La Cassazione è tornata nuovamente ad occuparsi della questione della determinazione del diritto e dell’eventuale entità dell’assegno divorzile in tutti quei casi in cui il matrimonio è durato poco tempo.

A molti infatti appariva ingiusto far derivare da un’unione di breve durata   obblighi rilevanti a carico di un ex coniuge a favore dell’altro.
La questione è stata ripresa nuovamente dalla Cassazione dopo alterne pronunce con la sentenza pubblicata il 10/01/2017 n° 275.
La singolarità della pronuncia sta nel fatto che il soggetto che rivendicava il diritto all’assegno divorzile non era in questo caso la donna, bensì il marito sostenendo di non avere adeguati mezzi di sostentamento.

Una norma confusionaria

I contrasti giurisprudenziali prendono le mosse da una norma oggettivamente poco chiara.
Infatti il comma 6° dell’art. 5 della legge n° 898/70 e successive modifiche statuisce che: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi e, valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Scarsa chiarezza della norma

La questione del diritto o meno all’assegno di divorzio, del suo fondamento giuridico e delle condizioni poste alla sua base, ha suscitato alla promulgazione della legge, e tuttora, vasti dibattiti in campo dottrinale e giurisprudenziale apparendo evidente, anche al profano, che parlare di cessazione degli effetti civili del matrimonio o di scioglimento dello stesso, non può che comportare razionalmente la contestuale cessazione di ogni obbligo giuridico vicendevole derivante dal rapporto di coniuge semplicemente perché questo non esiste più.
Il legislatore viceversa ha optato per una “sopravvivenza” di alcuni obblighi, pur dopo la risoluzione del rapporto.
Per cercare di essere più equilibrati possibile, tuttavia nella norma sopra riportata si è finiti nell’incorrere in una certa indecisione ed approssimazione che appunto rispecchia le incertezze dello stesso legislatore.

La durata del matrimonio

Sembrerebbe dalla lettura della disposizione che la durata del matrimonio costituisca uno dei parametri da prendere in considerazione per determinare o meno il diritto all’assegno divorzile e la sua entità.
Tuttavia la giurisprudenza della Cassazione, reiterata in quest’ultima decisione, ha precisato che la durata del matrimonio non costituisce di per sé un motivo per determinare o meno il diritto all’assegno divorzile.
Ciò nel senso che il presupposto per il riconoscimento all’assegno di divorzio (ed è questa l’attuale interpretazione della norma), è soltanto che il richiedente non abbia adeguati redditi propri e non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive.
Viceversa il criterio relativo alla durata del matrimonio attiene soltanto al momento successivo, cioè una volta stabilito in astratto il diritto, si passerà al computo dell’entità economica dell’assegno divorzile.

Inadeguatezza dei redditi

Dunque prima di tutto bisogna determinare se sussista o meno “l’inadeguatezza dei redditi” correlata al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Successivamente se la risposta è positiva e cioè se sussiste il diritto all’assegno, la durata del matrimonio inciderà esclusivamente per ciò che riguarda la determinazione economica dello stesso.
Conclusivamente la Suprema Corte rileva che aveva sbagliato la Corte d’Appello la quale aveva escluso il diritto del ricorrente all’assegno divorzile fondando esclusivamente la propria argomentazione sulla durata del matrimonio, (poco più di due anni dalla celebrazione alla separazione con l’uscita dalla casa coniugale della moglie), rimettendo il processo al giudice a quo al fine di riesaminare la questione alla luce dell’indirizzo della Cassazione.    

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