PARIGI. E’ morto Jacques Rivette, uno dei registi francesi della Nouvelle Vague. Nato a Rouen nel 1928, aveva 87 anni. E’ stato il regista dell’Amour Fou (1968) e di Celine et Julie vont en bateau (1974), di due film su Giovanna D’Arco (entrambi del ’94) del Le Pont du Nord (1981) con la sua musa Bulle Ogier. Nel 2009 l’ultimo film, Questione di punti di vista con Sergio Castellitto e Jane Birkin.

Lo chiamavano Saint Just o frère Jacques perché quando parlava di inquadrature, di riprese e di montaggio il suo giudizio era tranchant, secco e puntuale fin nei minimi particolari, al punto da lasciare tutti gli interlocutori a meditare. Jacques Rivette è stato il padre della messa in scena, delle riprese che si fanno cinema, uno dei maggiori esponenti di quel gruppo di giovani cinéphiles che, cresciuti al buio delle sale, hanno dapprima dato vita ai Cahiers du cinéma e poi, alla fine degli anni Cinquanta, sono passati in massa dietro la macchina da presa occupando le strade per girare le loro opere. E’ nata così la Nouvelle Vague di François Truffaut, Eric Rohmer, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol e Jacques Rivette.

Ognuno il proprio stile e le proprie sensibilità, ma oltre alla passione in comune hanno avuto il rigore. Tra loro Rivette è stato il più etico e il più sperimentale. Per lui il cinema non era soltanto un mezzo espressivo, un’arte, ma un modo di interpretare e di mostrare inglobando e nutrendosi di tutte le altre arti, dal teatro, alla musica, dalla narrativa alla pittura. Il cinema è sempre stato vita per Rivette, al punto da non far inserire mai al termine delle sue pellicole la parola Fine, il film è una tranche-de-vie che il metteur en scène (come si definiva) e non il regista, realizza con l’intento di coinvolgere attivamente anche gli spettatori. Così il raffinato artigiano Rivette, maniacale visionario di film, divoratore di libri, appassionato di musica contemporanea, animava le sue opere che hanno attraversato ogni genere (thriller, movie road, fantastico, cappa e spade, sentimentale, musical…),, dal mediometraggio A coup du Berger, con cui aprì la stagione della Nouvelle Vague a Paris nous appartient, al monumentale e fluviale Out 1. Noli me tangere fino a Secret défense e La duchessa di Langeais.
Era il 1956 e il più attivo del gruppo di giovani cinéphiles composto da François Truffaut, Eric Rohmer, Jean-Luc Godard e Claude Chabrol, indicò la via per passare dietro la macchina da presa e rivoluzionare la produzione cinematografica francese. Al cineasta e ai suoi cinquant’anni di attività ho dedicato “Jacques Rivette”, la monografia edita da Il Castoro. Il libro, corredato di fotografie, contiene un’intervista realizzata nell’estate del 2002 in cui il regista parla del suo rapporto con gli attori,della lavorazione sul set, della modernità del cinema e della dimensione che la settima arte ha rispetto ad altre espressioni come la letteratura, il teatro e la pittura. La seconda parte del volume è incentrata sul ruolo svolto da Rivette nell’ambito della Nouvelle Vague e sull’analisi della sua poetica, da Paris nous appartient fino a Histoire de Marie et Julien, il film interpretato da Emmanuelle Béart. Seguono poi trame e schede critiche di tutti i film girati dal regista francese che nel 1966 si vide censurare dall’allora ministro della Cultura André Malraux la pellicola Suzanne Simonin, la religieuse tratta dal racconto di Diderot; che nel 1970 realizzò uno dei film più sperimentali, Out 1: Noli me tangere, della durata di 12 ore e 40 minuti; che nel 1991 vinse il Gran premio della giuria al Festival di Cannes con La bella scontrosa e che, da ateo di formazione cattolica, ha riproposto un affresco della pulzella d’Orleans (Giovanna d’Arco, le battaglie e Giovanna d’arco, le prigioni) di grande modernità, dopo i capolavori di Dreyer, Bresson e Rossellini.

Ecco alcuni brani dell’intervista a Jacques Rivette.
Parigi naturalmente set
“Non sono parigino, ma Parigi è la città dove sono arrivato quando avevo 21 anni, che all’epoca era la maggiore età. Io non son o un viaggiatore e col tempo lo sono sempre meno. Dunque alla fine è la città che conosco meglio. Ma non completamente perché, come in tutte le metropoli, anche a Parigi si ha la tendenza a vivere in due, tre quartieri e a ignorare completamente il resto della città. Insomma non si è trattato tanto di una decisione quanto del fatto che il più delle volte girare a Parigi è più semplice, più pratico anche dal punto di vista delle condizioni di lavoro: a Parigi tutto è più disponibile a cominciare agli attori. Non che da altre parti si presentino dei problemi insormontabili ma a Parigi è automaticamente più semplice risolvere problemi di messa in scena e anche quelli finanziari.
È una città che mi sorprende ancora oggi, che è sempre in grado di produrre delle passioni, magari non sempre gradevoli: per esempio nel quartiere della Bastille, in cui abito da quando sono qui, c’è stato un gran lavoro di demolizione. Per me l’Opéra costruita nel 1989 è qualcosa di mostruoso che sfigura la piazza. Oggi non si potrebbe più girare la scena in cui Camille (Jeanne Balibar) scappa dalla casa di Pierre (Jacques Bonaffé) uscendo dal lucernario e attraversando i tetti. Quell’edificio che si trovava in una parte nascosta della zona in cui abita Christine Laurent, non esiste più: è stato raso al suolo all’inizio del gennaio 2002. Del resto, è la stessa cosa in tutto il mondo. Tutto cambia continuamente nelle metropoli europee”.

A proposito di Rouen
“La mia città natale, Rouen, è stata distrutta dalla guerra. La casa di mio padre – a cui era annessa la farmacia – è stata bruciata nel 1940 e poi completamente rasa al suolo nei bombardamenti tedeschi nel 1941. Era una gran bella città ma negli anni Cinquanta è stata ricostruita in maniera odiosa.
Anche prima della guerra a Rouen non c’era nulla che indicasse il luogo preciso in cui fu bruciata Giovanna d’Arco. Hanno costruito una basilica dedicata a lei ed eretto una brutta statua. (…) Avevo voglia di fare un film con Sandrine Bonnaire e così ho pensato a Giovanna d’Arco. Sapevo fin dall’inizio che a Rouen c’era una gigantesca chiesa rimasta intatta e capace di ricordare le cattedrali dell’epoca, in cui avrei girato la scena dell’incoronazione di Carlo di Valois avvenuta in realtà a Reims. È una delle poche grandi chiese di tutta la Francia, più grande addirittura di quella di Reims, in cui non ci siano elementi di modernità”.

Un cattolico non credente

“Sono di formazione cattolica e nel contempo ho l’impressione di non aver mai creduto, tuttavia continuo a considerare il cattolicesimo una religione che ha qualcosa di stupefacente: l’idea di un rapporto così forte tra il corpo e l’anima che è al centro del dogma dell’incarnazione di Cristo. Non c’è niente da fare, anche se si è atei questa idea con la quale siamo stati educati non perde la sua genialità. Ci si accorge molto spesso che il cinema parla di questo: la metà dei testi critici che ho scritto ruotano intorno a questa idea. Sono assolutamente ateo, ma mi sento vicino all’idea di incarnazione, un’idea che non ho ritrovato in maniera così forte in nessun’altra tradizione religiosa. Solo nel Nuovo Testamento esiste questa follia del dio che si fa uomo. (…)”

(intervista rilasciata all’autore il 18 luglio 2002 tratta da Jacques Rivette edito da Il Castoro)

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