In questo momento l’Italia è in grado di competere sia con gli altri Stati Europei che con gli Usa; la qualità delle nostre pubblicazioni, delle nostre ricerche è riconosciuta a livello mondiale. Nei prossimi anni però, viste anche le scelte politiche delle altre nazioni, noi rischiamo di mettere in seria difficoltà i nostri ricercatori che non riusciranno a mantenere il livello di competitività necessario
 

Fondato nel 1925 come Ente Morale con il nome di Istituto nazionale Vittorio Emanuele III per lo Studio e la cura del Cancro, l’Istituto nazionale dei tumori di Milano è un centro policomprensivo per la ricerca, la prevenzione, la diagnosi e la cura del cancro. Riconosciuto istituto a carattere scientifico nel 1939, poi confermato nel 1981, nel 2006 si è trasformato in Fondazione e oggi rappresenta un punto di riferimento a livello europeo ma anche mondiale per la ricerca, la diagnosi e la cura dei tumori.
Parla la dottoressa Silvana Canevari, direttore della struttura complessa di terapie molecolari del Dipartimento di oncologia sperimentale medicina molecolare.
Si sta occupando di Markers del tumore alle ovaie; al momento è praticamente impossibile fare prevenzione perché non esiste la possibilità di individuare con un semplice esame del sangue un cancro alle ovaie.

 Quale è lo stato della ricerca in Italia sul fronte soprattutto finanziamenti facendo un excursus degli ultimi dieci anni?

Soprattutto negli ultimi 2 anni, in seguito alla crisi finanziaria, si risente una forte contrazione nei finanziamenti sia pubblici che privati e questo comporterà a lungo termine, se continua con la stessa tendenza, una crisi di molti laboratori di ricerca sia pubblici che privati.

 Volendo fare un paragone con paesi esteri europei e Usa come possiamo valutare lo stato della ricerca italiana?

La qualità della nostra ricerca, come documentato dal numero e dal livello delle pubblicazioni, è da considerarsi alto ed in grado di competere con gli altri stati europei e con gli Stati Uniti. Malgrado la crisi economica ed in funzione delle scelte politiche nazionali, altri paesi europei (vedi Germania e Francia) hanno deciso di investire in ricerca e questo potrà comportare nel corso dei prossimi anni ad una difficoltà per i ricercatori italiani di mantenere il livello di competitività necessario. Per quanto riguarda gli Stati Uniti dopo i primi entusiasmi dopo l’elezione di Obama, i finanziamenti statali hanno subito una contrazione, adesso c’è una grande ansia in attesa delle prossime elezioni (l‘intervista si è svolta prima del 5 novembre, ndr)

 Periodicamente, e negli ultimi tempi in modo più massiccio, si leggono articoli e interventi – soprattutto sul web – in cui si sostiene che la ricerca sui tumori sarebbe in realtà frenata, o comunque pilotata, dalle multinazionali farmaceutiche che avrebbero interesse a conservare una percentuale alta di mortalità per vendere i chemioterapici e in genere i farmaci attualmente in uso che darebbero alti margini di guadagno. Questa visione dietrologica ha elementi di contatto con la realtà?

Mi sembra una visione vecchia. Primo: molti, moltissimi laboratori di ricerca non sono pilotati dalle multinazionali e comunque la ricerca sui farmaci chemioterapici convenzionali (o di vecchia generazione) è ormai molto limitata. Secondo: le industrie farmaceutiche sono molto più scaltre e hanno capito che bisogna sviluppare farmaci nuovi quali quelli biologici. Il problema semmai può essere quello dei costi, ma il discorso è molto complicato. Forse quella che può essere più pilotata può essere ricerca chimica.
Oggi nel campo dell’oncologia si ci sono molte fondazioni (come la Michelangelo non profit), dedicate agli studi non sponsorizzati dalle industrie; ma anche nel caso in cui l’industria partecipi alla ricerca fornendo il farmaco, ci sono accordi per cui questo non sia di proprietà dell’industria ma venga testato dai ricercatori in maniera assolutamente indipendente. Insomma, ci sono accordi che garantiscono in pieno l’indipendenza della ricerca e tutelano i cittadini.
Il problema semmai è come finanziare quelle fondazioni
C’è un altro dato che va sottolineato; I comitati etici stanno diventando sempre più attenti ed impegnati a fare monitoraggio, controllando che vengano rispettate le regole stabilite all’inizio del progetto. Quelle regole che appunto svincolino le aziende farmaceutiche dal farmaco dando indipendenza ai ricercatori. I comitati, inoltre oggi sono anche impegnati a monitorare nel tempo, per verificare appunto che queste condizioni siano rispettate lungo l’arco di tutta la ricerca.

 Indipendentemente dal “complottismo” che appassiona il popolo del web, è un fatto che spesso i laboratori di ricerca che possono contare su flussi di denaro più costanti sono quelli in qualche modo collegati ad aziende farmaceutiche. Ed è naturale che chi paga sia libero, almeno in una certa misura, di scegliere gli obiettivi, o comunque di dare delle priorità. In che misura, secondo lei, queste priorità sono in linea con gli obiettivi della comunità scientifica nel suo complesso?

Anche in questo caso la mia risposta è probabilmente condizionata dalla mia esperienza personale di lavoro presso una istituzione pubblica. In generale non mi sembra che ci sia un condizionamento da parte dell’industria farmaceutica, che tra l’altro in questo momento sponsorizza pochissimo la ricerca preclinica e in parte quella clinica. In questo caso avendo bisogno di casi da strutture con grande esperienza e alto numero di casi, questa deve quasi sempre rivolgersi al pubblico o comunque ad IRCCS e quindi gli obbiettivi devono rispettare le regole dei comitati etici e dell’AIFA (agenzia responsabile dei farmaci presso l’ISS).

 Iniziative sul modello di Telethon che invitano i privati a sostenere la ricerca esistono un po’ in tutto il mondo. Si ha la sensazione però che in Italia l’incidenza della “carità collettiva” sulla ricerca sia maggiore che in altri Paesi. E’ solo una sensazione?

La mia esperienza è solo oncologica. In questo caso la maggior “charity” è l’AIRC e paragonando con altri stati Europei ci sono organizzazioni similari con un peso simile nell’ammontare dei finanziamenti. Come dicevo il problema principale rimane sempre quello dei finanziamenti statali che sono sicuramente in contrazione. Inoltre con la crisi stanno diminuendo anche i finanziamenti da parte della collettività alle “Charities” perchè sono in crisi le fondazioni bancarie (vedi Monte dei Paschi di Siena).

 Restando in Italia e alle politiche della Sanità a sostegno della ricerca, si può osservare nel nostro Paese il fiorire di una miriade di associazioni che chiedono sostegno, anche in questo caso rivolgendosi al buon cuore del cittadino attraverso periodiche campagne pubblicitarie, per condurre ricerche mirate su specifiche forme tumorali. Dalla leucemia ai neuroblastomi pediatrici. In che misura esiste (o in che misura sarebbe pensabile, se non esistesse) un coordinamento, un “ufficio di indirizzo”, per così dire, che eviti dispendiose e dispersive duplicazioni degli sforzi? E in che misura questo aspetto viene curato negli altri Paesi?

Purtroppo non esiste in Italia un coordinamento di queste varie associazioni, inoltre spesso c’è una certa confusione tra chi si occupa solo di finanziamento alla ricerca e chi chiede aiuto per aspetti assistenziali.

 Di che cosa ha bisogno la ricerca, fondi, pubblicità, attenzione opinione pubblica, altro…

Prima di tutto di maggior informazione e quindi di comprensione dell’importanza della ricerca ma anche dei suoi limiti temporali. Troppa pubblicità, necessaria per avere fondi, può essere addirittura dannosa perché ingenera speranze eccessive. E poi c’è bisogno di tanta fiducia, soprattutto da parte dello Stato; la ricerca non è solo una questione di soldi ma di investimento culturale. Purtroppo l’abitudine culturale che si è creata nelle stanze dei ministeri ha fatto sì che non si capiscano proprio le esigenze di chi lavora in questo campo. C’è bisogno di investimenti ma non solo economici, anche culturali perchè da questi ultimi derivano i primi.

 Una scoperta scientifica importante quale ad esempio quella che sta inseguendo Lei con i Markers Tumorali del cancro alle ovaie, quanto tempo impiega per “arrivare” ai pazienti?

Negli ultimi cent’anni ci sono voluti sempre almeno 10 anni per passare dal laboratorio alla clinica, questo anche nel caso di impegno economico investito importante. Comunque perché un prodotto della ricerca che sia diagnostico o farmaco è difficile che arrivi ad una capillarità di distribuzione in meno di 10 anni perché ci sono tempi tecnici da rispettare per il controllo di qualità, soprattutto per salvaguardia del paziente. Noi ci auguriamo ovviamente di poter accorciare questi tempi, ma ci sono delle fasi che vanno assolutamente rispettate.

Un aspetto molto spesso poco considerato è quello di cosa succede ad un farmaco che arriva alla distribuzione; questo, dopo aver attraversato tre fasi, ha bisogno di superare la quarta fase che è quella del monitoraggio e che ha bisogno di un tempo congruo per capire le reazioni di tanti pazienti per poter formulare una casistica più ampia possibile.

 

A primavera torneremo alle urne; Quali le riforme urgenti che Lei proporrebbe al nuovo ministro della Salute?

Bisogna investire sulla ricerca e sui giovani. Persone della mia età possono offrire esperienza ma se non ci sono giovani ai quali trasmetterla è un problema. Io stessa, per poter andare avanti nei miei studi, ho bisogno di domande, di giovani che stimolino le mie ricerche.

 

È facile per un giovane in Italia fare ricerca?

All’inizio, subito dopo la laurea, si possono ancora trovare borse di studio a basse cifre: 1000 euro al mese per un primo livello può ancora essere tollerato dai giovani. Chi trova grossi problemi sono i trentenni, per non parlare poi dei quarantenni che sono troppo vecchi per essere inseriti. Questo dei quarantenni è un grosso problema, ci vorrebbe investimento non solo sulla ricerca ma soprattutto sulle persone!

Allo stato attuale non c’è rinnovo negli staff. La nostra età media è di 55 anni ed è una media poco tollerabile ma è da considerarsi anche relativamente “bassa”, perché tre anni fa c’è stato un concorso e sono entrate otto persone nuove, che erano nostri precari ma avevano già più di 40 anni…

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