E’ sempre molto difficile spiegare ad un cliente, il quale si reca dall’avvocato con intenzioni bellicose dopo aver scoperto l’adulterio della moglie che, in realtà, dallo scontro giudiziario egli uscirà in modo malconcio e disastroso.

E’ ancora più difficile spiegargli che, secondo l’attuale orientamento giurisprudenziale, ove i figli vengano collocati presso l’altro coniuge, cioè restino a vivere con la mamma, (il 90% dei casi), egli verrà estromesso dalla casa coniugale, per la quale dovrà però continuare a pagare il mutuo bancario, avrà diritto a vedere i figli in giorni ed orari predeterminati e, dulcis in fundo sarà costretto a pagare un assegno per la partecipazione al mantenimento della prole che oscilla, per una retribuzione normale, tra il 30 ed il 50% dello stipendio mensile.
L’incapacità di comprendere come mai un giudice possa assumere provvedimenti così ingiusti, deriva dall’erronea convinzione che il soggetto colpevole del fallimento dell’unione debba subire le conseguenze del proprio comportamento, mentre nella realtà avviene esattamente il contrario.

La spiegazione di tutto questo sta nella preferenza che di norma viene attribuita alla donna nel collocamento dei figli, ritenendosi (giustamente), così come avvalorato da innumerevoli studi psicologici, che la prole in età preadolescenziale, (situazione che sussiste nella maggioranza delle separazioni), necessiti in modo prioritario della figura materna.

Nonostante la retorica, in tema di rinnovata valutazione dei diritti del marito, allorché venne promulgata la legge n. 54/06 ad apparente maggiore tutela del padre rispetto a ciò che avveniva in precedenza (affidamento e potestà alla donna), il nuovo istituto dell’affidamento condiviso è rimasto, di fatto, soltanto un guscio vuoto, riducendosi in sostanza a dichiarare che la custodia morale dei figli spetta ad entrambi.
Così come di scarsa importanza è la statuizione legislativa per cui la potestà genitoriale resta disgiunta tra padre e madre, laddove di fatto, ovviamente, le decisioni per i figli (almeno per le questione di ordinaria amministrazione), vengono sempre assunte dal genitore con cui questi vivono.

Il fatto è che, l’unica disposizione importante, come ben sanno i legali, assunta dal Presidente del Tribunale e poi dal Collegio, è data non tanto dall’affidameno condiviso o dalla potestà genitoriale disgiunta, bensì dal nuovo istituto del “collocamento”, detto anche della “residenza prevalente dei figli”, che continua ad essere attribuita alla donna nella stragrande maggioranza dei casi.
La convivenza dei figli con la madre porta come immediata conseguenza la perdita della casa coniugale e l’accollo del mantenimento per la prole.
Infatti la legge statuisce, sia nella separazione che nel divorzio, che la casa coniugale debba sempre essere assegnata, (cioè attribuita ad uso gratuito) al coniuge con il quale rimangano a vivere i figli minorenni o maggiorenni non autonomi.
Ciò fa sì che il collocamento dei figli porti sempre con sé il diritto ad ottenere l’assegnazione dell’immobile, il che da solo costituisce uno dei pregiudizi più rilevanti nel modo attuale, tenuto conto dei valori delle case e non infrequentemente del fatto che il marito estromesso è costretto a pagare il muto bancario residuo, non essendo ovviamente opponibili alla banca i provvedimenti del giudice della separazione, banca la quale pretende la continuazione del pagamento dei ratei di mutuo dal debitore originario.

Ricordiamo che l’art. 155 quater c.c. espressamente dichiara che il godimento della casa familiare debba essere attribuito valutando prioritariamente l’interesse dei figli.
Anche se dell’assegnazione il giudice deve tener conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, di fatto la perdita economica derivante da una simile estromissione non può che gravare in modo rilevante sul marito, il quale si trova costretto ad abbandonare l’alloggio, a sostenere il pagamento del mantenimento dei figli, con un assegno mensile a cui va aggiunta di norma, la partecipazione al 50% delle spese mediche e scolastiche e talvolta anche di quelle ludiche.

Per ovviare a ciò che talvolta accadeva nel precedente regime normativo, e cioè che la donna beneficiaria dell’alloggio facesse subentrare il nuovo compagno, unica nota positiva è l’attuale previsione per cui il diritto della casa familiare viene a decadere allorché l’assegnatario cessi di abitare stabilmente nell’alloggio o conviva more uxorio con altro compagno, (anche se la norma non precisa che fine facciano i figli una volta che la casa venga tolta alla madre).

Dunque di fatto il marito, pur incolpevole, si troverà privato di buona parte della propria retribuzione, sarà costretto a continuare a pagare il mutuo bancario, se sussistente, e comunque sarà tenuto a trovarsi un altro alloggio, tant’è che ormai è comunissimo che il maschio separato torni a vivere dai genitori.
La questione dell’ingiustizia sostanziale di cotanto depauperamento dell’uomo, allorchè la responsabilità del fallimento dell’unione sia imputabile alla donna, è stata sollevata in moltissime occasioni nelle aule di giustizia.
Tuttavia il collocamento dei figli presso la donna trova il proprio fondamento nella tutela alla prole, della quale deve essere garantito al meglio lo sviluppo psichico e fisico, secondo la Cassazione riducendosi così al minimo il trauma per la separazione dei genitori.
Ovviamente uno dei modi per ridurre il gravissimo disagio derivante dall’allontanamento di un genitore non può che consistere nel garantire ai figli di poter proseguire la convivenza nei luoghi, e quindi nella casa, a loro abituale e congeniale, comportando quindi automaticamente il diritto all’assegnazione in favore del coniuge collocatario dei figli.

Tale prevalente tutela della prole, che peraltro informa tutto il sistema delle separazioni e del divorzio, può indubbiamente, in presenza per esempio del tradimento della donna, portare a situazioni aberranti, pregiudicandosi, con provvedimenti giudiziari fortemente penalizzanti, la stessa serenità e l’esistenza dell’uomo, incolpevole del fallimento dell’unione e che si sente ingiustamente punito.

Tuttavia la Suprema Corte ha sempre chiarito, in modo assolutamente costante, che pur rendendosi conto il magistrato dell’ingiustizia sostanziale di simili fattispecie, di fronte all’esigenza dei figli che certo nessuna responsabilità hanno nel disgregamento familiare, talvolta è necessario ricorrere al minor male.

In tal senso la norma che prevede l’assegnazione della casa familiare al coniuge collocatario della prole, pur se non sia titolare di diritto reale o personale di godimento sull’immobile, è stabilita nell’essenziale presupposto di tutelare l’interesse dei minori, o dei figli maggiorenni, ma non autonomi, e trova quindi applicazione anche quando a detto coniuge collocatario venga addebitata la separazione, situazione che se da un lato esclude il diritto ad ottenere il mantenimento per la donna colpevole, non esclude certamente l’obbligo del marito di partecipare al mantenimento dei figli e di lasciare a costoro l’uso dell’immobile.
Unico beneficio che può ottenere il marito abbandonato, è quello di non essere tenuto anche al mantenimento della moglie, ove questa non percepisca un adeguato reddito proprio, purché possa dimostrare in causa la violazione dei doveri matrimoniali (obbligo di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione nell’interesse familiare, di coabitazione, di contribuzione ai bisogni familiari, di mantenimento ed istruzione dei figli).

Va tuttavia detto che la dimostrazione della colpa e cioè della violazione dei doveri derivanti dal matrimonio,   con l’addebito della separazione, trova un ostacolo nella scarsa disponibilità dei giudici ad ammettere i mezzi istruttori in tal senso per accelerare la conclusione del processo e anche nell’orientamento della Cassazione ormai univoco che stabilisce come la dimostrazione del tradimento di un coniuge, non necessariamente porti all’addebito della separazione, allorchè il giudice si convinca che il matrimonio fosse già finito per incompatibilità materiale preesistente tra i due.
In ipotesi, viceversa, di accoglimento della domanda di addebito ricordiamo   le conseguenze sotto un duplice profilo.

Da un lato quella prevista dall’art. 156 c.c. e dall’altro quella prevista dall’art. 548 c.c.
Il primo prevede che il giudice pronunciando la separazione stabilisce, solo a vantaggio del coniuge a cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto necessario al proprio mantenimento quando non abbia adeguati redditi propri.
Il secondo, l’art. 548 c.c. in tema di successione, stabilisce che il coniuge al quale sia addebitata la separazione non ha più diritto a partecipare all’eredità ma al massimo soltanto all’assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti.
Ipotesi poco interessante dal momento che, comunque con il divorzio, decorso il triennio di legge, tutti i diritti successori vengono a cessare ipso jure.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *