Era la primavera del lontano 2011, quando questo sito proponeva la questione dell’isolata posizione italiana, in seno al Gruppo che si occupava di definire le modalità di accesso dell’Unione europea al sistema convenzionale europeo dei diritti umani con sede a Strasburgo – v. Diritti umani: in Europa l’Italia è una voce fuori dal coro ((https://www.goleminformazione.it/commenti/diritti-umani-in-europa-l-italia-e-una-voce-fuori-dal-coro.html#.VQ5brVxhZ6A)) – .
Il Gruppo di lavoro predisponeva un sistema di ricorso verso gli atti dell’Unione europea, con un “semaforo” ad attivazione variabile nei confronti della Corte europea dei diritti dell’uomo; e, poiché tutti i salmi finiscono in gloria, corredava questa geniale trovata con l’elezione di un nuovo giudice di fonte Unione europea.

I nostri distinguo (bellamente ignorati, anche nella relazione finale del lavoro del Gruppo) potevano apparire dettati dalla propensione nostrana alla sottigliezza del leguleio latino, rispetto al solido pragmatismo nordeuropeo: invece, dallo scorso dicembre, l’intero processo di accesso dell’Unione è deragliato, alla luce della stroncatura contenuta nel parere n. 2/2013 reso dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Un parere assai articolato ma che, sul punto della primazia del diritto dell’Unione, vendica molte delle considerazioni espresse tre anni fa: anche quelle evocate dalla nostra Corte costituzionale, che prima aveva accennato ai «problemi che l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali» (sentenza n. 138 del 2010), stante la scansione multilivello del sistema di tutela.

Il meccanismo prefigurato nella proposta di adesione dell’Unione europea al sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo segue una falsa visione prospettica, riferendosi agli obblighi gravanti sull’Unione dall’adesione come riferiti ai suoi soli organi centrali.
In questo modo si ignora che, come ripetutamente dichiarato dalla Corte di giustizia, i trattati fondativi dell’Unione hanno dato vita, diversamente dai trattati internazionali ordinari, ad un ordinamento giuridico nuovo, che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati, ma anche i cittadini degli stessi.

Ora, la Corte di giustizia lamenta l’assenza (paragrafo 190 del parere), nell’accordo previsto, di una norma intesa a garantire il coordinamento non già tra gli organi, ma tra gli standard di tutela dei due sistemi giurisdizionali: problema assai più complesso di come la questione era presentata nella bozza di accordo, perché richiede di andare a visionare singolarmente tutte le differenze tra i due ordinamenti giurisdizionali sovranazionali europei.

Si tratta di un groviglio virtualmente inestricabile: com’è noto, il sistema che fa capo alla Corte di Lussemburgo appresta per il cittadino soprattutto la possibilità di richiedere una questione pregiudiziale nel corso del giudizio dinanzi alle istanze nazionali, producendo un’interpretazione cogente delle sole norme europee; la Corte di Strasburgo, invece, opera al termine dei mezzi di ricorso interno, producendo un accertamento di violazione delle norme convenzionali.

Parrebbe una questione che si possa lasciare a riposare per il prossimo secolo, continuando ad appassionare i soli teorici del diritto processuale, se non fosse che – invece – la ricaduta nel nostro ordinamento si fa ogni giorno più attuale: dal sistema convenzionale strasburghese discendono direttamente (per l’equo indennizzo riconosciuto alle vittime di violazioni della CEDU) o indirettamente (per le somme riconosciute, a livello nazionale, a titolo di indennizzo delle violazioni convenzionali dalle leggi Pinto sulla durata dei processi e Orlando sulla detenzione inumana) somme che è complicatissimo conseguire.
In un’eterna guerra di gatti contro topi, lo Stato italiano dichiara impignorabili quasi tutti i suoi beni, per evitare che gli indennizzi siano pagati sfondando il bilancio nazionale (la somma di quasi settecento milioni annui per la legge Pinto è stata data, questo gennaio, all’inaugurazione dell’anno giudiziario piemontese).
Al contrario, lo Stato sente assai più il fiato sul collo quando è destinatario di una condanna per inadempimento dell’altra verticale delle competenze della Corte di giustizia, quelle sull’inadempimento delle norme del diritto dell’Unione europea: lì le multe, di fatto, vanno a “defalco” delle (consistenti) erogazioni dei fondi europei verso gli Stati nazionali, per cui la cosa si fa molto più efficace, e la volontà dello Stato di “mettersi in regola” pure; il caso dei precari della scuola, da ultimo, insegna (ma basta vedere anche la vicenda della responsabilità civile dei magistrati o quella delle discariche di rifiuti mal tenute).

Ecco allora che la convenienza, a riaprire il caso dell’accesso dell’Unione alla Convenzione, per i nostri cittadini c’è tutta: a condizione di mettere a contatto i due sistemi di tutela, per conseguire il meglio da ciascuno dei due.

Ci provano, da un mese, i senatori firmatari della mozione n. 1-00383 (consultabile alla URL http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/showText?tipodoc=Sindisp&leg=17&id=904223), che suggerisce una modalità meno elaborata del processo a 47 Stati, che si proponeva finora emendando la Convenzione: l’idea è quella di limitarsi, almeno per il momento, ad una modifica dei trattati sul lato dell’Unione europea, che reca una composizione a 28 Stati, con maggiore omogeneità di comportamento in sede di ratifica (e minore rischio di veti da parte di Stati periferici ad alta potenzialità interdittiva, come già avvenne con la Russia per il Protocollo n. 14).

La novità della proposta è l’ibridazione del sistema giurisdizionale dell’Unione con le caratteristiche giurisdizionali della tutela offerta a Strasburgo: pur restando un sistema complementare/sussidiario rispetto alle giurisdizioni nazionali, si propone che anche Lussemburgo conosca – in sede di giudizio per inadempimento del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri – la richiesta di indennizzo del soggetto leso, purché intervenuto nel giudizio.
Tale modalità copre buona parte dei dubbi sulla “protezione equivalente” che, a tutt’oggi, manca rispetto alla tutela che Strasburgo accorda ai ricorrenti.

Ma resta il dubbio che un ultimo margine di difformità giustifichi la permanenza di un rivolo di ricorsi “lussemburghesi” verso Strasburgo: quelli sul diritto dell’Unione stesso, e la sua judicial review che attualmente viene effettuata dalla Corte di giustizia alla stregua (per quanto riguarda i diritti umani) della Carta di Nizza.
Pur trattandosi di un testo “gemmato” dal mezzo secolo di elaborazione giurisprudenziale (anche) CEDU – e pur essendo, ambedue i trattati, dotati di clausole di salvaguardia delle maggiori tutele reciproche – è di tutta evidenza che letture diverse del medesimo diritto possono produrre esiti difformi. La questione non si risolve certo dando all’Unione un seggio su 49 a Strasburgo, ma in modo più radicale.

La proposta della mozione è quella della fusione per incorporazione: fermo restando l’attuale Tribunale (per il primo grado), la Corte di giustizia – con sede a Lussemburgo – andrebbe a comporsi con la frazione di giudici strasburghesi che già sin d’ora sono espressi dai 28 membri dell’Unione. Esiti difformi sarebbero pressoché impossibili, in via di fatto, e la stesso possibilità di impugnare a Strasburgo decisioni assunte a Lussemburgo si estinguerebbe: la Corte di giustizia – quando conosce contenziosi fondati sulla tutela dei diritti fondamentali – si potrebbe qualificare quasi come una “sezione distaccata” della Corte europea dei diritti umani. Ma, soprattutto, si potrà evitare quel fenomeno preoccupante che, negli ultimi anni, è diventato il “forum shopping”, con cui si intasano di cause identiche i ruoli di ambedue le Corti.

Certo, è una proposta forte, perché sottrae la nomina ai Governi dell’U.E. e la dà all’Assemblea parlamentare di un altro organismo (quella del Consiglio d’Europa, composta delle delegazioni di 47 Parlamenti).
Ma è anche vero che quest’organo, comunque, vota su terne proposte da ciascuno Stato membro; così com’è vero che – se proprio, in un secondo tempo, si vorrà intraprendere un processo negoziale anche in quella sede – si potrebbe scegliere di delimitare l’ambito dell’elettorato attivo alle sole delegazioni provenienti dai 28 Stati dell’Unione. La stessa assemblea plenaria della Corte europea dei diritti dell’uomo potrebbe definire criteri – per i collegi incaricati di conoscere ricorsi provenienti dai 28 Stati dell’Unione – omogenei con la composizione della Corte di Lussemburgo.

La soluzione di un complesso problema giuridico, operando sulla leva della composizione, può apparire un po’ ottocentesca, ricorrendo ai mezzi con cui il diritto internazionale classico unificava, o differenziava, gli ordinamenti giuridici con l’unione personale dei monarchi.
Ma la strada che sin qui è stata percorsa, ignorando i moniti italiani, si è rivelata un buco nell’acqua. La costruzione di un sistema piramidale, in cui le Corti nazionali stanno alla base, la Corte di Lussemburgo nel mezzo e la Corte di Strasburgo in cima, era parto di un disegno non meno astratto: da quando l’Unione si è dotata della Carta di Nizza e questa è stata incorporata nei Trattati di Lisbona, il contrasto tra le due Corti sovranazionali era in re ipsa.

Forse, in un’Europa dei popoli, avrà migliore fortuna la proposta di una Corte eletta dall’intero continente: darebbe, ai supremi giudici dell’Unione, un’indipendenza maggiore dai Governi che finora li hanno espressi e, chissà, anche un respiro più vasto. Già da vent’anni, i criteri di Copenhagen governano il processo di adesione all’Unione facendo riferimento anche alla giurisprudenza di Strasburgo: la fusione dei due ordinamenti – sotto il profilo giurisdizionale – darebbe una sempre maggiore spinta all’unità del continente e, con essa, all’ampliamento dello spazio comune di libertà e giustizia che abbiamo creato.

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