I mass media, come frequentemente accade, hanno estratto dalla sentenza n. 601 del 2013 (il testo integrale è disponibile nei documenti allegati a questo articolo) della Cassazione solo alcune parole, ignorando il contesto generale, per lasciar credere come sia divenuto possibile l’affidamento di minori o addirittura l’adozione in favore di coppie omosessuali, scatenando con ciò un putiferio di reazioni e commenti, senza tuttavia che alcuno si sia premurato di leggere la sentenza integralmente.

La singolare fattispecie esaminata dalla Corte d’Appello di Brescia e poi dalla Corte Suprema di Cassazione nasce da una infelice unione sentimentale, non suggellata dal matrimonio, tra un giovane musulmano ed una ragazza lombarda, tra l’altro con problemi di tossicodipendenza.
Dall’unione nasceva un bambino.
Per la riabilitazione dalla tossicodipendenza, la ragazza era seguita da una comunità di recupero ed all’interno di tale comunità conosceva un’altra giovane, che svolgeva l’attività di educatrice. Con quest’ultima iniziava un legame omosessuale.
Resasi conto la madre dell’infelicità dell’unione con il compagno, della propria vera indole e delle proprie preferenze omosessuali, decideva di abbandonare il ragazzo musulmano e di andare a vivere con la ex educatrice della comunità di recupero.
Le due donne creavano dunque un proprio nucleo familiare ed il bambino seguiva la mamma.
Questa situazione non era tuttavia sopportata dall’ex compagno il quale dava luogo a gravi violenze fino ad aggredire fisicamente la nuova convivente, terrorizzando tra l’altro in modo traumatico il bambino.
Tali episodi di violenza allontanavano da lui il figlio che vedeva nel padre un soggetto violento, prevaricatore e pericoloso il quale comunque attentava alla serenità della sua nuova famiglia.

L’ALLONTANAMENTO DEL PADRE

La Corte d’Appello successivamente al procedimento avanti al Tribunale dei Minorenni, valutata la pericolosità del padre, statuiva che il bambino dovesse essere affidato in modo esclusivo alla madre.
Incaricava inoltre i servizi sociali di disciplinare le modalità degli incontri padre-figlio, statuendo che tali incontri dovessero avvenire in ambiente protetto con cadenza almeno quindicinale.
Inoltre attribuiva agli stessi servizi sociali la facoltà di ampliare le modalità e la durata di tali incontri sino a giungere eventualmente ad incontri liberi.

IL RICORSO ALLA CORTE SUPREMA E LA PRONUNCIA SULLA QUESTIONE DELL’OMOSESSUALITA’

Tenuto conto che il bambino era il figlio di una delle due donne, il problema per la Cassazione veniva proposto sotto due profili sostanziali.
Da un lato veniva censurato dal padre che il Tribunale, e poi la Corte d’Appello avrebbero delegato ai servizi territoriali competenti un compito invece demandato allo stesso giudice e cioè quello di graduare le visite e di scegliere in quale momento rendere tali visite non più protette fino a renderle assolutamente libere e senza controlli.
In secondo luogo, ed è questo il punto più eclatante, il padre rilevava come il Tribunale e poi la Corte d’Appello non avessero per nulla approfondito se la famiglia in cui era inserito il minore, composta da due donne legate da una relazione omosessuale, fosse idonea sotto il profilo educativo a garantire l’equilibrato sviluppo del bambino in relazione ai diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio di cui all’art. 29 della Costituzione, equiparandosi i figli nati fuori dal matrimonio con i figli legittimi.
Inoltre eccepiva come non fosse stato approfondita e garantita, nell’affidare il bambino esclusivamente alla madre, la questione del diritto fondamentale del minore di essere educato secondo i principi morali e religiosi di entrambi i genitori, fatto questo che non poteva prescindere dal contesto religioso e culturale del padre, di religione mussulmana.

IL PUNTO DI DIRITTO SULL’OMOSESSUALITA’

La Cassazione per ciò che riguardava il primo motivo di impugnazione risolveva la questione molto semplicemente sostenendo che il ricorrente non aveva alcun interesse a censurare la possibilità suppletiva che gli era data, di ampliare il suo diritto di visita nonostante gli episodi di violenza posti in essere, con il mero controlli dei servizi sociali senza dover ricorrere (e comunque come era sua facoltà) al Tribunale.
Per la questione invece dell’omosessualità, la Corte Suprema, considerando che, nel caso specifico non si trattava di un bambino estraneo immesso in una famiglia, bensì del figlio legittimo di una delle due donne, riteneva che la semplice omosessualità di per sé non precludesse la convivenza né pregiudicasse i diritti del minore, peraltro si ripete figlio di una delle due donne.
Infatti rilevava la Corte che alla base delle doglianze del ricorrente, “non erano poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio come fosse dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino, il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale. In tal modo si dava per scontato ciò che invece era da dimostrare ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino…”.

ALCUNE CONSIDERAZIONI

Prescindendo dal caso esaminato che, al di là della normativa, appare corrispondente ad una Giustizia sostanziale laddove si era in presenza di una madre legittima di un bambino in tenera età e di un padre particolarmente violento, aggressivo e pericoloso, la questione più in generale dell’inserimento di un bambino in una famiglia omosessuale, allorché il minore non sia il figlio di alcuno dei due soggetti legati da un simile rapporto e quindi la possibilità di adozione da parte di una coppia omosessuale, a parere di molti urta contro i diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti del minore.
Del resto, si osserva che se un bambino potesse scegliere la famiglia in cui vivere, ben difficilmente opterebbe per una famiglia composta da membri dello stesso sesso.
La giusta, doverosa tutela e protezione che deve essere data alle unioni omosessuali, nulla ha a che vedere con la compressione del diritto di un minore rispetto alle scelte autonome di due adulti.
Ciò non tanto (ma questo è già grave) perché un bambino inserito all’interno di una famiglia omosessuale comunque verrebbe considerato diverso nell’ambito scolastico e delle amicizie, ma soprattutto perché si imporrebbe ad un soggetto incolpevole una scelta degli adulti che finirebbe con il divenire una compressione del diritto naturale del bambino a vivere in una famiglia standard maschio-femmina.
Nulla vieta, in analogia con la normativa in tema di affidamento e collocamento, che a diversa soluzione si possa giungere, in analogia con i principi di cui alla legge n.54/06, allorché sussista il consenso del minore, purché almeno ultradodicenne.
Cassazione, sezione prima civile, sentenza 601 dell’11 gennaio 2013

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