Conclusa la corsa elettorale di Barack Obama e Mitt Romney, martedì l’America va al voto. Sebbene secondo i sondaggi siano i temi economici a determinare la scelta degli americani nell’elezione del prossimo presidente, i programmi dei due candidati hanno ruotato soltanto sulle riforme portate avanti dall’amministrazione Obama. Il presidente uscente vuole migliorarle, lo sfidante vuole invece abrogarle.
Willard Mitt Romney, 65 anni, non è alla sua prima apparizione politica. Quattro anni fa era candidato alle primarie del Partito repubblicano (gli venne preferito l’eroe della guerra del Vietnam, John McCain), in qualità di governatore uscente dello Stato del Massachusetts, carica che ha coperto dal 2003 al 2007. Romney vinse le governative del Massachusetts, uno degli stati più liberal dell’America, contro il candidato democratico, Shannon O’Brien, presentandosi come un repubblicano “moderato”, dalle idee “progressiste”, un businessman calatosi nella politica. Romney è stato dal 1977 al 1985 amministratore delegato della Bain&Company, importante società di consulenza strategica e organizzativa, ed è tra i fondatori della Bain Capital, compagnia che dal 1984 ha investito o acquisito centinaia di aziende americane in difficoltà, anche famose come Burger King. Romney, dal 2004, non è più nell’esecutivo della Bain Capital ma ne è rimasto comunque un investitore.

 

I ripensamenti di Mr. Romney
Durante il suo mandato da governatore, dominato dalla necessità di riequilibrare un deficit di bilancio di quasi due miliardi di dollari, non sono mancati aumenti alle tasse e tagli alle spese, specie nell’ambito dell’istruzione e della sanità, anche se poi ha fatto approvare, quasi in chiusura di mandato, una riforma estensiva di Medicaid, il programma di sanità pubblica del Massachusetts, per molti punti simile al Medicare di Obama. L’amministrazione Romney, dominata da alti e bassi, continui cambi di strategia, ha messo in regola i conti pubblici dello Stato, ma non la sua economia; e, a quanto dicono i sondaggi, il Massachusetts darà il suo voto al partito democratico e a Obama.
Secondo il New York Times, l’ex-governatore era spesso assente, anche nei momenti più importanti delle vicissitudini legislative del Massachusett: in cinque anni avrebbe accumulato ben 475 giorni di assenza, perché in vacanza o in tour politici, in vista delle primarie repubblicane per le presidenziali del 2008, cui meditava dal 2005 di candidarsi. In quell’occasione Romney giocò ancora la carta dell’outsider; quest’anno, ha cercato e ottenuto l’appoggio politico dell’estrema destra del partito repubblicano candidando a vicepresidente Paul Ryan, legato al Tea Party, il movimento neocon noto per il suo liberismo intransigente. massachusettsLa famosa gaffe di Romney sul 47% degli americani che vive da parassita della società ne esprime in realtà il paradigma politico. Il candidato repubblicano, in un incontro a porte chiuse con dei ricchi donatori, ha tenuto un discorso abbastanza duro, ripreso di nascosto e messo poi sulla rete: “C’è un 47% di gente che vota Obama e che dipende dal governo – ha detto -, credono di essere vittime, credono che il governo debba prendersi cura di loro, che abbiano diritto alla salute, al cibo, alla casa, a quello che voi volete. È gente che non paga tasse, non li raggiungeremo mai, non me ne preoccupo”. Jim Messina, coordinatore dello staff di Obama, cavalcando i malumori nazionali, in una conferenza stampa ha commentato: “È difficile essere il presidente di tutti gli americani quando già non tieni in considerazione metà della nazione”. Romney non ha potuto sconfessare le sue parole, da lui stesso definite “ineleganti”, andando così a convalidare le preoccupazioni dell’elettorato moderato. In tutti i suoi interventi, l’ex-governatore ha alternato le posizioni estreme del suo programma ad affermazioni più neutre, contraddicendosi spesso su questioni molto importanti come le tasse (ha promesso che le avrebbe tagliate e poi ha detto che non era vero), il ritiro delle truppe dall’Afghanistan (definito prima della smentita un errore) e l’aborto (minacciando di prima cambiare la legge, poi di voler solo ripristinare il divieto di destinare fondi federali ad associazioni no profit che aiutano le donne ad abortire in altri Stati). “So, Mitt, what do you really believe?“, ha titolato The Economist la scorsa settimana, affrontando i 59 punti del “Programma per la Ripresa economica, la Crescita e il Lavoro”. Secondo l’autorevole rivista, sono molte e importanti le lacune e le contraddizioni del Programma di Romney: la riduzione del deficit pubblico entro i dieci anni e la diminuzione delle tasse sono “due ammirevoli scopi ma potrebbero escludersi a vicenda. Qual è l’obbiettivo principale?”.

 

electionAbolire la riforma sanitaria per finanziare la Difesa
“Penso che abbiamo bisogno di risollevarci dalla povertà di questi ultimi quattro anni. Io voglio creare 12 milioni di posti di lavoro, sostenere la piccola impresa e abolire l’Obamacare [la riforma sanitaria voluta dal presidente] per finanziare il settore della difesa”, ha affermato Romney nel corso del terzo dibattito presidenziale del 22 ottobre scorso. L’ex-governatore intende semplificare il sistema delle tasse; ma ancora una volta, la domanda resta la stessa: in che modo? Quale sistema vuole adottare? I tagli al bilancio federale non si possono limitare al solo comparto sanitario e alla cessazione della politica espansiva che Obama ha portato avanti in questi quattro anni per sostenere l’indebolita industria nazionale. “Un uomo d’affari senza un piano credibile per risolvere i problemi cessa di essere un credibile uomo d’affari”, è la caustica conclusione dell’Economist.
Nel suo programma promette di abolire il Dood-Frank Act, che (per quanto incompleto) rimane pur sempre un tentativo di regolamentazione del mercato finanziario. Non è chiaro se Romney intenda prendere misure alternative, ma una cosa è certa: il mercato non è capace di autogestirsi. Il premio Nobel per l’Economia Robert Stiglitz, in un’intervista, ha dichiarato che “le conseguenze macroeconomiche del programma economico devastante di Romney-Ryan sarebbero il rallentamento della crescita, l’aumento della disoccupazione, e proprio quando gli americani avrebbero bisogno di maggior protezione sociale, l’indebolimento del welfare”.

 

Michael Bloomberg, l’ex sostenitore del repubblicano
Anche sul tema delle questioni sociali, il candidato repubblicano non ha lasciato bene intendere le sue intenzioni. Obama l’ha più volte attaccato durante i tre dibattiti in diretta tv, dandogli del bugiardo e parlando di “Romnesia”, una particolarissima forma di amnesia che potrebbe spiegare i suoi frequenti cambi di posizione, che risalgono fin dai tempi in cui era governatore. Allora, in campagna elettorale si era dichiarato contrario ai matrimoni omosessuali, ma aveva promesso un qualche riconoscimento legale per le coppie di fatto, che non è mai arrivato. Il movimento per i diritti civili delle coppie omosessuali fu costretto a portare la sua richiesta alla Corte Suprema del Massachusetts, che ne avallò la costituzionalità e rese legale l’unione tra persone dello stesso sesso, nonostante le pressioni di Romney. Questa intransigenza gli è costata l’appoggio politico ed economico del magnate e sindaco di New York Michael Bloomberg: troppi gli argomenti su cui i due divergono, tra cui, a detta del sindaco, i più importanti sono il diritto all’aborto e il controllo delle armi da fuoco. Tutte le volte che il candidato repubblicano è stato interpellato sui diritti degli omosessuali o sulla parità di trattamento salariale per le donne, egli ha risposto di non credere alla discriminazione in base al sesso o all’orientamento sessuale e di aver dato spazio nel suo esecutivo a tutti coloro che fossero meritevoli, ma non ha mai parlato di riforme o leggi da sottoporre al Congresso.

 

Romney, due milioni di dollari all’erario
Accusato di evadere le tasse dirottando i suoi guadagni in conti off-shore, Romney è stato costretto a rendere pubblico il “730” per il 2011: in termini assoluti il candidato ha versato nelle casse dell’erario quasi due milioni di dollari, il 14% del reddito totale, una considerevole cifra di quattordici milioni, in gran parte derivati dal guadagno sulle vendite di azioni (il cosiddetto capital gain), non tassabile. Quasi contemporaneamente, la Bain Capital, che ha sede legale a Boston, ma è operativa nelle maggiori sedi finanziarie del mondo, è finita su tutti i giornali per via di alcuni licenziamenti in una sua controllata, la Sensata Technologies, i cui amministratori avrebbero deciso di dismettere le sedi americane per investire in Cina. Carta che Obama non ha esitato a giocarsi con un po’ di retorica durante l’ultimo dibattito televisivo del 22 ottobre (“Certo [Mitt Romney] ha ragione a dire che questo è il mondo in cui funziona il libero mercato. Io però ho fatto una scommessa diversa. Ho scommesso sui lavoratori americani”). Il candidato repubblicano ha glissato sull’allusione e anche il suo mentore, Bill Bain, si è mantenuto sullo sfondo, concedendo una singola intervista (a The Daily Beast), in cui si limita a sostenere che “gli ignobili attacchi first_ladiesnon meritano alcuna risposta”. “Stop the Romney Bain Economy” è stato lo slogan scandito dai lavoratori licenziati durante le manifestazioni del 19 ottobre scorso: l’associazione tra lo “spietato e senza regole” mondo della finanza e il candidato repubblicano è ben evidente; eppure sono molti gli stati che dai sondaggi appaiono “definitely Romney” e altrettanti quelli indecisi. Il segnale è forte: l’amministrazione Obama ha deluso gli americani. Forse erano troppo alte le aspettative; forse “rinnovare il sogno americano” (questo era il titolo del programma di Obama per il 2008) si è rivelato un compito troppo difficile per un presidente lasciato solo dopo le elezioni del 2010, quando i democratici sono finiti in minoranza alla Camera. La crisi economica e la politica estera hanno assorbito il mandato di Obama, impedendogli forse di pensare a quei cambiamenti strutturali che aveva promesso al “Paese che ha guidato il Ventesimo secolo, costruito una fiorente classe media, sconfitto il fascismo e il comunismo e fornito generose opportunità a molte persone”. Anche tra i volontari, anima e corpo della campagna di Obama, serpeggia la delusione: durante le interviste, alla domanda su perché fosse necessario rieleggere Obama, molti hanno risposto con un laconico: “perché Romney presidente sarebbe un disastro”. Eppure il comitato elettorale ha contattato telefonicamente 44 milioni di americani. Ha bussato alla porta di quasi quattro milioni di persone e registrato un milione di nuovi elettori. Oltre un miliardo i fondi raccolti, soprattutto tra i piccoli donatori: il 55% degli assegni staccati è di un valore inferiore ai 200 dollari. Tre milioni e mezzo le copie stampate e distribuite nei battleground States (gli stati di cui è difficile stabilire l’identità politica: Colorado, Florida, Iowa, Nevada, New Hampshire, Ohio, Virginia, Wisconsin e Michigan), in cui sono illustrate le riforme per i prossimi, eventuali, quattro anni: tagli alle tasse universitarie; un milione di nuovi posti di lavoro nel settore manifatturiero entro il 2016; ulteriore transizione verso la green economy e maggiore indipendenza dall’importazione di petrolio dall’estero. La sua strategia per i futuri quattro anni può essere riassunta in: difesa del welfare esistente (che gode dell’appoggio degli elettori di Florida, Ohio e Virginia), aumento delle tasse per i più ricchi, politica espansiva, temporanei tagli al payroll tax (l’equivalente dei nostri contributi) per agevolare le assunzioni, investimenti nelle infrastrutture, anche tramite la creazione di una apposita banca nazionale. In un’intervista al Des Moines Register, il presidente ha delineato le sue due priorità: raggiungere un accordo con i repubblicani sul debito entro sei mesi e emanare una nuova legge sull’immigrazione entro il 2013, il cosiddetto Dream Act, che consentirebbe ai figli di genitori immigrati clandestinamente di acquisire uno status legale se sono ammessi al college o entrano nell’Esercito.

 

Quanto costa la green economy
Grande escluso della campagna elettorale è stato invece il tema ecologico. Era dal 1988 che l’effetto serra non veniva citato in un dibattito presidenziale; e anzi, entrambi i candidati si sono mostrati in varie occasioni a favore di carbone, petrolio e gas naturale, le fonti energetiche responsabili dell’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera. Ma l’argomento si è, per così dire, imposto con violenza a pochi giorni dal voto: l’uragano Sandy si è abbattuto sulla costa orientale il 28 ottobre, costringendo Obama ad interrompere la campagna elettorale e rientrare a Washington per gestire lo stato di emergenza, dichiarato in ben otto stati (New York, New Jersey, District of Columbia, Maryland, Pennsylvania, Connecticut, Rhode Island e Delaware). Ironia della sorte, alcuni di questi sono proprio tra quelli “too close to call”, in bilico nei sondaggi.
sandy50 milioni di persone in tutto coinvolte, 60mila i soldati mobilitati, 8 milioni di americani rimasti senza luce per due giorni, 50 vittime, 50 miliardi di dollari di danni, contrattazioni finanziarie sospese per due giorni (non succedeva, per motivi meteorologici, da 27 anni), è stato dichiarato addirittura lo stato di calamità per New York, Long Island e New Jersey. “Sono rimasto sorpreso che non se ne sia parlato nei dibattiti, anche perché su questo tema non ci siamo mossi con la velocità dovuta”, ha detto Obama in conferenza stampa, scaricando un po’ proditoriamente la colpa sul suo avversario. Come ha fatto notare il New York Times, “la lista delle ragioni [di questo silenzio] è lunga”; ma ciò che rende l’ecocompatibile un argomento “tossico” è innanzitutto la necessaria trasformazione del sistema di produzione e consumo dell’energia, che almeno a medio termine causerebbe un aumento dei prezzi e disoccupazione. Tant’è che Romney, interpellato sull’uragano, ha spostato subito l’attenzione sulla Federal Emergency Management Agency, la Protezione Civile americana, invocando maggiori poteri per i governi locali nella gestione delle emergenze, in modo da sgravare i contribuenti del pesante bilancio dell’ente nazionale, fortemente in deficit dal 2011, dopo i violenti tornado nel Midwest e l’uragano Irene, che aveva sfiorato New York, evento che fu considerato “eccezionale”. Anche Sandy si presenta come un’inquietante anomalia meteorologica: tempesta tropicale fuori stagione, si è scontrata con le violente correnti artiche, puntando verso il Nord piuttosto che verso le acque più calde del Golfo del Messico. Secondo gli studi dell’Intergovernmental Panel of Climate Change (task force degli scienziati Onu sul cambiamento climatico), sarebbe tutta colpa della concentrazione atmosferica di gas serra, responsabile del riscaldamento delle acque dell’Atlantico settentrionale.

 

Il filoisraeliano Romney, il pacifista Obama
Piuttosto, è stato nel dibattito incentrato sulla politica estera che sono emerse le personalità dei due candidati. Romney è fortemente filo israeliano e ha contestato la politica diplomatica di Obama, secondo lui troppo debole, sia nei confronti di Teheran, sia nella gestione della crisi siriana: poiché la primavera araba non ha portato alla democratizzazione del Medio Oriente, la tattica degli Usa non può limitarsi ad uccidere terroristi, sia pure del calibro di Osama Bin Laden. Sarebbe piuttosto necessario bloccare il flusso di armi che, attraverso il territorio siriano, raggiungono Hezbollah e Hamas. Romney ha deplorato i tagli disposti dall’attuale amministrazione alla difesa (si parla di tre trilioni di dollari) e che “si sia arrivati ad avere meno navi che nel 1916”, ma esclude un intervento diretto delle truppe americane e si ripropone piuttosto di sostenere economicamente i ribelli siriani. Diverso è il trattamento riservato all’Iran: se Mahmoud Ahmadinejad dovesse attaccare Israele, il candidato repubblicano è pronto a schierare le forze in campo, laddove Obama considera l’azione militare diretta “l’ultima spiaggia”.
Romney ha avuto parole molto dure anche per la Russia, definita “seria minaccia geopolitica”, e ha lamentato l’abbandono del progetto di difesa missilistica su suolo europeo, al centro delle tensioni tra Usa e Russia nel 2007. Il premio Nobel per la pace, invece, difende l’approccio multilaterale tenuto in questi anni, e punta ad investire su intelligence e nuove tecnologie, piuttosto che carri armati. Non ha fatto mancare il suo sostegno a Israele, ma non le ha risparmiato critiche sulla questione degli insediamenti, e in sostanza porta avanti una politica di disimpegno: collaborazione con l’Onu sulle crisi locali, completamento del ritiro dall’Afghanistan.
Sostanzialmente, per Romney la minaccia principale, alla luce dei recenti sviluppi nucleari, sono Iran e Corea del Nord; per Obama, il terrorismo resta la preoccupazione più seria. È la Cina, piuttosto, l’argomento più scottante. Da anni, le due nazioni si stanno esprimendo in un braccio di ferro geopolitico, oltre che economico. Solo ad agosto, le tensioni si sono rinnovate per Scarborough Shoal, atollo delle Filippine (alleato sostenuto con forza dagli Stati Uniti), rivendicato dalla Repubblica Popolare Cinese, proprio mentre il neo presidente egiziano Mohamed Morsi si recava in Cina, prima tappa ufficiale al di fuori dal mondo arabo, per rilanciare gli investimenti nel Paese. Più che la Russia, il vero “nemico geopolitico” dell’America è la Cina.
Romney è deciso a denunciare la Cina alla comunità internazionale, come currency manipulator (manipolatore di valuta), poiché il governo cinese tiene artificialmente basso il valore della propria valuta per agevolare le sue esportazioni. Secondo uno studio condotto dal Centro cinese per le ricerche economiche, una rivalutazione dello yuan del 20% rispetto al dollaro comporterebbe un calo del 3% dell’occupazione, cioè, oltre 20 milioni di posti di lavoro in meno. In base alle convenzioni del commercio internazionale, basato sul fair play, immediate sarebbero le sanzioni sui prodotti cinesi. Obama è invece più cauto, in vista di una necessaria negoziazione del debito pubblico, di cui i cinesi sono i maggiori creditori esteri.

washington-casa-bianca

 

Yes, we can, probabilmente
Gli Stati Uniti sono ancora ben lontani dalla ripresa economica, anche se continuano a proliferarsi i segnali positivi: il recupero del mercato immobiliare, da anni in caduta libera; la crescita costante (anche se non ancora ai livelli che gli economisti sperano) della produzione industriale; la lenta espansione del mercato di lavoro; l’aumento del Pil di tre punti nell’ultimo anno. Sembrerebbe che si incomincino a vedere i risultati della politica economica di Obama, che con un grosso indebitamento pubblico ha cercato di sostenere i mercati. Gli investitori vi guardano con grande speranza, quale antidoto al crollo dell’economia europea, ma agli americani potrebbero non bastare tiepidi segnali: più della maggioranza dell’elettorato crede che il suo presidente avrebbe potuto (e dovuto) fare di più, e lo stesso Obama ha cercato di giocare a suo favore la disillusione. L’ottimistico “Yes, we can”, con cui stravinse nel 2008, si è trasformato nel “Forward”, l’andare avanti con le riforme. Possiamo, ma abbiamo bisogno di più tempo. In più di un’intervista Obama ha definito la sua politica economica “incomplete”; un eccesso di sincerità che potrebbe ritorcerglisi contro. Tra chi non vede in Romney il simbolo della finanza che ha mandato a rotoli l’economia del paese, si è fatta strada l’immagine dell’imprenditore-presidente che grazie alla sua esperienza riuscirà a traghettare gli Stati Uniti fuori dalla crisi. Eppure, i mercati non guardano con favore l’elezione del candidato repubblicano: un po’ perché un brusco cambiamento nelle riforme potrebbe scatenare una nuova recessione, e un po’ perché non è chiaro cosa farà una volta eletto. Non a caso, The Economist ha ironicamente definito il suo Programma “Cinquanta sfumature di grigio, senza il sesso”. Inoltre, l’annuncio di Romney di non confermare a scadenza di mandato Ben Bernanke, attuale presidente della Federal Reserve Bank, in caso di vittoria elettorale, non ha tranquillizzato gli operatori. I sondaggi danno i due candidati testa a testa, ma da lunedì scorso la raccolta dei dati dell’East Coast, a causa dell’uragano, si è interrotta. Il risultato di queste elezioni, così decisive per l’economia statunitense e globale, è ancora tutto da vedere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *