Nel dibattito pubblico gli articoli di una legge sono utilizzati spesso per scolpire concetti che ne trascendono il significato “tecnico”. La citazione della norma di legge assomma due elementi di forte valenza evocativa: la certezza del numero e l’autorità della fonte.

Come già per altri “articoli” (si pensi all’art. 3 della Costituzione o all’art. 416-bis del codice penale), la citazione dell’art. 18 (della legge 300/1970) pone all’interlocutore un asserto che potrà essere contestato, discusso, argomentato, ma che in prima battuta si impone con l‘evidenza del “dato”. Contro tale “evidenza” si muove oggi il tentativo riformatore, e lo fa cominciando a diffondere nelle sedi istituzionali la “nomenclatura” tecnica della legge (legge 20 maggio 1970, n. 300), laddove per decenni si è utilizzato il nome “volgare” di “statuto dei lavoratori”. Non è un caso. “Statuto dei lavoratori” diceva il protagonista di quella legge, il suo indiscusso beneficiario, il lavoratore, colui il quale, dopo secoli caratterizzati dalla prevalenza della scala sociale e del censo, inverava nella propria occupazione il titolo di legittimazione sociale del nuovo stato (art. 1 della Costituzione: l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro).

Lo statuto coronava l’emancipazione della “classe” dei lavoratori; tuttavia, l’epica sviluppata intorno allo statuto dalla cultura dominante ha prodotto un oscuramento di alcune dinamiche significative. Le dinamiche di una contro storia.
La classe lavoratrice era da tempo consapevole di sé, dei propri diritti, e nel tessuto del codice civile erano già contenuti i fondamentali della tutela. Lo statuto alzava sì l’asticella delle tutele, ma consacrava soprattutto un corpus tecnico. La legge fu certamente una conquista, ma soprattutto una conquista politica e della politica. Tra i “padri” dello statuto, oltre naturalmente al prof. Gino Giugni, vi erano i maggiorenti della DC, del PCI, del PRI. Agivano di conserva con sindacati che non erano più espressione solo di “corporazioni”, ma soggetti “politici” a tutto tondo. Lo statuto assicurava la penetrazione della politica sul luogo di lavoro, idealmente contrapponendosi alle reprimende del vecchio regime (il fascismo imponeva nelle fabbriche il motto “qui non si parla di politica, qui si lavora”). La legge 300 fu esplicitamente (anche) una legge “di sostegno” della presenza sindacale.

L’art. 18, e l’art. 28 che istituiva una procedura per la repressione della condotta antisindacale, erano le norme di chiusura del nuovo sistema. Con esse si interveniva su due obiettivi fondamentali della legge: la tutela del rapporto di lavoro e la promozione della libertà sindacale.
L’art. 18, per dirla in modo brutale, obbligava (obbliga ancora) il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, in caso di licenziamento illegittimo. In realtà la norma dice molto di più, ma nella “reintegra” si è concentrato il significato “politico” dell’intera legge, e forse dell’intero diritto del lavoro italiano.

La forza e la fortuna dell’art. 18 si devono a ragioni di ordine “tecnico” e di ordine “politico”. Le prime sono meno note, tuttavia cospicue e vale la pena richiamarne una per tutte: la funzione di “sbarramento” che la reintegrazione frappone alla possibile violazione o elusione dei diritti economici del lavoratore. Ad esempio, per verificare la prescrizione del diritto alla retribuzione, si verifica l’ assoggettabilità del datore di lavoro alla reintegra, in caso di superamento della soglia occupazionale (numero di lavoratori occupati) prevista dall’art. 18. Nelle pieghe della normativa, per virtù dell’interpretazione sistematica, l’applicabilità dell’art. 18 finisce per condizionare finanche il destino di vecchie norme in materia previdenziale, risalenti alla nascita del “parastato”. Insomma, l’art. 18, costituendo direttamente una sanzione ovvero la precondizione tecnica di essa, forniva (fornisce) un “parametro” legislativo o giurisprudenziale essenziale per l’attuazione di molte garanzie del lavoro.

Naturalmente, tale “capacità” non sarebbe stata mai possibile, se la norma in discorso non avesse potuto giovarsi della virtù adeguatrice dei tribunali. E quando si dice tribunali ci si riferisce per estensione di significato ad un mondo più vasto, popolato di soggetti e linee di azione interconnessi e coscienti di “portare avanti” un progetto comune. Giuristi di parte sindacale (mitici gli avvocati della CGIL), sindacalisti e politici, la maggioranza dell’accademia, e, last but not least, l’ampia schiera dei pretori del lavoro (spesso “militanti”), tutti insieme appassionatamente per realizzare l’ “affermazione” della classe lavoratrice. Con quali e quanti eccessi non è dato capire, inquinato com’è oggi il dibattito da opposte ed ambigue retoriche. Certamente, i casi in cui al datore di lavoro veniva di fatto interdetta o imposta una data modalità dell’iniziativa economica non erano pochi. Vi potettero essere malintesi e fraintendimenti, in parte dovuti anche alla mancata focalizzazione di profili “esegetici” successivamente approfonditi e risolti. Esemplare la quaestio sul sindacato del giudice in ordine alle scelte produttive ed organizzative. Qualcuno giunse a teorizzare la figura dell’imprenditore “coatto” (al quale ordinare di tenere aperta la fabbrica!). Se oggi gli epigoni della cultura “interventista” possono snobbare le tardive puntualizzazioni del legislatore sul divieto di sindacare l’attività d’impresa, come ammonisce finalmente il cd “collegato lavoro” (l’ultimo approdo dell’ultimo governo Berlusconi in materia di lavoro), non bisogna dimenticare che certe “bacchettate” del legislatore di centro destra costituiscono l’onda lunga di una reazione ad “eccessi di zelo” non infrequenti, e clamorosi. Eccessi risalenti ad un’epoca in cui molti soggetti del mondo del “lavoro” (comprensivo della classe dei “sacerdoti” del diritto) non negavano mai l’interpretazione sempre e comunque “evolutiva”, il “favor” per la “parte debole”, insomma l’orientamento di un diritto -pur sempre “soggettivo”- secondo una ben precisa vocazione partigiana. Volerlo negare sarebbe fare torto alla verità.

Vi era poi la “virtù politica” dell’art. 18, una sorta di gigantesco argomento ad baculum speso nelle trattative più delicate. Il sindacato (perché è questo il soggetto che ha potuto avvantaggiarsi più degli altri della virtù “politica” della norma), poteva (può) sempre contare sul rimedio estremo del processo, e, infine, della capitolazione del datore di lavoro innanzi all’ordine giudiziale. Ogni patologia del rapporto di lavoro, che riguardasse il singolo lavoratore o la “collettività” dei dipendenti (vedi i licenziamenti collettivi e la mobilità) implicava sempre la possibilità estrema del ricorso al giudice, e per i molteplici effetti di “moltiplicatore“ che l’art. 18 spiega sulle dinamiche processuali, l’ultimo atto è sempre quell’ordine di “reintegrare” il lavoratore. Si pensi ai licenziamenti collettivi. Soprattutto, e questo andrebbe sempre tenuto presente parlando dell’ “articolo 18”, la semplice esistenza della tutela prevista da tale norma, la sola “minaccia” di farla valere innanzi ad un giudice, ha evitato chissà quanti licenziamenti non solo illegittimi, ma discriminatori e ritorsivi. Non è possibile fare la prova di resistenza, ma senza l’art. 18 i licenziamenti ingiusti sarebbero stati molti di più.

Il sindacato ha finito così per sacralizzare l’unico, e forse anche l’ultimo, vero strumento di lotta e di pressione nel conflitto, vero o supposto, con la controparte “datoriale”. Uno strumento dagli effetti inesorabili. Dall’angolo visuale del datore di lavoro, tale strumento è stato al contrario demonizzato, quasi che l’inesorabilità dell’effetto ripristinatorio potesse oscurare ogni pecca nella gestione del rapporto. Con il tempo, peraltro, i datori di lavoro, anzi le associazioni che li rappresentano -Confindustria in primis– hanno rovesciato a proprio “favore” la forza spaventevole dell’art. 18, traendone specularmente motivo di coesione e di forza nella “risposta”. Questo ha contribuito ad alimentare il “mito” del giudice ideologizzato, preferibilmente “di sinistra”, turbatore del “libero” mercato. Ovviamente non è così, anche se non si può disconoscere la weltanschaung di molti “operatori” del diritto.
Ma non potrebbe mai comprendersi la sacralizzazione dell’art. 18, e nemmeno il rischio del fallimento riformatore, senza almeno accennare a quale impasto di strumentalizzazione politica, di interessi materiali e di cinica conservazione di potere consociativo abbia nutrito la costruzione della “tutela del lavoratore”, di cui l’art. 18 costituisce il paradigma più significativo, ma anche il lato oscuro ed inconfessabile. Occorrerebbe fare la conta delle carriere, delle parcelle, del consenso di partito e dei favori della parrocchia, per capire che non tutti i conti “tornano” nel “18”. Poi occorrerebbe ampliare l’orizzonte e vedere i nessi con le diramazioni della concezione intellettualistica del diritto e della legalità, politicamente correttissima, ma anche la rete di principi, alti, granitici, intangibili e la loro caduta nelle incoerenze, nei tradimenti, nelle prassi e nelle singolari vicissitudini del “mercato”. Sarebbe istruttivo spigolare nelle storie personali dei sindacalisti “passati” al più lucroso stipendio del parlamentare, di tanti brillanti professori universitari che in gioventù commentavano lo statuto “dei lavoratori” ed oggi difendono nei tribunali di mezza Italia spregiudicati appaltatori di lavoro.
Ma saremmo ancora all’inconveniente “pratico”, facile a rigettarsi nelle argomentazioni dei dottori sottili.

Ciò che non potrebbe essere mai negata è una semplice constatazione, una presa d’atto che la nuova retorica della crescita ha iniziato a diffondere pro domo sua, cioè la (evidente) contrarietà degli effetti sanzionatori dell’art. 18 al naturale “destino” del rapporto di lavoro (non del lavoratore) nell’impresa.
L’art. 18 interviene infatti su un fenomeno che non si presta ad essere sempre e comunque “amministrato” dal diritto. L’impresa è anche rischio, è premio per il datore di lavoro capace ma è anche fallimento dell’incapace. Il “mercato” provvede da sé a premiare o a punire il datore di lavoro che agisce bene o male. La logica dell’impresa è il profitto, non è la promozione del diritto del lavoro né del diritto tout court. Nella logica del mercato, che è quella insostituibile dell’impresa, il licenziamento è innanzitutto un atto di gestione del rapporto le cui conseguenze vanno per intero a favore o a carico dell’imprenditore. Insomma, se il datore di lavoro licenzia “male”, sarà il mercato a punirlo. Con l’art. 18 la “sanzione” del mercato è stata soppiantata dalla sanzione del giudice.

La retorica, specie quella della riva sinistra, dice che questo è un segno di civiltà, ma è vero se si guarda ad una civiltà “ideale” o “sperata”, dal momento che l’ordine di “riprendersi” sempre e comunque il lavoratore è in effetti un atto altamente “pedagogico”. Il più delle volte inutilmente pedagogico, perché il datore di lavoro gretto e incapace non imparerà nessuna lezione e non avrà alcuna intenzione di “fare tesoro” dell’ordine giudiziale, magari infierirà ancora di più sul lavoratore un attimo dopo averlo reintegrato.

Non è un caso che dopo i primi anni di applicazione dell’art. 18, i ricorrenti in giudizio, o meglio i loro accorti “consiglieri”, incominciarono a scegliere la c.d. “indennità sostitutiva” della reintegra. Oggi una bella fetta delle controversie di lavoro salta a piè pari la domanda di reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo, invocando subito la “indennità sostitutiva” prevista dallo stesso art. 18.

Il che dimostra come sindacati e lavoratori conoscano e pratichino già da un pezzo la via “risarcitoria”, ben prima che la professoressa Fornero ne facesse oggetto delle “lezioni” che tiene nelle conferenze stampa. E’ anche un segnale che il buon senso comune riconosce da sé, senza tanti infingimenti, una evidente distorsione prodotta dall’art. 18, quella di volere imporre “il diritto” anche su scelte prettamente “economiche”. Magari ingiuste ma economiche.

Il disegno di legge governativo vorrebbe eliminare l’esito obbligato della reintegra, limitando le conseguenze del licenziamento illegittimo per motivi “economici” al risarcimento del danno. Senza dubbio si tratterebbe di un minus rispetto alla reintegra. Il risarcimento è sempre il conseguimento di un bene-interesse succedaneo, qualcosa che “ripara” ma non “restituisce”. Ma se si tiene presente il complesso delle esternalità negative della reintegra, si tratta di un compromesso che sacrifica alcune affermazioni di principio eppure potrebbe giovare alla fisiologia del fenomeno considerato (attività economica). A ben vedere, si tratta di qualcosa che gli stessi sindacati già sapevano, e ammettevano, molto tempo fa. Già nel 1985 Luciano Lama, autorevole segretario della Cgil, votò insieme ai rappresentanti degli altri sindacati una proposta di riforma dell’articolo 18, dopo che per tre anni la commissione lavoro del Cnel ebbe studiata la materia. In tale occasione si diede atto delle “distorsioni che [l’art. 18] ha avuto nella pratica”, ma anche della “discriminazione tra i lavoratori collegata alla dimensione dell’impresa”, dal momento che l’art. 18 prevede la reintegra solo per i lavoratori di imprese con più di 15 dipendenti.

Perché nel dibattito pubblico questa denuncia non ha avuto alcuna risonanza? Forse perché l’art. 18 era divenuto nel frattempo anche un mito. L’incessante declino sindacale, conseguente alla diminuzione del lavoro in fabbrica “sindacalizzato”, ha cercato un rifugio nel consolidamento delle proprie fondamenta, dei propri “privilegi”. Finito il momento dell’ espansione, si è piegato in se stesso, con la conservazione dell’esistente, tutele comprese. Si è aggrappato anche all’art. 18.

Si è detto fin qui del licenziamento “economico”. Vi è poi l’ampia gamma dei licenziamenti discriminatori e disciplinari. La tripartizione proposta dai riformatori (economici, disciplinari e discriminatori) coglie nel segno, evidenziando differenze effettive e costanti tra dette causali. E anche per i licenziamenti disciplinari e ritorsivi potrebbe farsi qualche cenno ad una controstoria.

I licenziamenti disciplinari, innanzitutto. Le impugnazioni di licenziamenti disciplinari riguardano soprattutto violazioni della procedura, sovente grossolane. Così, si licenzia in tronco il dipendente che l’ha fatta grossa, senza prima sentirlo a difesa, come prevedrebbe lo statuto dei lavoratori. Troppi film americani (sei licenziato!). Oppure si aspetta qualche settimana di troppo per spedire la famigerata lettera di licenziamento (tardività).

In molti casi, il licenziamento è sacrosanto, ma inefficace. Anche qui, l’effetto giuridico dell’art. 18, per le aziende di dimensioni medio grandi, è la reintegra. Alcune volte questo è un assurdo. Perciò la riforma proposta dal ministro Fornero, almeno per quello che al momento è possibile capire, non sarebbe priva di elementi di ragionevolezza. Il giudice avrebbe una certa discrezionalità nel reintegrare o nel risarcire il danno.
Anche perché, specie nelle piccole e medie imprese, con il licenziamento capita come nelle storie d’amore finite (male), che niente è più come prima. La reintegra in servizio è il dito nella piaga.
A seconda delle mutevoli situazioni, il rientro del lavoratore può essere l’inferno per il lavoratore, come per il datore di lavoro. Dipende dai casi, dalle situazioni, dai caratteri delle persone. Questa situazione è tanto più evidente laddove si rompe il “rapporto fiduciario”, caso classico quello del cassiere licenziato perché scoperto a rubare.

Un vero maestro del diritto del lavoro, il prof. Giuseppe Pera, socialista, spirito libero e anticonformista, ripeteva senza requie l’assurdità della reintegra del dipendente cornificante, licenziato dal datore di lavoro cornificato. Come si può ricostruire un rapporto che richiede fiducia? Qui il tema incrocia quello del rispetto dei diritti della persona, e svela la saggezza della proposta Monti-Fornero. Il giudice potrebbe tornare ad effettuare il prudente apprezzamento dei fatti.

Poi c’è l’ampia gamma dei licenziamenti discriminatori o ritorsivi. Per questi resterebbe la tutela “reale” (la reintegrazione). Oggi come oggi, i licenziamenti genuinamente ritorsivi o discriminatori non sono moltissimi. La pratica giudiziaria mostra l’evidente utilizzo della ritorsività quale argomento “di rinforzo”, per arricchire una domanda debole in ordine alla contestazione della “giusta causa”.

L’abrogazione della reintegra a seguito di licenziamento illegittimo per motivi economici, potrebbe generare tuttavia dei corti circuiti nella esperienza applicativa. La “riduzione” della tutela per una categoria di licenziamenti potrebbe determinare l’allargamento dell’altra, e questo sia da parte del datore di lavoro, muovendolo a giustificare come economico un licenziamento discriminatorio o ritorsivo, sia da parte del lavoratore (o degli “operatori”), estendendo l’ambito del secondo per non potere configurare il primo. C’è poi un aspetto sconosciuto al pubblico dei non addetti ai lavori, che riguarda la obiettiva difficoltà di provare in giudizio lo spirito ritorsivo o discriminatorio del licenziamento, trattandosi spesso di promuovere un ragionamento “indiziario”, sempre difficile e controvertibile. Qui il rischio è quello di mantenere una apparenza di garanzie, potendosi truccare variamente le carte. Con la prospettiva di una nuova “controstoria”.

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