Vorrei tornare a parlare di devianza, laddove per devianza si intenda qualsiasi cosa si discosti dalla norma: dal comportamento stravagante in relazione ai tempi, a quello criminale, passando per miriadi di altre situazioni quali la malattia mentale e i problemi di personalità.
Grande estimatrice degli studi di Lemert, partendo dalla sua teoria dell’etichettamento ne ho sviluppata una alternativa associando la sua visione di devianza con la mia idea sul ruolo e sul personaggio, concetti dei quali spesso mi sono trovata parlare nei miei articoli.

Per prima cosa definiamo la teoria della devianza di Lemert descrivendo i suoi concetti di devianza primaria e devianza secondaria.

Devianza primaria e secondaria
Le devianza primaria è quella che non viene resa pubblica, rimane anonima e non viene etichettata, per tale motivo non richiede all’individuo una ridefinizione di se stesso. Essa può essere reiterata diverse volte, ma finché non produrrà un’etichetta sociale non diverrà una devianza secondaria, rimanendo così circoscritta nel comportamento deviante, senza invadere le altre aree della vita.
La deviazione secondaria è quella venuta allo scoperto, la quale relega l’individuo in un ruolo al quale si adatterà riorganizzando le idee sul proprio sé. Questo porterà ad essere recidivi nei comportamenti, non perché vi sia una causa che lo impone, ma perché vi è uno stereotipo di se stessi che si deve seguire. I diversi comportamenti devianti porteranno ad un circolo vizioso di interazioni tra la società e l’individuo che lo faranno sentire sempre più deviante e sempre più propenso a mettere in atto certi tipi di comportamento. Va specificato che la devianza secondaria può diventare tale anche senza che vi sia stato un reale comportamento deviante, ma semplicemente perché gli altri lo credono, trasformando la valutazione che l’individuo ha di se stesso.

Può accadere cioè che le devianze si manifestino a posteriori, come una profezia che si auto avvera. Infatti le convinzioni dell’osservatore tendono a far comportare l’osservato nei modi in cui l’osservatore si aspetta. Ad esempio se gli osservatori italiani si aspettano che gli osservati stranieri delinquano, li tratteranno in modo freddo e diffidente senza dare loro altre opportunità oltre al delinquere. Inoltre lo straniero guardandosi con gli occhi dell’osservatore si sentirà sempre più un deviante (secondario), avverando così la profezia: lo straniero alla fine delinquerà, e le aspettative dell’osservatore saranno soddisfatte.
In molti casi quindi il deviante diventa secondario senza dover fare la gavetta come deviante primario. Effettivamente il deviante primario e quello secondario si rappresentano le deviazioni in modo differente. Per il deviante primario esse non hanno una grande importanza, sono uno dei tanti possibili comportamenti, mentre per il deviante secondario la deviazione è il fulcro attorno al quale gira la persona che si sente descritta pienamente dal comportamento deviante.
Da quanto detto la deviazione secondaria diventa limitante.
Allora perché il deviante primario a volte diviene volontariamente deviante secondario?
Lemert spiega questo affermando che può essere talvolta un modo per trovare una sorta di soluzione ai propri problemi, questo vale sia per il deviare che per il mantenersi nella categoria di deviante, oltretutto tornare indietro diventerebbe particolarmente faticoso.
Quindi la devianza secondaria è assimilabile ad una tentata soluzione come tante di quelle che proviamo tutti i giorni e che risultano essere inadeguate. Con la differenza che questa include una perdita di status e ciò crea un circolo vizioso all’interno del quale lo stesso soggetto vede se stesso, e il proprio vecchio status, persi. E come se non distinguesse più la sua sagoma dallo sfondo, l’unica cosa che riuscirà a distinguere ancora chiaramente sarà proprio il suo errore che, per questo, sarà anche l’unica cosa alla quale si potrà aggrappare, sbagliando quindi sempre più, e diventando sempre più bravo in questo, e perciò sempre più legato al suo nuovo status.

Differenze tra deviazione primaria/secondaria e personaggio/ruolo
Assegno particolare importanza alla deviazione primaria perché in questa vi è la maggiore responsabilità dell’individuo.
Mentre nella deviazione secondaria l’individuo è entrato in un circolo vizioso dal quale diventa difficile uscire, soprattutto senza un aiuto mirato, nella deviazione primaria al di là dei meccanismi sociali che possono far scattare la devianza, vi è ancora una possibilità di scelta cosciente. Se così non fosse saremmo tutti possibili devianti, e se questo in parte può essere vero (a causa di diversi meccanismi sociali tendenti alla deresponsabilizzazione) d’altro canto la nostra possibilità di sceglierci le amicizie, le situazioni, i luoghi da frequentare, i valori in cui provare a credere e soprattutto i personaggi da presentare, fa sicuramente la differenza.
Il personaggio deviante è infatti in parte assimilabile con quella che Lemert chiama deviazione primaria, e il ruolo del deviato di conseguenza si potrà paragonare ad una deviazione secondaria.
Vi sono però delle differenze importanti: tra personaggio e ruolo la divisione è più sottile che tra deviazione primaria e secondaria. Si può verificare una coincidenza soprattutto quando il ruolo – per un motivo o per un altro – è desiderato o sentito dall’individuo come parte determinante della propria vita. Nei casi di coincidenza tra i due status è quasi impossibile l’uscita dal ruolo.

Per quanto riguarda il caso specifico delle devianze, per Lemert è l’occhio del pubblico reale a esserne il fulcro, e quindi se l’individuo non viene scoperto dagli altri la sua azione non assumerà per lui alcuna importanza.

A mio parere, seguendo la teoria del personaggio e del ruolo, è l’importanza che l’individuo dà alla sua azione, è il pubblico introiettato a fungere da fulcro. Certo, questa importanza potrà essere incrementata dall’occhio sociale (e il più delle volte accade), ma considerare solo questo esclude altre possibilità che di fatto si verificano. Un individuo che ha commesso un’azione deviante può sentirsi descritto da quella azione anche se non scoperto da persona alcuna, in quanto può essere lui stesso il suo pubblico, così sarà l’importanza che darà lui stesso all’azione e la gravità della stessa a fare la differenza.
Stesse azioni verranno interpretate in maniera diversa, a seconda dell’educazione (socializzazione primaria) e dell’esperienza di vita (socializzazione secondaria). Potrà esserci un ragazzino che fumando una canna fa spallucce e non si preoccupa del suo gesto relegandolo solo ad un suo personaggio dei tanti di cui dispone, mentre un altro può avvertire di aver fatto una cosa talmente grave da sentire la sua vita pian piano girare attorno a questo gesto. Quest’ultimo rischia di farsene un cruccio ed è pronto ad avverare la profezia del “drogato”, trasformando il personaggio interpretato una sola sera, in un ruolo che pian piano uscirà allo scoperto, e una volta fuori diventerà ancora più difficile da cancellare (e qui ci riagganciamo alle motivazioni di Lemert).
Ma può anche accadere che vi sia una trasgressione che mai verrà scoperta, ma così grave da far sentire la persona intimamente descritta in buona parte da quella azione, questo potrebbe essere il caso di un omicidio non scoperto, ma che turba i pensieri di chi l’ha commesso facendo ristrutturare i concetti che ha su se stesso, cambiando la sua pelle e talvolta anche le sue abitudini.
Anche in questo caso il personaggio è diventato un ruolo che la persona ha per il suo pubblico interiore. E’ probabile che il ruolo in questo caso rimanga tale, che non diventi mai devianza secondaria a livello lemertiano, ma che possa avere lo stesso effetto di ristrutturazione totale della persona e dell’idea che ha di sé. In pratica, un auto etichettamento. Così la paura di avere un determinato ruolo nella società rischia di avverare la profezia, in quanto impedisce alla persona di pensare ad altro.
Inoltre se il pubblico non è introiettato ma è solo esterno, la persona non si sentirà sempre descritta dalla sua deviazione secondaria, in effetti potrà essere descritta da tanti altri ruoli: padre, figlio, amico, innamorato, vittima, progressista ecc. Questo perché i ruoli possono essere tanti e non relegano per forza di cose ad un solo schema intorno al quale girare. E quindi vi possono essere ruoli che sono tali solo con alcuni pubblici, ma non con altri, mi viene qui in mente il boia/padre descritto in “Uno, nessuno o centomila” da Pirandello.
Di contro un individuo che ha commesso un’azione riconosciuta pubblicamente come deviante, può tentare di costruire un personaggio innocente e convincersi. Infatti un’altra differenza tra questa impostazione e quella di Lemert è che se il personaggio non è casuale e sporadico, ma è scelto volontariamente come quel sé che abbiamo deciso di essere e di esibire alla società, viene sentito maggiormente come parte di noi stessi rispetto al ruolo.
E’ l’esempio di un genitore accusato (magari giustamente) di aver ucciso il figlio, il quale cerca di convincere il pubblico della sua innocenza mettendo in scena un personaggio del quale si auto-convince, che però non convince anche il pubblico reale, il quale appioppa a questo genitore il ruolo di bugiardo o di pazzo. Attenzione: anche questo potrebbe diventare un ulteriore ruolo o personaggio.

In pratica, se secondo Lemert c’era la deviazione primaria e quella secondaria, a mio parere c’è il personaggio, il ruolo e poi ancora il personaggio che può coincidere con il ruolo o crearne ancora un altro. Personaggi e ruoli sono quindi in continuo movimento e l’individuo non è più vittima ma fautore. Questo fa sì che vi sia più spazio per la responsabilità individuale e che l’individuo sia meno in balia della società, anche se i personaggi ai quali l’individuo può attingere sono quelli descritti proprio dalla stessa società.
Inoltre Lemert non ipotizza una situazione in cui si possa passare dalla devianza secondaria a quella primaria. Invece la mia teoria prevede anche la possibilità che da un ruolo radicato si torni ad essere solo un personaggio momentaneo.
Questo accade quando si comprende che non si è descritti da un’unica azione o periodo della propria vita. L’individuo talvolta fa questo automaticamente, per esempio quando la persona cambia spontaneamente il suo modo di pensare e di vivere: per non perdere la propria coerenza userà meccanismi che lo aiutino a dare un significato alle azioni passate del tipo “ero immaturo” oppure “facevo e pensavo questo ma in fondo in fondo ero diverso”. In questi casi giocano anche meccanismi come la rimozione o l’intellettualizzazione.
Laddove ce ne sia bisogno, si può cambiare la visione che si ha di se stessi attraverso l’uso strategico della narrazione così che da deviante ci si possa considerare responsabile e attivo nelle proprie scelte: “io non sono così, ma in quel momento ho scelto di fare così”. Questo è importante perché ora può scegliere di fare diversamente.

Ovviamente questa mia teoria sulla devianza, la quale parte da una mia più ampia teoria sul ruolo e sul personaggio, non vuole paragonarsi alla più elaborata teoria dell’etichettamento e della devianza di Lemert, né vuole essere una soluzione definitiva ad alcune delle critiche ad essa poste. Ma vuole conservare una giusta flessibilità essenziale per non cristallizzarla a fronte della mutevolezza che è parte essenziale di ogni società. Vuole essere, in sostanza, un punto di partenza di studio che oltre a narrare dell’importanza delle interazioni, sposti il focus sulla responsabilizzazione dell’individuo per una sua minore vittimizzazione e una più attiva possibilità di scelta. Per dare maggiori speranze sia al singolo che al sistema sociale del quale fa parte.

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