Il 30 luglio fa molto caldo a Latina, città umida e sempre un po’ paludosa, d’altronde si è sempre dichiarata attaccata alle sue origini. La stazione ferroviaria si trova a dieci chilometri dal centro abitato, distanza enorme per una cittadina di 100.000 abitanti. Mi muovo. Saluto mia moglie e mia figlia, testimonianze straordinarie della mia nuova vita. Eppure il viaggio che mi porterà all’Università degli Studi La Sapienza di Roma è un tuffo nel passato, quando esattamente 20 anni fa mi iscrivevo a Matematica.

Oggi ricordo con simpatia quel primo giorno, a metà settembre: tra le mani la ricevuta che attestava la mia iscrizione alla facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, e quel mio imbarazzato silenzio, quella mia paura del futuro, quella domanda: avrò fatto la scelta giusta? Poi le prime lezioni. Sveglia alle 5.30, autobus alle 6.10, treno alle 6.44, arrivo a Roma Termini alle 7.30, e di corsa all’università, grazie alla solidarietà dei docenti che iniziavano alle 8.00 puntualissimi. Sempre così, per tre anni, poi al quarto le lezioni si svolgevano anche di pomeriggio, perché all’ultimo anno di Matematica i corsi sono frequentati da sette, massimo otto studenti, e non perché non si voglia frequentare ma perché la selezione dei primi due anni è sempre stata durissima. Analisi I, Algebra, Fisica I, Geometria I, Analisi II, Fisica II, Geometria II, Meccanica Razionale. Otto esami e termina il primo biennio. Tutti con una prova scritta e una orale. (Algebra ci consentì “gli esoneri”: al posto di uno scritto ce ne fece fare sette… eravamo così contenti). Poi il secondo biennio: Istituzioni di Analisi Superiore (due volumi: teoria della Misura e Analisi Complessa, con una variante sulla Teoria della Distribuzioni, e i volumi divennero tre), Istituzioni di Fisica Matematica, Analisi Numerica, Informatica Generale, analisi Numerica II, metodi e modelli per l’Ottimizzazione, Metodi di approssimazione. Chiaramente l’indirizzo preso era quello applicativo numerico. Mi dedicavo all’approssimazione, studiavo solamente in testi in lingua inglese (il mitico Royden o il Tichonov-Samarskij) e i miei docenti ci facevano seguire appassionanti (senza ironia) seminari di docenti georgiani (l’inglese parlato da un ex sovietico è per me quasi incomprensibile, ma i simboli matematici sono universali). La tesi. «Sia omega un dominio semplicemente connesso»: così iniziavo la discussione nell’aula Picone, al piano terra dell’Istituto G. Castelnuovo di Roma. Poi, quella stessa docente che si presentò il primo giorno di Università spiegando la teoria dei gruppi, mi interrogò l’ultimo giorno sulla “tesina”, un argomento illustrato solo oralmente, complementare all’indirizzo da me scelto nel piano di studi. Dopo le angosce, le risate con i compagni, i giorni dell’allegria e della fatica, avevo la Laurea in Matematica, solennemente dichiarata dal presidente della commissione in nome del Popolo Italiano. L’ambiente universitario mi appassionava. Per alcuni mesi continuai a studiare nel campo dell’analisi numerica proprio al Castelnuovo, aiutavo alcuni compagni, colleghi, laureandi e mi illudevo di essere pronto per la medaglia Fields.

Mentre sto aspettando il treno, proprio come uno studente, ripenso al periodo subito dopo la laurea, quando la preside del Liceo Scientifico della mia città mi chiamò per una supplenza che si rivelò più lunga del previsto. Nel 1999 le supplenze erano ancora gestite dai presidi. Rido al ricordo del vicepreside che mi scambiò per studente rimproverandomi la presenza nel corridoio, e ricordo i volti dei ragazzi, quei volti che iniziavano a dare senso ai miei studi, quei volti che mi rendevano responsabile. Compresi quello che già sapevo: a me piaceva insegnare matematica.

Arriva il treno. Lo stesso treno desolante di allora. In vent’anni Trenitalia avrà costruito l’alta velocità tra Roma e Milano ma tra Roma e Latina i treni sono ancora gli stessi luridi e maleodoranti ambienti malsani. Oggi dicono che ci sia l’aria condizionata: lo sa bene il viaggiatore davanti a me a cui è caduto un secchio d’acqua in testa dal condizionatore rotto.

Il viaggio in treno dura quasi un’ora. In quei quaranta minuti ripenso al primo concorso per insegnanti che feci nel 1999. Mi viene ancora rabbia quando ricordo gli articoli di giornale che svelarono le prove truccate, gli arresti, le mazzette di soldi trovate con i nomi dei candidati oggi docenti di ruolo, lo scandalo sessuale… una cronaca squallida che non è divenuta storia, anzi è stata volutamente dimenticata rimettendo i presunti corrotti di allora al loro posto e i presunti corruttori vincitori di concorso. Ma io andai anche a Rieti. E vinsi, nel senso che superai le tre prove (scritta, orale e pratica) e mi abilitai per l’insegnamento della Matematica Applicata, certificata sempre in nome del Popolo Italiano. Oggi sono ancora nella graduatoria di merito e in quella permanente.

Il treno arriva in prossimità della stazione e si ferma prima della via Casilina, davanti, come sempre, al negozio di parrucche da uomo (sexy wig). Poi riparte. Guardando le vie romane ripenso al colloquio che ebbi per ottenere la borsa di studio all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Per due anni e mezzo frequentai i laboratori di via di Vigna Murata. Era per me appassionante studiare l’approssimazione delle soluzioni di un’equazione differenziale enorme che descriveva i movimenti d’aria nella ionosfera. Ero nell’unità di Climatologia ma, alle 14.00, risalivo dal laboratorio per dialogare su come organizzare le visite didattiche degli studenti dei licei nell’istituto: lo chiamavano una caffè per la didattica. Il professore mi mandò poi a studiare a Pesaro, un corso di perfezionamento in educazione ambientale, ogni mercoledì, da settembre a luglio, più alcuni sabato. L’esame finale, gli stage all’aperto, all’isola di Pianosa o sui monti di Urbino, la discussione della tesi… e la consapevolezza che non avrei mai smesso di studiare.

Scendo dal treno. Sono le dodici. L’appuntamento all’università, proprio nel dipartimento di Matematica è alle due e mezza. Procedo con calma… ripercorro le stesse strade che per anni mi hanno accompagnato verso la facoltà. Ripenso a quando ritornai a La Sapienza invitato da un docente della facoltà di Economia. Io avevo tenuto una dozzina di lezioni di Matematica Finanziaria ad un’aula gremita di matricole. Dopo le lezioni ringraziavo io i docenti titolari del corso per l’onore che mi facevano… a stento riuscii, dopo un anno di lezioni anche di Informatica, sia a Roma sia a Viterbo (Università della Tuscia), a ottenere un certificato di servizio, chiaramente non valido ai fini economici. Decisi di non concedere più io l’onore delle mie lezioni a quel docente.

Attraverso via del Castro Pretorio… penso che non sono passati poi tanti anni dall’ultima volta che andai alla Sapienza. In fondo nel 2007 avevo frequentato, per un anno intero, i corsi della SISS, la scuola per prendere l’abilitazione all’insegnamento. Poiché dopo l’esperienza all’INGV, decisi di continuare ad insegnare matematica, fui chiamato prima per una lunga supplenza a Latina, e poi, l’anno dopo, nel 2004, fui assunto nella scuola dove insegno tutt’ora, all’Istituto Salesiano PIO XI di Roma, per insegnare Matematica Applicata nell’IGEA. Volevo abilitarmi anche in Matematica. Gli anni di servizio mi agevolarono e potei iscrivermi alla SISS Speciale. Ogni sabato per un anno e, di nuovo, le stesse discipline dell’università, con docenti meno preparati, senza alcuna lezione che riguardasse la didattica della Matematica, senza imparare nulla di nuovo: algebra I, algebra II, analisi I, analisi II, calcolo delle probabilità, geometria I, geometria II… presi trenta ad ogni prova. E quando, dopo una noiosa lezione sui grafi, ringraziandolo prima del ripasso di quanto già studiato all’università, chiesi al docente come affrontare l’argomento con preadolescenti dalle inappropriate conoscenze sulle frazioni, non ricevetti risposta. Chiaramente mi abilitai nella classe di Concorso ‛Matematica’, dopo un esame di Stato costituito da tre prove (scritto, orale e pratico), dichiarato solennemente in nome del Popolo Italiano.

Finalmente arrivo all’Università. Il 30 luglio, nel caldo delle dodici e trenta, i casermoni dalle linee squadrate appaiono più imponenti del solito. Fiero e sfidante, guardo nel volto la statua della Minerva pensando «non mi fai più paura». Decido di prendere un caffè. Fuori dal bar incontro il papà di un mio alunno attuale. Scopro che insegna alla Sapienza, alla facoltà di Medicina. Chiacchieriamo per una decina di minuti delle novità che introdurremo a settembre nella mia scuola, della didattica della scienza, delle nuove generazioni: mi presenta ai suoi ospiti come il professor Proietti. Mi allontano, pronto ad affrontare l’entrata al guido Castelnuovo. L’istituto si presenta a me come se lo avessi lasciato due giorni prima: sempre uguale. Sulle scale riconosco il docente che all’epoca insegnava Analisi IV… lui, ovviamente, non riconosce me. La custode è sempre lei: mi riconosce e mi saluta cordialmente, segno evidente della differente umanità nelle relazioni all’università. Vado verso l’aula III, luogo di tante lezioni e di quasi tutti gli esami scritti. È li che, dopo vent’anni, di cui dieci passando ad insegnare Matematica, e venti a studiarla, dovrò, se voglio accedere al corso che potrà abilitarmi all’insegnamento della Matematica e Fisica, superare la prova preselettiva del TFA. Mi accoglie sorridente il docente esperto di didattica. Inzia il rito del riconoscimento e l’elenco dei doveri e dei “vietato”. Ci distribuiscono le prove e il docente esperto di didattica alzando le mani, sempre sorridendo, si dichiara inconsapevole e non responsabile dei quesiti che troveremo dentro le buste. Non sa, l’esperto, che nella mia mente, al pensiero dei numerosi errori, il volto che avrò di fronte sarà il suo…

Torno a casa inquieto. Ripercorro le stesse strade, prendo lo stesso treno carico di vacanzieri diretti verso il mare.

Sono convinto che il test presentava diversi errori, ma, nonostante i miei 38 anni, ho l’insicurezza dello studente davanti al compito, e con la mente tento di rifare i calcoli:  sempre lo stesso risultato, non presente nelle possibilità di risposta. Scrollo le spalle, sono arrivato a Latina.

Nella mia scuola stiamo studiando un progetto pedagogico nuovo, attraverso il cooperative learning usando i tablet in classe. So che ad Agosto, prima di settembre, dovrò studiare l’uso delle nuove tecnologie nella didattica. Ho un’altra prospettiva, allettante e gratificante, lontano dal mondo polveroso e stantio di una Università che valuta la complessità delle relazioni didattiche ed educative attraverso crocette e indagando sul nozionismo più obsoleto.

Mentre agosto si esaurisce velocemente, il ministro si dichiara anche lui irresponsabile degli errori di redattori fantasma dei test, e annuncia il nuovo concorso. In nome del popolo italiano, quello stesso popolo che mi ha riconosciuto una laurea, che mi ha riconosciuto due abilitazioni, che mi ha interrogato almeno venti volte richiedendomi sempre le stesse cose, oggi dice: «non basta, figlio mio, in nome del popolo italiano».

fonte www.oradibuco.it

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