La questione nei suoi termini sostanziali è la seguente: due coniugi si separavano di fatto e poi legalmente; il marito si allontanava dalla casa coniugale per andare a vivere altrove.
Successivamente, nell’ambito del processo di separazione il Tribunale, come in genere avviene, assegnava la casa alla moglie.

L’immobile in realtà apparteneva ad entrambi i coniugi, e cioè sia alla donna beneficiaria del provvedimento di assegnazione, che al marito, allontanatosi dall’alloggio nel rispetto delle successive statuizioni del Presidente del Tribunale.
Tuttavia nell’ambito dei dissidi fra moglie e marito, si inseriva in modo insolito e prepotente la suocera la quale, vivendo all’interno dell’alloggio, sosteneva di aver diritto a rimanere in casa e che la sentenza di separazione, nella quale lei ovviamente non era parte, non fosse a lei opponibile.
Pertanto rifiutava di lasciare l’alloggio.

Tale convivenza forzata tra suocera e nuora altro non era che un’opera di disturbo della famiglia del marito nei confronti della moglie, basata sul presupposto giuridico della mancanza di concordia dei due comproprietari circa il dirito o meno dell’anziana di rimanere in casa.
In sostanza, poiché l’immobile era intestato ad entrambi i coniugi, e solo uno di loro pretendeva l’allontanamento dell’anziana donna, mentre l’altro (il marito) consentiva a che la madre rimanesse nell’alloggio, legittimamente quest’ultima si poteva ritenere in diritto di restare a convivere con la nuora, impedendole tra l’altro ogni forma di vita di relazione successiva alla separazione.

L’imputazione ex art. 614 c.p.

La moglie, ovviamente, a dir poco infastidita dalla situazione, denunciava penalmente la suocera per essersi intrattenuta, contro la propria volontà, nell’appartamento concesso in uso esclusivo alla stessa.
Poiché più volte la giovane donna comproprietaria del bene aveva invitato la suocera ad uscire e questa aveva ignorato semplicemente tali richieste, a parere dell’assegnataria dell’immobile sussisteva il reato di violazione di domicilio.
In tal senso l’art. 614 del Codice Penale espressamente statuisce che “chiunque si introduce nell’abitazione altrui … contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo … o che si trattiene nei detti luoghi contro l’espressa volontà di chi ha il diritto di escluderlo … è punito con la reclusione fino a tre anni”.
Il Tribunale di Chieti, esaminando la fattispecie, riteneva la suocera colpevole del reato e la condannava a sei mesi di reclusione, nonché al risarcimento dei danni derivanti dal reato in favore della parte civile, (la moglie comproprietaria dell’immobile).
La Corte d’Appello alla quale si rivolgeva l’anziana donna, rigettava l’appello, ma riduceva tuttavia la pena a mesi quattro di reclusione.

I motivi del ricorso in Cassazione

Avverso la sentenza proponeva ricorso alla Corte Suprema l’anziana, eccependo che lo ius prohibendi appartenesse ad entrambi i proprietari e cioè, sia al marito estromesso che alla moglie occupante la casa.
Poiché la giurisprudenza ritiene che affinché sussista l’illecito penale sia assolutamente necessario che tutti i proprietari del bene siano d’accordo nell’impedire l’accesso all’immobile, ipotesi che nel caso specifico non era rilevabile, illegittimamente era stata emessa la condanna, proprio perchè sussisteva l’espressa volontà del figlio di mantenere la madre nella casa in comproprietà.
Inoltre l’anziana donna eccepiva che sussistessero le circostanze esimenti di cui all’art. 54 del codice penale, in quanto la presenza dell’imputata all’interno dell’abitazione della nuora appariva strumentale per assicurare l’assistenza al figlio in quel momento ricoverato in ospedale, il quale aveva appunto richiesto l’aiuto della madre, non essendoci altra persona che potesse occuparsi della degenza.
Infine la ricorrente censurava l’omessa motivazione della sentenza sul mancato accoglimento delle richiesta di sospensione condizionale della pena.

La questione della ius admittendi

La Cassazione accoglieva il ricorso soltanto per ciò che riguardava la questione della sospensione condizionale della pena, mentre rigettava nel resto.
Il punto in diritto esaminato dalla Corte Suprema era quello dell’esatta definizione dell’oggetto giuridico del reato di cui all’art. 614 c.p. nonché del soggetto passivo del reato, nel caso di coabitazione familiare.
Se è pacifico, sosteneva la Corte, che il bene tutelato debba individuarsi in ultima analisi nella libertà individuale della persona nella sua proiezione spaziale, rappresentata dal domicilio di cui viene garantita l’inviolabilità, tuttavia vi è da esaminare la questione di chi abbia la titolarità del diritto di veto nei confronti di terzi all’ingresso ed alla permanenza nell’immobile.
La Corte Suprema rilevava che non sempre è facile individuare con precisione l’effettivo titolare dello ius excludendi o dello ius prohibendi nel caso di comunità di persone conviventi nel medesimo alloggio, soprattutto quando si tratti di coabitazione familiare in cui possono sorgere problemi, dovendo individuare il titolare del potere di esclusione.
La giurisprudenza di legittimità, rilevava la Corte, ha elaborato un percorso argomentativo che proprio partendo dalla consapevolezza che il bene giuridico tutelato è la casa intesa come espressione della libertà individuale, ha affermato il principio secondo cui tutti i conviventi (membri della famiglia ed ospiti), sono titolari di questo diritto di escludere altri, onde il consenso di uno non può prevalere sul dissenso degli altri, spettando il diritto all’inviolabilità del domicilio a tutti i componenti della famiglia, ivi compreso il convivente more uxorio.

Il diritto spetta solo al convivente reale

Su questa base la Cassazione rilevava che la presenza della suocera nell’abitazione con il figlio, pur contro la volontà della moglie di questi, sarebbe stata del tutto legittima, in virtù del consenso di quest’ultimo, nonostante fra i coniugi fosse intervenuta una separazione consensuale di fatto.
Tuttavia allorché si verifica l’abbandono dell’alloggio, anche prima dell’adozione da parte del giudice civile del provvedimento con cui la casa familiare viene assegnata alla moglie, viene meno il rapporto di convivenza e con esso la titolarità del ius prohibendi ed il correlativo ius admittendi in capo al figlio dell’imputata, non più in grado dunque, proprio perché l’abitazione in questione era stata abbandonata, di proibire o consentire l’accesso e la permanenza a terzi.
Quindi la Corte ha affermato il principio di diritto per cui allorché all’esito di una separazione personale anche di fatto, uno dei coniugi abbia abbandonato l’abitazione familiare, trasferendosi a vivere altrove, l’unico titolare del reato di esclusione di terzi va individuato nel coniuge rimasto nell’abitazione familiare, con conseguente configurabilità del diritto di violazione di domicilio, nei confronti di chi vi si introduce o vi si trattiene contro la volontà espressa o tacita di quest’ultima.
Quanto all’ultima eccezione, quella relativa alla degenza presso l’ospedale di Chieti del figlio dell’anziana donna, non sussisteva alcun pericolo attuale di un danno grave alla persona tale da costringere la madre a trattenersi in quella che era stata l’abitazione familiare, non potendosi configurare dunque alcuna esimente.

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