L’analogia più banale tra calcio e politica è che i professionisti non si vergognano di percepire uno stipendio sproporzionato per scaldare la panchina (o la poltrona). Certamente hanno un rapporto conflittuale con gli agenti del fisco, sono attratti dalle veline e soprattutto non hanno alcun interesse nello sventolare una o l’altra bandiera, purché si scenda in campo (e poi a riscuotere) e se rubano o si dopano non vengono licenziati.

Anche la politica ha i suoi sponsor e spesso i risultati sono già stati decisi (e pagati) prima ancora di sapere chi rappresenterà il Paese. Ma la vera affinità tra le due caste di privilegiati è quella di insultarsi sul luogo di lavoro e davanti alle telecamere. Eppure mentre l’audience del governo è in rovinosa picchiata, la partecipazione della plebe allo spettacolo sportivo è pressoché assoluta e incondizionata. Anziani e bambini che a malapena conoscono i nomi dei giocatori si trasformano in ultrà nazionali, i sindaci dispongono mega schermi nelle piazze per assistere agli eventi e poi urla, gioia, rabbia e bombe al plastico per salutare l’esito della partita.

A un certo punto la competizione assume un valore identitario-culturale e tutti si riscoprono patrioti, adottando slogan letterari come Dante batte Shakespeare per Inghilterra – Italia, oppure le colorite prime pagine di Libero e Il Giornale che con “VaffanMerkel” e “Ciao ciao culona” vendono due copie in più. Qui però il popolo può al massimo commentare e spernacchiare, certo non può decidere delle sorti degli uomini in campo. I tecnici e gli attaccanti di Montecitorio invece operano indisturbati per mantenere inviolato il proprio conto in banca, mai sfiorati dal pensiero che qualcuno torni a votare.

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