A dangerous method
regia di David Cronenberg, Fra/GB/Can/Ger/Svi 2011, dvd 01 Distribution, dur. 99’, euro 14,99
Dopo essersi addentrato nei meandri della mente con l’intento di raffigurare le pulsioni più intime, i meccanismi che le animano e le scatenano, David Cronenberg rende omaggio al padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, a quello che sembrò essere il suo delfino, Carl Gustav Jung, e a Sabine Spielrein la loro paziente divenuta in seguito una delle maggiori psicoanaliste. È proprio il rapporto fra i tre protagonisti a fare da filo conduttore al film presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Per la sceneggiatura Cronenberg si affida a Christopher Hampton, che ha basato per il grande schermo un suo lavoro teatrale del 2002, a sua volta tratto dal libro di John Kerr Un metodo molto pericoloso del 1993. Ne emerge più una testimonianza di un mondo scientifico rinnovato dalla rivoluzione freudiana, con un ritratto a tutto tondo delle tre personalità, anziché le dinamiche che ne sottendono le relazioni intercorse, tutt’altro che semplici. Cronenberg sembra preferire la narrazione, una sorta di storicizzazione, di quanto accaduto rispetto alla messa in scena delle pulsioni. Siamo a Zurigo nel 1904. Il 29enne Carl Gustav Jung (interpretato magistralmente da  Michael Fassbender), sposato, in attesa di una figlia e affascinato dalle teorie di Freud, lavora come psichiatra nell’ospedale Burgholzli in cui viene portata una giovane paziente, Sabina Spielrein (una non sempre convincente Keira Knightley). Alla diciottenne russa, che parla correttamente il tedesco e sembra essere pericolosamente aggressiva, è stata diagnosticata una grave forma di schizofrenia.
Jung decide di applicare il trattamento sperimentale di Freud noto come psicoanalisi o “terapia delle parole” e ben presto scopre che la giovane ha vissuto un’infanzia segnata dalle umiliazioni inflitte dal padre che ne hanno condizionato la sessualità. Grazie alla corrispondenza sul caso Spielrein, Jung crea un rapporto di stima e di amicizia con Freud (un misurato Viggo Mortensen). Violando l’etica professionale, Jung inizia una relazione con Sabina, decidendo poi di troncarla, poco tempo dopo. Una decisione che porterà Sabina a diventare paziente di Freud. La contestata relazione sarà la causa della rottura del rapporto di amicizia tra Freud e Jung. Il film si ferma qui e lascia ai titoli di coda il ricordo che Freud fu costretto a lasciare Vienna dai nazisti e morì di cancro a Londra nel 1939, che Sabina divenne una delle più illustri analiste e nel 1941 fu fucilata insieme alle due figlie dai nazisti, e che Jung soppravvisse alla moglie Emma e alla nuova amante Toni e morì nel 1961.

PennThis must be the place
regia di Paolo Sorrentino, Ita/Fra/Ir 2011, dvd Medusa Home Entertainment, dur. 120’, euro 17,99

I nodi prima o poi vengono al pettine, anche quelli che sembrano rimossi da tempo. Così Cheyenne, un celebre cantante rock ritirato ormai a vita privata nella verde Irlanda dove la moglie fa il pompiere, si ritrova a fare i conti con una pesante eredità familiare. Proprio lui che da anni non aveva più rapporti col padre, alla morte di questi si farà carico di ciò che aveva sconvolto e tormentato l’intera esistenza del genitore. Già perché l’uomo, un ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio, giunto dopo la guerra negli Stati Uniti, aveva scoperto che anche uno dei suoi aguzzini nazisti si era rifugiato in America. Ritrovare quel soldato tedesco era diventato il suo unico obiettivo. Il figlio ribelle, adesso, si mette in marcia seguendo le orme del padre, l’obiettivo è lo stesso. La morte ha sovvertito gli ordini e rimesso tutto in discussione. Perfino l’immagine di Cheyenne, legata a doppio filo ai successi del passato con la capigliatura nera cotonata, le unghie smaltate e il rossetto sulle labbra, inizierà lentamente a incrinarsi. Il film procede per salti, la narrazione non è mai avvolgente se non a tratti addirittura slegata, ma trova forza nell’interpretazione di Sean Penn, sempre credibile grazie a una maniacale attenzione anche ai minimi dettagli. Ed è fondamentale che sia così perché, oltre alla riuscita del film presentato lo scorso anno al Festival di Cannes, This must be the place è la storia di una trasformazione, di un cambiamento, di un percorso intrapreso quasi inaspettatamente da un uomo di cinquant’anni che raggiunge così la maturità. This Must Be the Place (questo dovrebbe essere il posto) è il titolo di una canzone dei Talking Heads, David Byrne il leader della band, compare nel film vestito di bianco e canta per un pubblico spensierato fra cui c’è anche Cheyenne, l’uomo in nero. Il suo cammino – lui che è pigro e ha l’andatura dinoccolata – è dolente, duro più che lungo, interiore oltre che esteriore. Alla fine quando giungerà alla meta Cheyenne dovrà fare i conti con un imprevisto e soltanto allora scoprirà il senso di molte, tante cose in precedenza ignorate o a torto dimenticate.

Le_havreMiracolo a Le Havre
regia di Aki Kaurismaki, Fin/Fra/Ger 2011, dvd 01 Distribution, dur. 93’, euro 14,99

Tutto ciò che si compie senza rispondere alla logica e va al di là di ogni conoscenza è un miracolo. La definizione vale anche per gli scienziati. Volendo estendere il concetto e applicarlo a livello sociale si potrebbe dare del miracoloso a un fenomeno che si verifica ben oltre tutte le aspettative. Aki Kaurismaki è un cineasta nordico con i piedi ben piantati a terra, la testa alta e lo sguardo rivolto all’orizzonte. È un uomo pratico e disincantato, dotato di un profondo senso dell’umorismo e di una spiccata capacità nel cogliere le differenze, le sottigliezze. Per lui i miracoli sono gli avvenimenti eccezionali che capitano quando meno te li aspetti e che probabilmente si verificano proprio perché c’è qualcuno che ostinatamente si da un gran daffare per farli accadere. Qualcuno che sta al di qua, che non delega ma si mette in gioco, che partecipa con tutte le forze e i mezzi e anche quando questi scarseggiano sa fare appello alla propria sensibilità per condividere e sostenere fino in fondo quello che per la maggior parte delle persone – egoiste, arrendevoli e insensibili – è semplicemente impensabile o impraticabile. Dalla natìa Finlandia, Kaurismaki si sposta sulla costa settentrionale della Francia, precisamente a Le Havre, il principale porto commerciale sulla Manica dove negli ultimi anni tendono a raccogliersi gli immigrati clandestini diretti in Inghilterra, per ambientare questo film presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes. Marcel Marx, un ex scrittore, si è ritirato lì, fa il lustrascarpe e vive tra la casa che divide con la moglie Arletty e la cagnolina Laika, il bar del quartiere e la stazione ferroviaria dove spesso trova un angolo per lavorare. Nell’arco di breve tempo Marcel si trova di fronte a due grosse novità: la scoperta che Arletty è gravemente malata e l’incontro con Idrissa, un ragazzino immigrato dall’Africa, approdato in Francia in un container, ricercato dalla polizia. Con l’aiuto dei vicini di casa – la fornaia, il fruttivendolo, la barista – e la partecipazione di un detective, l’uomo si prodiga per aiutare Idrissa ad attraversare la Manica e raggiungere la madre in Inghilterra. Il film ha la leggerezza delle fiabe che Kaurismaki sa ben realizzare. E se è vero che il sonno della ragione genera mostri, la determinazione dell’ottimismo può fare allora anche miracoli.

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