Durante questa difficile settimana pre-natalizia è stata definitivamente approvata la manovra del Governo che, secondo quanto dichiarato dal premier Monti, “consentirà all’Italia di andare a testa alta in Europa”.

Nonostante il tentativo di iniettare fiducia ed ottimismo, nell’obiettivo di raffreddare le acque sempre mosse dei mercati finanziari, il colpo è stato accusato dagli italiani, come dimostrato dal calo dei consumi natalizi rispetto agli anni precedenti. Contestualmente sono stati pubblicati i dati ufficiali dell’ISTAT, che mostrano un PIL in calo dello 0,2% nel terzo trimestre del 2011, evento che non si registrava dal 2009. Secondo i canoni internazionali si può parlare di “recessione” quando il tasso di crescita è negativo per un periodo di almeno sei mesi: visto che la previsione dell’istituto di statistica prevede un calo dello 0,7% nel 2012, possiamo già iniziare a familiarizzare con il termine tanto temuto.

A fronte di tale scenario certamente poco confortante, il compito del Governo, dopo il superamento della prova sul decreto “salva-Italia”, consiste ora nel mettere in pratica quelle riforme che possano riportare il paese in carreggiata sul piano della crescita. Le aspettative che gran parte degli italiani ripongono verso questo esecutivo, infatti, sono giustificate dalla sua natura “tecnica”, per cui profondi conoscitori dell’economia quali sono Monti, Fornero e Passera dovrebbero indicare misure adatte alla situazione senza pregiudizi ideologici. Nel paese reale, tuttavia, le reazioni a determinate proposte possono essere ben diverse da quelle di un’aula universitaria, specie quando si affrontano tematiche estremamente radicate nella cultura italiana.

Ad inizio settimana il Ministro Fornero ha rilasciato un’intervista al Corriere della sera in cui, rispondendo ad una domanda sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ha dichiarato: “non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte”. Come sempre accade quando si parla di interventi sul mercato del lavoro, la discussione è immediatamente cresciuta di tono spostandosi sul piano politico ed ideologico piuttosto che su quello economico. Il leader della CGIL Susanna Camusso, su questo argomento perfettamente in linea con le altre sigle sindacali, ha espresso con forza il proprio dissenso nei confronti di una modifica della norma (“bisogna che il Governo scenda dalle cattedre e si metta a discutere con i lavoratori e le parti sociali”), mentre il segretario del PD Bersani giudica come “roba da matti toccarlo ora”. Il susseguirsi di dichiarazioni ha costretto addirittura Monti ad intervenire, lasciando intendere che la riforma dell’articolo 18 non è tra le priorità imminenti e che sarà necessario aprire una discussione. Al di là delle singole posizioni, risulta evidente la tensione generata da una semplice intervista su un tema così sentito, specie in un momento di pesante crisi economica.

Per uscire dalla morsa dell’ideologia in tema di regolamentazione del mercato del lavoro, che affonda le proprie radici nel secolo scorso, occorre valutare le argomentazioni sostenute parti in causa. L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori del 1970, in buona sostanza, impedisce il licenziamento senza giusta causa alle imprese con più di 15 addetti. La norma ha come obiettivo quello di evitare che i datori di lavoro possano “scaricare” completamente il rischio d’impresa sui lavoratori: in un momento di bassi guadagni, ad esempio, una ditta potrebbe essere incentivata a liberarsi di alcuni dipendenti per mantenere costante il profitto, senza essere necessariamente in perdita.

Secondo le teorie neo-liberiste, la norma provoca gravi distorsioni nel mercato del lavoro, in quanto alle imprese dovrebbe essere garantita la massima libertà di gestione delle risorse impiegate nella produzione, non ultima la forza-lavoro. Solo in questo modo è possibile raggiungere l’efficienza produttiva, condizionata dal ciclo economico. In una fase recessiva, ad esempio, dovrebbe verificarsi una diminuzione della produzione determinata dal calo della domanda: in quest’ottica converrebbe licenziare alcuni dipendenti, per poi assumerne altri quando l’economia torna in fase espansiva. In mercato di questo genere, caratterizzato da un’elevata flessibilità, il lavoratore dovrebbe essere preparato a cambiare mestiere diverse volte, con la conseguente necessità di formarsi professionalmente.

La critica verso tale impostazione si fonda sull’assenza di alcuni elementi nel mercato, specialmente in quello italiano, necessari affinché sia possibile garantire ai lavoratori un certo grado di continuità di reddito. Innanzitutto la riqualificazione professionale è possibile solamente se esiste un contesto caratterizzato da elevata specializzazione del lavoro, mentre gran parte della produzione italiana necessita di manodopera poco specializzata: in altre parole alle imprese non conviene assumere un disoccupato cinquantenne per un impiego generico, quando è possibile assumere personale più giovane che accetta salari inferiori. L’abolizione dell’articolo 18 comporterebbe inoltre un’ulteriore precarizzazione del lavoro, in quanto non esisterebbero più i contratti a tempo indeterminato. L’incertezza sul reddito produce anch’essa effetti perversi, influenzando le scelte dei lavoratori che, sentendosi insicuri sul futuro, tenderanno a consumare di meno. Visto il sistema delle garanzie bancarie, infine, vi è il rischio di una pesante restrizione del credito, in quanto aumenterebbe l’esposizione al rischio di inadempienza.

Il tema delle regole nel mercato del lavoro dovrà senza dubbio rimanere nell’agenda del Governo, dato che la struttura dei contratti incide in modo determinante sulla crescita economica. Rispetto alla riforma dell’articolo 18, tuttavia, le priorità sembrano essere altre, come riconosciuto sia dal premier Monti che dallo stesso Ministro Fornero: con un tasso di disoccupazione giovanile sopra il 30% ed una buona parte dei restanti in condizioni di precariato, il problema dovrebbe riguardare l’entrata nel mercato del lavoro, non l’uscita. A tal proposito si potrebbe metter mano ai contratti di primo impiego, quali l’apprendistato, che consentano ai giovani di acquisire professionalità e che costringano le imprese a puntare sulla formazione. Allo stato attuale, infatti, il ricambio continuo di personale non solo ha appiattito le aspettative di guadagno, ma sta sottovalutando l’apporto di capitale umano nella produzione, necessario per aumentare la produttività e per competere con gli altri paesi. Un’altra misura dovrebbe riguardare l’imposizione fiscale sul lavoro, che disincentiva le imprese e riduce il salario reale: in Italia il lavoro dipendente è tassato intorno al 43%, livello simile a quello dei paesi scandinavi, senza però averne i servizi.

Le proposte in campo sono molte ed ora spetta al Governo l’onere di trovare la quadratura tra posizioni ed interessi quanto mai contrapposti. La recessione che ci attende per il prossimo anno, sotto questo profilo, potrebbe rappresentare un’occasione unica per un riassetto complessivo in materia di mercato del lavoro, atteso (e disatteso) ormai da troppi anni.

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