea per procrastinare ulteriormente il provvedimento. Appena però le autorità italiane ricevono assicurazioni da parte dei colleghi tunisini che all’uomo sarà garantito il rispetto della dignità umana, un giusto processo, l’assistenza legale e sanitaria e la possibilità di ricevere visite dei familiari, Toumi viene rispedito in patria. E’ il 2 agosto. Al suo arrivo finisce agli arresti e durante il periodo di detenzione viene torturato dalla polizia locale. Subisce minacce e poi è rilasciato a condizione di mantenere il silenzio su quanto accaduto in carcere. E’ a questo punto che il tunisino si rivolge nuovamente alla Corte di Strasburgo invocando il mancato rispetto degli articoli 3 (divieto di trattamenti disumani o degradanti), 8 (diritto al rispetto della vita privata, familiare e del domicilio), e 34 (diritto di richiesta personale), verificatisi in seguito all’espulsione dall’Italia, Paese che non ha rispettato la misura provvisoria indicata dalla stessa Corte dei diritti dell’uomo.

Il 5 aprile la seconda sezione della Corte di Strasburgo da ragione a Toumi e condanna l’Italia a pagargli 15 mila euro come risarcimento dei danni morali. Il governo italiano tace, ma può sempre fare appello.

Corte europea dei diritti dell’uomo sentenza n. 25716/09 del 5/4/2011
Ratifica del Trattato di amicizia con la Libia, dicembre 2008

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *