Sono passati oltre quarant’anni dall’introduzione in Italia della legge divorzile n° 898 del 1° Dicembre 1970.
I meno giovani ricorderanno le numerose e violentissime polemiche all’epoca, non soltanto a livello politico, ma anche tra la stessa popolazione.

Tali polemiche rendevano particolarmente travagliato non solo l’iter legislativo, ma anche le vicende successive all’approvazione della normativa che subiva, sotto vari profili, l’esame della conformità costituzionale da parte della Corte ed in seguito dovette superare un referendum abrogativo.
Uscita indenne la legge da questa burrascosa vicenda legata ad una polemica tipica del periodo storico in cui era nata la normativa (oggi sembra evidente la mancanza di ogni pregiudizio, anche per chi, credente, confidi in un matrimonio canonico indissolubile, libero di non ricorrere al divorzio, ma allo stesso tempo non in diritto di imporre il proprio punto di vista a tutti gli altri), la normativa in tempi più recenti ha subito vari rimaneggiamenti, alcuni superficiali ed altri invece sostanziali.

La situazione all’epoca del divorzio

Va ricordato che il diritto di famiglia venne riformato solo cinque anni dopo l’approvazione della normativa  divorzile, con la legge n° 151 del 19/05/1975 con la quale venivano innovati i rapporti fra i coniugi portandoli su un piano di parità.
Precedentemente la situazione era quella di una famiglia incentrata da un lato sulla figura del marito “dominus” apportatore di reddito, con un ruolo nettamente subordinato della donna, e dall’altro sull’istituzione del matrimonio inteso come indissolubile se non con la morte di uno dei coniugi.
Prima della legge di riforma del diritto di famiglia del 1975 (e quindi anche all’epoca della promulgazione della normativa divorzile del 1970), la possibilità di separarsi, era ridotta alla separazione consensuale su accordo delle parti che acquistava efficacia con l’omologazione, mentre la separazione giudiziale in senso stretto, (e cioè su richiesta di uno solo dei coniugi), era ammessa solo in ipotesi prestabilite di “colpa” di uno dei coniugi.
Gli articoli 151, 152 e 153 del Codice Civile nella formulazione originaria rilevavano la colpa nei seguenti fatti: abbandono volontario, minacce, eccessi, sevizie, condanna a pene detentive di notevole gravità, ingiurie gravi al coniuge, adulterio semplice della moglie ed infine adulterio grave del marito (ma solo quanto concorrevano circostanze tali da costituire ingiurie gravi per la moglie).
Si noti l’evidente disparità di trattamento nel caso di adulterio “semplice” per la moglie ed “aggravato” per il marito legittimato evidentemente quale dominus a qualche saltuaria distrazione extraconiugale.

Immoralità e sanzioni penali

Sotto il profilo penale (art.li 559 – 563) era reato l’unione carnale, anche occasionale, della moglie con un estraneo, mentre il marito era penalmente perseguibile solo quando l’adulterio si fosse manifestato sotto la specie del concubinato.
Singolarmente le pene previste per il concubinato e la relazione adulterina erano previste anche a carico dell’amante.
In tal senso la rigidità del sistema penale colpiva senza distinzione alcuna anche personaggi famosi.
Tutti ricordano il caso di Fausto Coppi che, nonostante fosse campione nazionale di ciclismo, venne sanzionato pesantemente a causa della relazione extraconiugale con la moglie di un medico, Giulia Occhini. La storia d’amore divenne di pubblico dominio; tuttavia essendo entrambi sposati, la cosa suscitò negli anni ’50 grande scandalo ed il medico denunciò penalmente i traditori.
La cosa davvero singolare è che in attesa del processo, applicandosi la disciplina vigente, la compagna, signora Occhini, venne trattenuta in carcere per quattro giorni e venne poi costretta al domicilio coatto, mentre al campione Fausto Coppi fu ritirato il passaporto.
Nel 1955 il processo si concluse con la condanna a due mesi di prigione per Fausto Coppi ed a tre mesi per la  Occhini con la sospensione condizionale della pena (da notare l’aumento della pena per la donna), fino a che il campione e la Occhini si sposarono in Messico, matrimonio tuttavia mai riconosciuto in Italia.
Uno strascico sotto il profilo civilistico vi fu allorchè il figlio nato da tale relazione, fu fatto nascere in Argentina in quanto il medico tradito  rifiutava di disconoscerne la paternità e quindi non era possibile attribuire al nascituro il cognome del padre, “Coppi”.

L’evoluzione della separazione dei coniugi

Il fatto di aver limitato a pochi casi le ipotesi possibili per addivenire ad una separazione giudiziale faceva sì che l’interessato (o l’interessata) era costretto a ricercare, prima della riforma del diritto di famiglia, con ogni mezzo  una qualche colpa da addebitarsi al coniuge reo di aver violato uno dei doveri scaturenti dal rapporto matrimoniale, (in genere la fedeltà).
Pur di addivenire all’agognata separazione giudiziale, gli interessati davano corso a tutta una serie di tentativi per scoprire in flagranza l’altro coniuge, trascendendo poi alcune situazioni in fatti degni della migliore comicità e come tali più volte ripresi dalla cinematografia dell’epoca con i mariti ed i carabinieri in giro per le camere da letto, alla ricerca  del coniuge infedele in atteggiamenti inescusabili.
Finalmente, nel 1975 la situazione si risolse con la nuova normativa in tema di diritto di famiglia laddove bastava sostanzialmente l’istanza anche di un solo coniuge per ottenere la pronuncia di separazione giudiziale, presupposto indispensabile per ottenere poi il divorzio.

Il divorzio

Sotto questo profilo va ricordato che lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio (dizione esatta della legge) stranamente, quasi come se fosse un effetto del cattivo favore riservato alla normativa all’epoca della sua promulgazione, né per la legge iniziale, né per le modifiche successive, è mai stato inserito all’interno del Codice Civile.
Ciò appare tanto più strano se si considera che tutte le innovazioni rilevanti in tema di diritto di famiglia, comprese quelle recenti del Dicembre 2013 in tema di filiazione, (D.Lgs. 154/13) sono sempre inserite all’interno nella parte dedicata al Diritto di Famiglia.
E’ sempre apparsa inopportuna la scelta del legislatore di lasciare in una normativa a parte, la disciplina del divorzio, che dovrebbe invece seguire in maniera naturale e continuativa gli articoli del Codice dettati in tema di separazione giudiziale e consensuale.
Altrettanto strana è apparsa la scelta del legislatore di non usare il termine comune di divorzio, bensì appunto quello di cessazione degli effetti civili e di scioglimento del matrimonio, ravvisandosi peraltro la distinzione terminologica del tutto inutile, dal momento che la pronuncia del giudice non può che incedere soltanto sul rapporto di coniugio di diritto civile e non certo sul rapporto religioso, indipendentemente dal nome attribuito al contenuto della decisione del Tribunale.

Il succedersi delle leggi in tema di divorzio e la situazione attuale 

Nel 1970, quando venne introdotta la legge divorzile servivano 5 anni dalla prima udienza di comparizione dei coniugi avanti al Presidente nella causa di separazione per ottenere il divorzio).
Successivamente nel 1978 con la legge n° 436 venivano precisati alcuni aspetti marginali quali questioni a carattere ereditario, di assistenza sanitaria, ecc.
In seguito con la legge 06/03/1987 n° 74 venivano invece inserite modifiche innovative quali il divorzio cosiddetto congiunto (la procedura breve con la firma di entrambi i coniugi) ed altre tese ad una maggiore aderenza alle esigenze delle parti e ad una maggiore scorrevolezza della procedura, ma soprattutto venne introdotta la riduzione del periodo di separazione da cinque a tre anni.
Nella stessa legge vennero promulgate norme di notevole importanza per ciò che riguardava il recupero delle somme dovute (in genere alla donna per il mantenimento suo e della prole) con azioni esperibili direttamente nei confronti di terzi, normalmente il datore di lavoro con la possibilità di un miglior controllo dei redditi delle parti e con la previsione dell’affidamento familiare presso terzi della prole.
Con la legge n° 80 del 2005 venivano dettate nuove norme processuali; con la legge n° 263 del 2005 veniva data interpretazione autentica dell’art. 9 comma 2 e 3 della legge divorzile in tema di pensione di reversibilità su una questione importante laddove, in modo piuttosto rigido la disciplina divorzile stabilisce che, ove la donna non sia titolare di un assegno di mantenimento, indipendentemente dall’importo, non possa accedere alla pensione di reversibilità dell’ex marito defunto.
La giurisprudenza per sopperire a tale rigidità normativa era arrivata alla conclusione di ritenere che la pensione potesse essere comunque attribuita alla donna sempre che essa fosse in grado di dimostrare di aver comunque il diritto teorico all’assegno di mantenimento, anche se non richiesto.
La norma invece ritornava ad un’applicazione rigida della disciplina, precludendo quindi qualsiasi diritto alla pensione di reversibilità per la donna divorziata che non fosse titolare in concreto di assegno  divorzile.
Infine con la nuova normativa sulla filiazione e con il D.lgs. n° 154 del Dicembre 2013 si dava corso alla delega al Governo a tutela dei figli e veniva prevista una unica disciplina applicabile sia in tema di separazione che di divorzio e di crisi della convivenza a tutela della prole con l’introduzione degli art.li da 337 bis a 337 octies inseriti nel Codice  Civile.

La disciplina in via di approvazione

La riforma della legge divorzile approvata dalla Camera dei Deputati con una maggioranza schiacciante e trasversale, ha accelerato i tempi necessari alla estinzione del rapporto coniugale prevedendo sostanzialmente non più il termine del triennio, ma soltanto quello di dodici mesi, ovvero solo di sei mesi in caso di separazione consensuale.
Inoltre il termine di decorrenza dell’anno, o dei sei mesi, partirà non più dall’udienza presidenziale, bensì dalla notifica del ricorso della separazione.
L’altra modifica legislativa estremamente importante è quella del mutamento del regime patrimoniale, statuendosi che i coniugi, se precedentemente usufruivano del regime di comunione legale, passano al regime di separazione legale immediatamente dopo l’autorizzazione del Presidente a vivere separati, senza attendere il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale o l’omologazione della separazione consensuale.
La questione non è di poco conto, ma poco conosciuta dal pubblico.
Capita frequentemente che il coniuge, giunto avanti al Presidente e firmata la separazione consensuale sia convinto che sia cessato anche il regime di comunione legale e quindi, essendosi allontanato dalla casa, provveda all’acquisto di un altro alloggio.
Se ciò avviene prima dell’omologazione della separazione da parte del Collegio, egli avrà incautamente “donato” il 50% di tale immobile al coniuge separato. Ciò in quanto, secondo l’attuale e costante indirizzo giurisprudenziale, il regime cambiava, non con la comparizione dei coniugi come previsto nella nuova legge, ma soltanto dopo un certo tempo, con l’omologazione della separazione.

Inutilità di due fasi processuali: separazione e poi divorzio

La cosa più razionale sarebbe stata, (ma sotto tale profilo non vi era la maggioranza parlamentare), di unificare il procedimento soltanto in quello divorzile come avviene nella maggioranza degli Stati nel mondo.
Infatti i coniugi sostanzialmente si trovano a dover sostenere i costi ed i tempi di due procedure distinte.
L’una, la separazione che mette in pratica il matrimonio in uno stato di “quiescenza”, che, nello spirito della legge può terminare (teoricamente) con la riconciliazione o (molto più probabilmente) rimanere tale, salvo  tramutarsi nel definitivo divorzio.
L’altro il procedimento di divorzio che recide definitivamente  il vincolo annullando il matrimonio (che poi è sostanzialmente risultato che i coniugi perseguono), eliminando i diritti ereditari e permettendo ai coniugi di poter contrarre nuovo matrimonio.
Nel mondo la maggioranza degli ordinamenti permette invece il divorzio immediato.
Ciò anche in Europa. Tant’è che attualmente molti italiani approfittando di una normativa comunitaria poco chiara, si recano all’estero, (un tempo in Inghilterra ed attualmente invece per ragioni di economia in Spagna o in Romania), per ottenere il divorzio in un’unica soluzione e con costi approssimativamente compresi tra 3mila e 4mila euro incluso il viaggio.
Tale meccanismo, peraltro confermato legittimo dalla Cassazione, si basa sul Regolamento CEE n° 2201 del 2003 che sostanzialmente equipara in tutti gli Stati dell’Unione le sentenze in tema di diritto di famiglia pronunciate in un altro Stato.
Ora dunque è possibile ottenere la pronuncia di divorzio immediato cambiando Stato europeo e tribunale, a costi equiparabili ad un processo di separazione in Italia, tenendo conto che comunque si evita il processo di separazione preventivo.
Tale opportunità non è consigliabile tuttavia in presenza di figli, laddove la disciplina estera, a differenza di quella italiana molto attenta alla tutela della prole, non prevede per esempio l’istituto dell’affidamento condiviso,  della responsabilità genitoriale, ed in genere tutte le nostre norme specifiche sul tema.

La separazione consensuale con l’avvocato senza la pronuncia del magistrato

Una delle proposte che non è passata, era quella di permettere agli avvocati, ovvero ai notai, di procedere alla stipula degli accordi consensuali senza che gli interessati si recassero avanti al giudice, almeno in assenza di figli minori.
 A discapito degli avvocati, categoria alla quale appartengo, va tuttavia osservato con correttezza, che rimettere nelle mani di un professionista pagato dal cliente una pronuncia in tema di separazione o comunque in tema di diritto di famiglia, appare inopportuno quantomeno perché manca qualsiasi criterio di imparzialità e di equilibrio.
Anche ammettendo l’obbligatorietà dei due legali, potrebbe accadere con una certa facilità che il legale meno preparato, finisca con il danneggiare il cliente.
Non infrequentemente ci si trova di fronte a situazioni di coppie nelle quali i provvedimenti assunti in una separazione consensuale o in un divorzio congiunto, con l’ausilio di un legale magari specializzato in un’altra materia, hanno comportato dei danni irreversibili, come la perdita di un adeguato mantenimento o la perdita del trattamento pensionistico di reversibilità o peggio la perdita dell’abitazione.
E’ quindi preferibile rimettere sempre nelle mani del magistrato al di sopra delle parti, un provvedimento che anche se apparentemente semplice, può comportare, in caso di errori, conseguenze estremamente rilevanti.
Sul punto è inutile ripetere ancora  la necessità, così come avviene negli altri Stati e come invece in Italia non avviene affatto, di unificare le figure dei magistrati in una sezione specializzata, evitando la frammentazione così come oggi accade, tra Tribunale Ordinario, Tribunale dei Minorenni e Giudice Tutelare.  

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *