Un nuovo ripensamento della Corte Suprema sulla questione della possibilità di poter ottenere la revocatoria della vendita di un bene o della casa coniugale al proprio coniuge in sede di separazione dei coniugi o in sede di divorzio dovendo decidere se tutelare gli interessi del coniuge o quelli del creditore.
L’ordinanza n° 17908 del 5 aprile 2019 è importante perché approfondisce alcuni aspetti sui quali il giudice deve basare la propria attenzione per stabilire se il trasferimento di proprietà effettuato con la separazione possa essere soggetto o meno alla domanda revocatoria dei creditori.
La questione peraltro è di estremo interesse anche perché ha ricevuto una valutazione contrapposta nel senso che, prima il Tribunale ha accolto la domanda revocatoria, poi la Corte d’Appello ha annullato la sentenza del Tribunale ritenendo fondato il diritto della moglie di trattenere la casa e, solo successivamente, la Cassazione è tornata sul punto dichiarando revocata la cessione.
LO SVOLGERSI DEGLI EVENTI
La questione narrata dalla Cassazione nasceva da una separazione fra coniugi nella quale il marito aveva ceduto alla moglie il 50% della quota dell’importante immobile adibito a residenza familiare privandosi in tal modo della parte principale del patrimonio in pregiudizio delle ragioni creditorie degli aventi diritto i quali avevano eseguito dei lavori agricoli in favore del marito.
Il Tribunale, in maniera piuttosto sommaria, con la prima sentenza accoglieva la domanda, ravvisando la natura gratuita dell’atto di disposizione in ragione del fatto che, con l’atto di separazione il marito si era già obbligato a versare alla moglie l’assegno di € 300,00 mensili per il mantenimento del figlio minore ed un’ulteriore somma una tantum di € 53.000,00. Dunque la cessione della casa diveniva ingiustificata e gratuita.
La sentenza tuttavia veniva impugnata e modificata dalla Corte d’Appello di Brescia la quale riconosceva l’atto dispositivo, di natura onerosa e non gratuita, essendo esso inserito nell’ambito della più ampia sistemazione assolutoria-compensativa, dei rapporti patrimoniali maturati fra i coniugi durante i 14 anni di matrimonio.
Escludeva inoltre la Corte d’Appello che vi fossero prove, anche di natura presuntiva, da cui desumere che la donna fosse a conoscenza delle condizioni patrimoniali del marito considerando che i lavoratori attori in primo grado, vantavano ragioni creditorie derivanti dallo svolgimento dell’attività imprenditoriale svolta solo in favore del marito.
Inoltre le richieste di pagamento e le notifiche erano sempre state effettuate a mani del marito senza che nulla sapesse la moglie, mentre i crediti erano di poco anteriori alla separazione personale, quindi credibilmente sconosciuti alla moglie e le difficoltà economiche del marito erano iniziate quando i rapporti personali fra i coniugi erano già da ritenersi deteriorati.
La Corte d’Appello escludeva inoltre che vi fosse alcuna prova della simulazione della separazione personale semplicemente perché ad essa aveva fatto seguito la sentenza di divorzio.
La circostanza che il marito fosse rimasto per qualche tempo a vivere presso la casa coniugale e solo dopo si fosse trasferito poteva dipendere esclusivamente dall’esigenza del tempo necessario per procurarsi un altro alloggio e quindi di per sé non vi era motivo da far ritenere la sussistenza di una simulazione.
IL RIPENSAMENTO DELLA CASSAZIONE
La Suprema Corte prima di entrare nel merito della questione riesaminava gli orientamenti che si erano formati sino a quel momento per ciò che riguardava la questione dell’impugnazione per revocazione degli atti di compravendita effettuati con la separazione.
Si rilevava innanzitutto che la giurisprudenza di legittimità riconosceva da tempo che le attribuzioni patrimoniali dall’uno all’altro coniuge, concernenti beni immobili o mobili, in quanto attuate nello spirito di sistemazione dei rapporti tra i coniugi in occasione della separazione consensuale, sfuggono alle connotazioni classiche dell’atto di donazione vero e proprio, (estraneo di per sé ad un contesto tipico della separazione personale caratterizzato dalla dissoluzione delle ragioni della convivenza materiale e morale) e dall’altro lato a quello di un atto di vendita (attesa oltretutto l’assenza di un prezzo corrisposto).
Tali attribuzioni, sempre secondo l’ormai consolidato indirizzo di legittimità vanno quindi a considerarsi tipiche e talvolta caratterizzate dall’obbiettiva onerosità allorché si provveda alla sistemazione in un sistema solutorio-compensativo di tutta una serie di possibili rapporti patrimoniali fra i coniugi.
L’onerosità dell’attribuzione patrimoniale però non si può far discendere semplicemente dalla sussistenza di un obbligo legale di mantenimento, ma deve emergere dall’esigenza oggettiva di riequilibrare le posizioni economiche vicendevoli considerando il contributo apportato da un coniuge al menage familiare.
Tale accertamento è importante in quanto giustifica effettivamente lo spostamento patrimoniale tra i coniugi.
Nel caso specifico, rilevava la Cassazione, tale disparità di trattamento, tale da giustificare un così rilevante trasferimento di beni e di denaro non appariva convincente.
Inoltre non sussisteva neanche il presupposto di cui all’art. 156 comma 2° c.c.
Infatti l’assegno di mantenimento al quale veniva aggiunto anche il 50% della proprietà immobiliare, doveva intendersi finalizzato a garantire la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto durante la convivenza matrimoniale.
Tuttavia nel caso specifico mancava la situazione di disparità economica che potesse far ritenere convincente tale attribuzione patrimoniale.
Di contro la Corte territoriale non aveva affatto valutato se la moglie avesse titolo di vedersi attribuito sia il mantenimento, sia il rilevante valore dell’immobile, cosa che non corrispondeva a realtà in quanto la moglie aveva già percepito la metà dei risparmi comuni, dei titoli azionari, delle obbligazioni acquistate da entrambi i coniugi durante il matrimonio ed in sostanza il marito si era spogliato di tutte le sue sostanze trasferendole alla moglie, rendendosi di fatto impossidente.
L’ASSEGNAZIONE DELLA CASA CONIUGALE
Tenuto conto dell’incostanza di alcune decisioni sul punto della inefficacia o meno delle cessioni immobiliari, va detto che, sotto un certo profilo, è preferibile tutelare il coniuge, con l’assegnazione della casa coniugale, istituto che non sembra impugnabile da terzi con l’azione revocatoria.
Infatti, va detto che danneggia forse maggiormente il creditore l’assegnazione della casa coniugale, trascritta alla Conservatoria dei Registri immobiliari, piuttosto che la cessione dell’immobile in sede di trasferimento di proprietà, sia pur godendo delle esenzioni fiscali di cui alla legge 898/70 applicabili sia in tema di separazione che di divorzio.
Infatti, mentre da un lato, il trasferimento di proprietà può essere soggetto all’azione revocatoria dei creditori, dimostrando o l’esistenza di un accordo simulatorio sottostante o la conoscenza da parte della moglie della situazione debitoria del marito, dall’altro e ben più subdolo il peso imposto per l’assegnazione della casa coniugale.
Infatti in questo caso, pur potendo il creditore agire nei confronti dell’immobile e quindi dar luogo all’esecuzione forzata per la compravendita, di fatto ben difficilmente all’asta fissata dal Tribunale, qualche soggetto sarà interessato ad acquistare l’immobile, del quale in realtà si acquisterebbe soltanto la nuda proprietà, in quanto gravato dal diritto di abitazione in favore della donna, la quale continuerebbe ad abitare nell’alloggio fino al nuovo provvedimento del Tribunale e comunque fino all’autonomia economica dei figli.