In questi giorni sono su tutti i giornali notizie molto attendibili (in particolare, fra l’altro, registrazioni telefoniche) di vicende oscure che coinvolgono magistrati collocati ai vertici dell’amministrazione della giustizia e in ruoli molto importanti del governo.

Questa è, in sintesi, la notizia dell’estate. Ogni estate ce n’è una che giustifichi il quotidiano sotto l’ombrellone.

“Cose da pazzi” è, in sintesi, il commento che più frequentemente si sente ripetere.

Sono d’accordo che siano cose da pazzi. Ciò che mi fa sorridere un po’ è però la falsa meraviglia che sempre circonda queste periodiche “scoperte”. Ma quando mai la nomina di un magistrato ad un incarico direttivo è stata guidata solo dalla sua professionalità? Ma quando mai qualunque imputato che abbia un minimo di relazioni sociali non ha provato a capire se e in che misura si poteva intervenire sul magistrato? Ma quando mai la politica ha rinunciato a condizionare, o tentare di condizionare, la magistratura? Ma quando mai qualcuno, almeno tra gli addetti ai lavori, è stato davvero convinto che tutte, dico tutte, le decisioni della Corte Costituzionale fossero, o siano state, improntate esclusivamente a rigorosi criteri di pura costituzionalità formale?

Si potrebbero fare molti esempi, antichi e più recenti. Dalle indagini sulla Banca d’Italia “colpevole” di voler silurare Michele Sindona, a quelle sullo scandalo Lockeed, sullo scandalo dei petroli, sulle stragi dell’eversione nera, sul golpe Borghese, sul piano Solo, sulla Rosa dei Venti, su Gladio, passando per la nomina, respinta, di Giovanni Falcone alla procura nazionale antimafia, per finire con la gestione di alcuni filoni della cosiddetta tangentopoli.

E più in generale, quando mai è stato nominato un primario, un professore universitario, un dirigente della pubblica amministrazione, un responsabile di un ufficio legislativo di un ministero, e ancora un direttore di giornale, un caporedattore Rai, un manager di una grande azienda, un capolista alle elezioni, un assessore o un presidente di commissione consiliare senza che fosse tenuta in considerazione la sua “provenienza” e le sue amicizie indipendentemente, almeno in parte – nella migliore delle ipotesi – dalle sue capacità professionali?

E’ un fenomeno italiano? Mica tanto: se parli con uno spagnolo, un francese, un colombiano, un argentino, un cileno, li troverai alle prese con le stesse considerazioni.

Forse sarà per questo che i popoli anglosassoni, con coerenza tipica dei protestanti, hanno istituzionalizzato la lobby. E non mi si venga a dire che l’attività delle lobby è meno pervasiva o subdola: ci fanno perfino i film polizieschi e di spionaggio! La verità è che hanno cambiato la forma, ma la sostanza è rimasta la stessa. Questo però è uno di quei casi in cui la forma diventa sostanza e offrire una forma accettabile significa, a grandi linee, far digerire anche la sostanza.

E’ come quando ai bambini dai l’antibiotico al sapore di pesca invece di quello di un tempo, che aveva un saporaccio. Sempre antibiotico è!

Ancora una volta, come sempre, si discute degli effetti invece che delle cause. Qual è la causa? Non è tanto il comportamento in sé, che come dicevo, è fisiologicamente rituale. Quanto la sua ricorrenza frequente. E perché ora ricorre più frequentemente? Eccola la causa di cui si dovrebbe discutere e sulla quale si dovrebbe riflettere. Forse perché abbiamo deciso di affidare il Paese a chi ritiene che questi espedienti non siano UNO dei modi di gestione del consenso, ma IL modo?

Una vecchia pubblicità della birra, che aveva l’amico Renzo Arbore come testimonial, così concludeva: meditate gente. Meditate…

E allora proviamo e meditare. Parto da uno dei miei articoli sul cosiddetto “metodo Genchi”, uno degli “evangelisti” citato da alcuni magistrati che in questi giorni commentano stupefatti e indignati le magnifiche sorti e progressive delle italiche logge. Che a sua volta è figlio, il metodo Genchi, del metodo De Magistris (altro evangelista). L’articolo è del febbraio 2009. Lo riporto nuovamente qui.

L’Italia è ancora una volta alle prese con un “caso intercettazioni”. Siamo il paese che intercetta di più eppure siamo anche quello che vorrebbe intercettare di meno. L’ultimo capitolo di questa soap opera che va avanti da anni ruota attorno ad un nome: Gioacchino Genchi, poliziotto non in servizio, al quale negli ultimi anni molti pubblici ministeri hanno affidato il compito di analizzare e “incrociare” i dati contenuti in migliaia di pagine di intercettazioni e tabulati (quegli elenchi cioè dove compaiono le telefonate partite e ricevute da un determinato numero ma non i contenuti delle conversazioni).

Ripercorriamo la trama delle ultime puntate cominciando dalla fine.

GENCHI L’ANALISTA

Il tecnico Gioacchino Genchi, “analista” di intercettazioni, è indagato per abuso d’ufficio e violazione della legge sulla privacy. Il procuratore della Repubblica di Roma Giovanni Ferrara ha infatti “trasferito” il fascicolo aperto nei giorni scorsi sul “caso Genchi” dal “modello 44” (il registro della Procura destinato alle indagini conoscitive), al modello 21 (quello riservato alle notizie di reato “associate” ai nomi dei presunti responsabili). L’accusa di abuso d’ufficio si riferisce all’attività di “pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio” che Genchi ha svolto in qualità di consulente di vari pubblici ministeri, tra i quali l’ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris. L’indagine avviata a Roma riguarda, al momento, proprio i 570 mila “contatti” (schede anagrafiche degli intestatari dei numeri e trascrizioni di conversazioni telefoniche) che Genchi ha “trattato” per conto del pm De Magistris nell’ambito delle indagini Why Not e Poseidone e nell’inchiesta sulla fuga di notizie. Genchi non eseguiva intercettazioni e non acquisiva direttamente notizie illecite, ma nel corso degli anni ha accumulato, e conservato, tutte le informazioni riguardanti milioni di intercettazioni che gli sono state di volta in volta affidate da ciascuno dei diversi pm che lo hanno avuto come consulente. E’ questo il punto che viene contestato dai pm di Roma. Nella relazione consegnata da Genchi a De Magistris relativa alle “analisi” dei dati sulla fuga di notizie per l’inchiesta Poseidone, ad esempio, il consulente ha “incrociato” alcuni dei dati provenienti dagli atti ricevuti da De Magistris con altre notizie riguardanti inchieste di diversi anni prima che gli erano state affidate da altri pm. Ed è proprio l’accumulo e la conservazione di questi dati “eterogenei e provenienti da attività investigative non connesse tra loro” che costituirebbe anzitutto un abuso del proprio ufficio di consulente e in secondo luogo una violazione delle norme che regolano il trattamento di “dati sensibili”. In questa prima parte dell’ “archivio Genchi” compaiono anche tabulati e “anagrafiche” di parlamentari e funzionari dei Servizi segreti. Rispetto a questi ultimi, la procura ha “aperto” un canale procedurale per la trasmissione degli atti al Copasir, il comitato parlamentare sui servizi, come previsto dalle norme in materia.

IL PENTOLONE

Un “raccoglitore”: ecco cos’è, di fatto, il cosiddetto archivio. Una sorta di “memoria storica” che ha accumulato nel corso degli anni i risultati delle intercettazioni e i tabulati che diversi pubblici ministeri avevano legittimamente acquisito nel corso di differenti indagini. Questo, in sintesi, è l’archivio Genchi. Il dipendente della Polizia di Stato (senza stipendio ma con copertura contributiva perché distaccato per motivi sindacali) dichiara però che “non esiste alcun archivio”. Allora chiamiamolo “pentolone” oppure – più correttamente – disco fisso esterno. In ogni caso, come si evince chiaramente dalla sua relazione intitolata “Consulenza relativa alle indagini sulla rivelazione di segreti d’ufficio collegati al procedimento penale 1217/05”, ossia l’inchiesta Poseidone, depositata all’allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris, il consulente Genchi ha svolto un’opera di “analista delle intercettazioni” che andava al di là dei singoli incarichi ricevuti.

È infatti successo che negli ultimi dieci anni circa diversi uffici inquirenti abbiano incaricato la società che Genchi ha costituito insieme con la sorella di analizzare e confrontare tutti i dati, i nomi, i numeri di telefono, le circostanze, contenute nelle centinaia o migliaia (a seconda delle inchieste) di intercettazioni e copie di tabulati telefonici raccolte nel corso delle diverse indagini di ciascun ufficio. Un lavoro difficile, che aveva l’obiettivo di far emergere analogie, contatti, amicizie, frequentazioni, collegamenti: quando i materiali investigativi sono tanti il pubblico ministero, da solo, non riesce a fare luce in tutti gli angoli. E allora si rivolgevano, i pm, al tecnico che più di ogni altro aveva messo a punto un software per “incrociare” tutti i dati e tirare fuori le “coincidenze” (come diceva Agatha Christie: una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono due coincidenze, ma tre coincidenze sono una prova).

I COLLEGAMENTI ESTERNI

Dunque, anzitutto va chiarito che Gioacchino Genchi non ha mai eseguito materialmente alcuna intercettazione. Il consulente si limitava a ricevere il materiale, il “prodotto finito”, per l’analisi. Era per questo che veniva pagato, secondo tariffe ufficiali, per il suo lavoro di consulente. Si trattava dunque di materiale, di volta in volta, legittimo. E in ogni caso se non fosse legittimo, la colpa sarebbe del pubblico ministero inquirente, non di Genchi. Il “nodo” della questione è che di questo materiale di volta in volta legittimamente ricevuto, il consulente ne conservava memoria. Migliaia di “record” che passavano dagli uffici del pm a quelli dello studio Genchi e che, naturalmente, per essere elaborati e confrontati, di volta in volta, finivano per essere trasferiti su altri supporti digitali.

Andando avanti nel tempo Genchi ha scoperto che il signor X le cui telefonate erano state registrate, ad esempio, nell’indagine della procura di Palermo, era comparso anche nelle telefonate – sempre per esempio – di un’altra inchiesta, diversa, della procura di Reggio Calabria di cui sempre lui si era occupato come consulente. Tra le due indagini non c’è nessun collegamento “processuale”, ma Genchi nella sua relazione al pm di Palermo sottolinea la “coincidenza”. Intendiamoci: sul piano processuale non significa nulla. Il pm di Palermo non avrebbe mai potuto adoperare questo dato nella sua indagine perché la legge lo dichiara “inutilizzabile”. Se ne poteva però servire per uno “spunto investigativo”, un aspetto da approfondire. Hai visto mai che usciva fuori qualcosa di interessante? Qui casca l’asino (si fa per dire): perché, è lecito chiedersi, Genchi conservava tutto? Non avrebbe dovuto restituire tutto man mano? Certo, il consulente restituiva gli originali, ma come si evince dalla relazione consegnata a De Magistris, conservava “memoria”.

In realtà non c’è alcuna legge che lo impedisca, ad eccezione delle norme sulla privacy che non consentono a chiunque di creare archivi con i cosiddetti “dati sensibili” senza autorizzazione e senza varie formalità. E allora, almeno in parte, la responsabilità di questa “bulimia archivistica” va spostata anche su quei pubblici ministeri, se ve ne sono, che pur avendo capito, dalle relazioni che Genchi consegnava, che l’analisi e il confronto non si limitavano ai dati che loro stessi avevano fornito, ma spaziavano su dati e notizie provenienti da altre e diverse indagini di differenti uffici, non gli hanno mai spiegato che forse era meglio lasciar perdere. Come ci dicevano a scuola: non uscite fuori tema. Il problema è che, invece, alcuni investigatori sono innamorati della “lotta contro i poteri occulti”, contro il “villagio globale del male”. Certo, i poteri occulti possono anche esistere, ma il codice di procedura penale ci insegna che è impossibile processarli in un’aula di giustizia. Lasciamoli ai sociologi. E ai romanzieri, come Agatha Christie.

IL RITMO DI LAVORO

Cinquanta telefonate al giorno: questo il “ritmo” di lavoro, in media, del consulente Gioacchino Genchi. Il dato proviene da una delle sue relazioni, quella commissionata dall’allora pm Luigi De Magistris nell’indagine sulla fuga di notizie relativa all’inchiesta Poseidone. Un “assaggio” di quell’archivio che il Copasir sta esaminando (limitatamente alle telefonate relative a esponenti dei servizi). In oltre 600 pagine, consegnate al pm De Magistris il 12 marzo 2007, Genchi elenca le registrazioni di 414 telefonate in 8 giorni. E tra gli intercettati figurano tre parlamentari (Giancarlo Pittelli, Giuseppe Galati e Jole Santelli), numerosi magistrati, carabinieri e anche i colloqui tra ufficiali e sottufficiali dell’Arma e il Comando generale. In quell’occasione Genchi era stato incaricato dal pm di esaminare le intercettazioni eseguite nella settimana dal 10 al 18 maggio 2005 per individuare gli autori della fuga di notizie relativa all’inchiesta Poseidone (una di quelle oggetto della guerra tra gli uffici giudiziari di Salerno e Catanzaro). Un lavoro che, già durante le audizioni del Csm nell’ambito della “guerra” tra i magistrati della Procura di Salerno e quelli di Catanzaro, era stato definito “fondato su molti elementi acquisiti in modo illegittimo”.

I PARLAMENTARI

Le 414 telefonate raccolte in 8 giorni sono una piccola fetta rispetto alle 578000 registrazioni che costituiscono l’archivio globale dei procedimenti Why Not e Poseidon, alle quali si aggiungono 1402 tabulati per un totale di un milione circa di contatti telefonici. Una fetta tuttavia emblematica soprattutto per le “premesse metodologiche” che lo stesso Genchi chiarisce nell’introduzione. La relazione infatti teorizza la supremazia delle intercettazioni su qualunque altro mezzo d’indagine. Nelle 600 pagine sono raccolte telefonate di Giancarlo Pittelli, avvocato penalista calabrese, all’epoca deputato e oggi senatore, del deputato Giuseppe Galati, allora sottosegretario alle Attività Produttive, e di Jole Santelli, anche lei deputato.

La Santelli compare in una sola telefonata, il 10 maggio 2005 alle 20.19, con Pittelli. Le 414 telefonate in 8 giorni comprendono quelle dell’allora procuratore di Catanzaro e (allora) capo di De Magistris, Mariano Lombardi, una dell’ex procuratore generale della Corte d’appello Domenico Pudia, decine di telefonate partite dalla segreteria dello stesso Pudia (da dove chiamava un carabiniere, Mario Russo, coinvolto nell’inchiesta sulla fuga di notizie), una telefonata tra lo stesso Pittelli e l’ex senatore di An Emilio Nicola Buccico, anche lui avvocato, sindaco di Matera ed ex componente del Csm (sempre il 10 maggio, alle 18.24), decine di telefonate dell’ex presidente della Regione Calabria Giuseppe Chiaravalloti, eletto nel maggio 2005 alla vicepresidenza dell’Autorità garante della Privacy, di sua figlia Caterina, anche lei magistrato a Catanzaro.

LA FORZA DEL MICROCHIPS

Nel lunghissimo elenco compaiono poi decine di telefonate tra imprenditori e funzionari locali coinvolti a vario titolo nelle inchieste di De Magistris e diverse chiamate del partite dal Comando generale dell’Arma dei carabinieri e dirette a ufficiali o sottufficiali finiti nella rete delle intercettazioni. “Il consulente – scrive Genchi nella perizia – non può non considerare una circostanza costante, che si rileva in quasi tutte le indagini dove si è costretti, gioco forza, a mettere in discussione la buona fede degli operatori di polizia giudiziaria che hanno eseguito le intercettazioni. Non è la prima volta, e anzi l’attività di questo consulente è precipuamente finalizzata a tale scopo, che l’analisi e la riconsiderazione complessiva del compendio probatorio acquisito nel corso delle indagini, assistito da opportune tecnologie informatiche, porti all’evidenziazione di elementi decisivi all’accertamento della verità, talvolta anche in favore dell’indagato, o dell’imputato”.

Ma per raggiungere l’obiettivo non basta l’uomo: per Genchi ci vuole il computer. “I processi logici e di analisi seguiti normalmente dal cervello umano – dice il perito – nella considerazione degli elementi cognitivi posti alla base del processo logico-deduttivo, non riescono mai a eguagliare le potenzialità elaborative e di connessione relazionale fornite da un calcolatore elettronico”. In un passaggio il consulente si richiama perfino ad Aristotele: “E’ essenziale assistere e seguire il corretto inserimento nel sistema informatico della totalità delle ‘premesse’ (costituite dalle fonti di prova e dai dati a contenuto oggettivo), per giungere a delle ‘deduzioni’ che, seguendo i procedimenti della logica di Peirce e di Aristotele, ci accompagnano nel processo valutativo”.

Gioacchino Genchi ha lavorato negli anni, come abbiamo detto, per moltissimi uffici inquirenti e per questo conserva “memoria” di migliaia di intercettazioni, esaminate per conto di diverse procure. E secondo il manuale del buon intercettatore, Genchi collega nelle sue relazioni anche le notizie che gli provengono da altri incarichi di consulenza. Nella relazione per De Magistris, ad esempio, racconta di un’inchiesta su un duplice omicidio avvenuto nel 2002 nel vibonese, nell’ambito della quale vennero controllate le chiamate partite dalla scheda telefonica di uno dei killer e anche in quel caso, annota Genchi, erano dirette all’avvocato Pittelli. A questo proposito il perito spiega anche che lui non sapeva, quando ha acquisito le intercettazioni di Pittelli, Galati, Santelli, che si trattava di parlamentari.

LA FILOSOFIA GENCHI

Il consulente tecnico offre anche degli spunti di riflessione al pm: “Non è solo della lente di ingrandimento di Sherlock Holmes di cui bisogna disporre, ma bisogna sapere alternare allo zoom di un particolare dell’indagine il grandangolo sugli aspetti complessivi che spesso si sottovalutano. Questo non vuol dire – conclude sul punto – abbandonare o comprimere l’istinto dell’investigatore che, unito a discrete dosi di fantasia, contemperata da altrettanta estroversione, deve sempre lasciarsi guidare dal proprio intuito quando va a scandagliare tutte le ipotesi che gli si pongono innanzi, anche le più remote”.

I COMPITI DEL CONSULENTE

Un primo giudizio sulla legittimità dell’archivio Genchi arriverà probabilmente dal Consiglio superiore della magistratura. Dopo quasi dieci mesi, infatti, dalla richiesta di azione disciplinare contro l’ex piemme Luigi De Magistris, promossa dall’allora procuratore generale della Cassazione Mario Delli Priscoli, su richiesta dell’ex Guardasigilli Clemente Mastella, il Consiglio superiore della magistratura affronterà l’intera questione il 20 febbraio prossimo. Il magistrato sarà “processato” dalla Sezione disciplinare: è accusato questa volta di aver concesso un mandato troppo ampio al suo consulente Gioacchino Genchi. Avrebbe conferito a Genchi, secondo l’incolpazione della procuratore generale, l’incarico di valutare e accertare tabulati telefonici acquisiti nel corso dell’inchiesta Why not, una mansione più da magistrato che da consulente. A De Magistris (difeso dal piemme palermitano Antonio Ingroia che per le sue inchieste giudiziarie si è più volte avvalso della collaborazione tecnica di Gioacchino Genchi) la procura generale della Suprema corte contesta, soprattutto, le deleghe affidate al consulente tecnico il 21 marzo del 2007. Un incarico vastissimo. Si legge fra i documenti che fanno parte del fascicolo De Magistris che a Genchi fu affidato l’incarico: 

1) “di procedere, con procedimento analitico-relazionale, all’indicizzazione, alla digitalizzazione e all’informatizzazione della documentazione investigativa e processuale agli atti del procedimento, rendendone possibile la consultazione protetta con sistema Web al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria delegata e ai Ctu nominati, oltre che ulteriore inserimento ed estrazione dei dati; 

2) di procedere all’acquisizione ed elaborazione analitico-relazionale dei dati di traffico delle utenze e delle codificazioni degli apparati Imei, per i periodi che sono stati e saranno indicati dall’ufficio con separati provvedimenti, sulla base delle risultanze in atti, secondo le esigenze del procedimento, anche sulla base delle anticipazioni del consulente tecnico;

3) di procedere il consulente all’esame delle apparecchiature informatiche, dei cellulari, delle Sim card e degli altri eventuali reperti elettronici che dovessero essere sottoposti a sequestro, oltre a quelli già acquisiti agli atti del procedimento, ivi compresa la documentazione cartacea (agende,appunti, rubriche telefoniche, estratti conti, ecc.) contenente riferimenti individualizzanti a utenze telefoniche, conti correnti, soggetti, società e altro;

4) di eseguire ogni altra attività connessa all’incarico, incrociando i dati acquisiti, anche nel corso delle intercettazioni telefoniche e ambientali, con le risultanze del traffico telefonico elaborato e con le ulteriori risultanze emerse nel corso di indagini e dalla attività elaborativa di cui ai punti precedenti;

5) di approntare i dispositivi hardware e i software necessari all’acquisizione, al trattamento e all’analisi dei dati come sopra indicati, secondo le specifiche che in dettaglio saranno fornite dall’ufficio sulla scorta delle risultanze in atti, anche per le correlate esigenze di consultazione da parte dell’Ufficio del pubblico ministero, dei consulenti e della polizia giudiziaria delegata alle indagini; 

6) di realizzare le elaborazioni grafiche dei dati acquisiti, eseguendo altresì la digitalizzazione su supporto Cd Rom per le esigenze di consultazione e allegazione agli atti del procedimento; 

7) di relazionare sullo svolgimento dell’incarico e su quant’altro utile ai fini delle indagini”.

Inoltre, “il consulente veniva autorizzato, come da richiesta, al prelievo dei reperti elettronici e della documentazione del fascicolo delle indagini prelimari utile all’espletamento dell’incarico; ad avvalersi pemanentemente dei collaboratori e delle attrezzature hardware e software di un Centro servizi informatici di fiducia per l’acquisizione, la registrazione, l’ellaborazione e la stampa dei dati oggetto della consulenza, nonché per l’approntamento dei programmi che saranno necessari per la specifica analisi investigativa; all’uso del mezzo proprio e, ove occorra, anche del mezzo aereo, dei servizi alberghieri e di ristorazione, del mezzo taxi ed al noleggio di eventuali autovetture; all’accesso e alla consultazione diretta, in ambito nazionale – anche opera di collaboratori specializzati dei sistemi informativi delle Aziende telefoniche Telecom Italia spa, Telecom Italia Mobile spa, Infostrada SpA., Omnitel SpA, Wind, Blu, H3G ecc, e delle banche dati del Centro Elaborazione Dati del Ministero dell’lnterno, dell’ Anagrafe Tributaria, delle Camere di Commercio, delle anagrafi comunali, all’archivio Slater, ecc.”. 

I DUBBI DEL PROCURATORE GENERALE

Un incarico che il procuratore generale della Cassazione ritiene quanto meno “eccessivo” e sul quale la “disciplinare” del Consiglio superiore della magistratura dovrà emettere la propria “sentenza”. Nel frattempo dovrebbe iniziare l’esame dei tabulati relativi alle autenze di 350 mila persone da parte dei parlamentari del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Non tutti i file sono ancora a disposizione, ma entro domani dovrebbero iniziare le verifiche per consentire ai senatori e deputati che ne fanno parte di intervenire con cognizione nel corso delle audizioni, soprattutto di quella di Genchi, che inizieranno venerdì. Una fase moto delicata perché dalle prime indiscrezioni si apprende che le utenze di alcuni giornalisti sarebbero state incrociate con quelle di parlamentari e di esponenti delle istituzioni anche se nessuno di loro è mai stato indagato.(Roberto Ormanni)

Fin qui, l’articolo di un anno e mezzo fa.

Oggi una nuova puntata.

Il nodo sta nella differenza tra sociologia, analisi di comportamenti disdicevoli sul piano civico, etico, politico, e responsabilità penali.

Non dimentichiamo che quando Giovanni Falcone archiviò i verbali di interrogatorio di don Masino Buscetta che si riferivano all’onorevole Giulio Andreotti, venne accusato di connivenza. E quando passò alla direzione generale degli Affari penali (all’epoca non esisteva il dipartimento Affari di Giustizia) molti magistrati ritennero che aveva deciso di farsi gli affari suoi invece che quelli di giustizia.

Invece quella decisione, quell’archiviazione, rappresentò la sola decisione possibile per un uomo coraggioso ed esperto. Un’archiviazione può essere revocata in presenza di eventuali nuovi e più pregnanti elementi di accusa. E rappresentare così un importante tassello storico. Diversamente, si mette in scena un circo come quello del quale siamo stati poi spettatori.

Il problema è che sempre più spesso il pubblico ministero viene creduto – e si crede – un moralizzatore, un missionario della moralità pubblica. Ciò lo sovrespone.

Più volte abbiamo tentato di perseguire per via giudiziaria comportamenti che avrebbero dovuto essere sanzionati dall’etica dei cittadini che hanno invece abdicato alle loro responsabilità.

La giustissima e giustificatissima Legge Anselmi, approvata sotto l’onda nera degli affari della P2 non mi sembra ci abbia messo al riparo. Non mi sembra abbia costituito un deterrente. Perché? Perché in nome di quella legge nessuno è stato punito.

Licio Gelli scrive poesie ed è ospite televisivo e intervistato come opinionista. I suoi iscritti sono direttori di giornale, ministri, sindaci, assessori, sottosegretari, parlamentari e presidenti del Consiglio.

Ecco perché quella legge non funziona come deterrente. Non rappresenta un rischio.

Tuttavia l’abbiamo tirata di nuovo fuori dal cassetto. Ci accingiamo a rimettere in pista il circo?

Magistrati come Apicella, il cui fratello era imputato per truffa e per qualche tempo è stato agli arresti domiciliari controllato dalla polizia giudiziaria alle dipendenze del procuratore Apicella medesimo, Nuzzi, Verasani eccetera hanno scritto una pregevole opera sociologica facendo un gran casino sul piano processuale. Solo una persona che ha dei problemi, o è in malafede, può scrivere un decreto di perquisizione di oltre 500 pagine, laddove il codice dice che nel decreto si espongono sinteticamente i fatti per cui si dà luogo a perquisizione. 

Abbiamo più volte tentato di piegare il nostro sistema giuridico, un sistema codicistico, ossia rigidamente basato sul diritto scritto, ai criteri tipici dell’altro sistema, quello cosiddetto di common law. Ossia un sistema dove di volta in volta il giudice liberamente tiene conto dei fatti così come complessivamente esposti e cerca la sanzione più adatta sulla base dei precedenti simili o analoghi.

Non voglio dire che sia sbagliato. Come sempre è il compromesso che non paga. Se riteniamo che il sistema codicistico non funzioni, e che per come si è evoluta – degenerata – la società sia necessario adottare altri criteri e trasportare l’analisi sociale nelle aule di giustizia, cambiamo sistema. O lottiamo, discutiamo, scriviamo, affinché ciò avvenga.

In assenza di questa lotta, adoperare male il sistema che c’è è sbagliato. 

Giovanni Falcone lo sapeva. Clementina Forleo no. Apicella no. Verasani no. Nuzzi no. Luigi De Magistris no. E bene ha fatto a cambiare mestiere. Ma non mi sembra che come parlamentare stia costruendo pietre miliari sulla strada dell’evoluzione della politica e della legislazione.

Attenzione, inoltre: non è un caso che nei paesi di common law il reato associativo non esiste. Ciò che conta è il reato fine, come si dice. Non il reato mezzo. In altre parole non conta che più persone si siano associate allo scopo di commettere reati se questi reati non vengono individuati e puniti. 

Nel nostro sistema invece non solo non serve provare che siano stati commessi i cosiddetti reati fine, ma il reato associativo è punito anche se risulta che i reati fine per un motivo o per l’altro non sono stati commessi.

Rispetto ad altre legislazioni, è un’anomalia. Pienamente giustificata dall’anomalia del nostro sistema civile e dai nostri costumi. Tuttavia lo strumento andrebbe adoperato consapevolmente. Consapevoli che si tratta di un’anomalia. Con ponderazione e sistematicità. Senza costruire pentoloni. Così da non compromettere la credibilità non tanto di singoli magistrati ma dell’intera magistratura.

Ancora una volta: ben venga il procedimento disciplinare, in casi come quelli dei magistrati che andavano a cena per chiacchierare di come condizionare i colleghi. Ma, a meno che non si trovi qualcosa di più pregnante, il processo penale è un’altra cosa.

Ma siete mai stati ad una riunione dei Rotary o dei Lions? Anche lì un gruppo più o meno ampio di persone, appartenenti trasversalmente a categorie sociali diverse, si incontra per chiacchierare e all’occorrenza per darsi una mano a vicenda. In legittimità. Finché qualcuno non riterrà che anche queste riunioni potrebbero essere finalizzate a condizionare la vita del paese. E, in fondo, avrebbe ragione. Sul piano sociologico. Ma su quello giudiziario?

Meditate, gente. Meditate. Chi beve birra campa cent’anni.

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