I motivi per cui può essere addebitata la separazione al coniuge colpevole, derivano dai comportamenti contrari ai doveri stabiliti dalla legge in tema di matrimonio.
In sostanza deve sussistere l’imputabilità e cioè la riferibilità degli atti posti in essere al coniuge colpevole consistenti in un comportamento volontario e cosciente contrario appunto ai doveri del vincolo matrimoniale.

In realtà quasi sempre, in una situazione di contrasto coniugale, emergono  violazioni ai doveri coniugali che in linea teorica potrebbero dar luogo all’addebito.  
Tuttavia la Corte di Cassazione, con la motivazione non tanto nascosta di evitare un allungamento sine die dei processi di separazione, ha precisato come non sia affatto sufficiente ai fini della pronuncia di addebito la prova della colpa dell’uno o dell’altro coniuge, necessitando invece la dimostrazione che tale presunta colpa sia stata  il motivo scatenante del fallimento dell’unione semprechè tale unione non fosse già fallita in precedenza.

I MOTIVI DI ADDEBITO

Sostanzialmente i motivi di addebito devono consistere nella violazione di quelli che sono indicati dagli art.li 143-148 c.c. quali presupposti della vita comune.
Così perché possa addebitarsi la separazione, la violazione deve riguardare l’obbligo di fedeltà, l’obbligo di assistenza morale e materiale, l’obbligo di coabitazione, l’obbligo di contribuire ai bisogni familiari secondo le proprie capacità di reddito e le proprie sostanze ed infine l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole.
Le norme che prevedono l’addebito della separazione e le relative conseguenze sono quelle contenute negli art. 156 e 548 c.c..
Il primo di essi recita “Il giudice pronunciando la separazione stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto necessario al suo mantenimento quando non abbia redditi propri”.
Ed ancora l’art. 548 c.c. stabilisce la perdita dei diritti ereditari in caso di addebito (perdita che comunque sussisterebbe con il successivo divorzio).

LA CASISTICA

Le motivazioni con cui viene chiesto l’addebito della separazione sono molteplici e fanno tutte riferimento alle innumerevoli possibili violazioni dei diritti-doveri matrimoniali di cui si è detto, intesi come principi di massima.
Frequentissima per esempio è  la violazione dell’obbligo di fedeltà, l’allontanamento ingiustificato dall’abitazione, (sempreché l’abbandono non sia stata la legittima reazione ad atteggiamenti violenti, percosse e simili), la mancanza di partecipazione economica, le violenze di vario genere, e così via.
Ricordiamo per inciso che, fino a metà degli anni ’90 si riteneva responsabile il coniuge delle violazioni, anche se tali atteggiamenti fossero stati posti in essere durante il processo di separazione, mentre attualmente (ex multis Cass. N. 6566/97, n. 3098/95) ribaltando il pregresso indirizzo, non si ritengono più rilevanti ai fini dell’addebito i comportamenti successivi alla prima udienza, e cioè alla pronuncia dell’autorizzazione ai coniugi di vivere separati durante l’udienza presidenziale.

LE LUNGAGGINI PROBATORIE

Ormai la giurisprudenza della Cassazione, come si accennava, è orientata in modo univoco nel ritenere che, ai fini dell’addebitabilità della separazione, il giudice deve accertare in modo non equivoco se la frattura del rapporto coniugale sia stata provocata esclusivamente dal comportamento oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi.
In sostanza deve rilevare se sussista un rapporto di causalità tra il comportamento ed il verificarsi dell’intollerabilità della convivenza o se invece, (ipotesi che i giudici ritengono ricorrere quasi sempre), la violazione dei doveri che l’art.  143 c.c. pone a carico dei coniugi, sia avvenuta quando era ormai maturata la crisi del vincolo coniugale, (in tal senso tra le tante ricordiamo Cass. 8862/12, n. 8873/12, n. 21245/10, etc.).
La ratio di questo irrigidimento della Suprema Corte è evidente se si pensa che, diversamente, le cause di separazione si allungherebbero in modo irreversibile, dovendosi  espletarsi tutta una serie di prove, per lo più testimoniali che finirebbero con il prolungare il processo senza peraltro alcun risultato concreto, dal momento che, come si è visto, gli effetti pratici sul piano patrimoniale della separazione sono estremamente modesti,  (l’unico reale è la perdita del  mantenimento se il coniuge presunto colpevole ne avesse diritto).

DEPRESSIONE E ADDEBITO

Interessante è l’inammissibilità sotto tale profilo, pronunciata dalla Corte di Cassazione con la decisione n. 4565 del 9/03/2016 della pretesa della moglie di ottenere l’addebito della separazione a causa dello stato di depressione nella quale la stessa era caduta (inclusa una certa propensione agli alcolici).
Già il Tribunale e poi la Corte d’Appello avevano escluso che  l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza tra i coniugi fosse stata determinata dal comportamento del marito, rilevando non solo che il procedimento penale promosso contro questi era stato definito con l’archiviazione, ma anche che non era stato per nulla provato che tutti i disturbi, le frustrazioni, le depressioni, l’abuso di alcolici e simili, derivassero dal comportamento del marito e non da una patologia della moglie.
Anche le dichiarazioni relative alla presunta violazione dell’obbligo di fedeltà non avevano trovato alcun riscontro concreto.
Il ricorso in Cassazione era stato presentato con un unico motivo, deducendo il difensore della moglie che non erano stati ammessi i vari capitoli di prova testimoniali articolati sul punto.
La Cassazione tuttavia dichiarava inammissibile il ricorso, specificando che i capitoli di prova erano relativi a circostanze isolate tra loro, né era evidente la decisività di tali capitoli di prova dai quali si sarebbe dovuto ricavare il convincimento di una condotta del marito, tale da aver determinato l’insorgenza delle patologie o della depressione della moglie.

E SE E’ IL MARITO AD ESSERE DEPRESSO?

In modo inverso la depressione viene utilizzata anche come tentativo per non adempiere al mantenimento statuito dal Tribunale.
In tal senso un marito piemontese veniva condannato per essersi sottratto agli obblighi di assistenza inerenti alla sua potestà di genitore facendo mancare i mezzi di sussistenza alla figlia minorenne e non corrispondendo gli € 400,00 mensili stabiliti dal giudice civile, né il 50% delle spese scolastiche e mediche statuite dal Tribunale.
Dopo la conferma della condanna della Corte d’Appello di Torino, il responsabile ricorreva alla Cassazione ritenendo che i giudici non avevano considerato il suo grave stato di depressione che gli impediva di procacciarsi qualunque reddito e quindi ingiustamente non era stato assolto dal reato.
Tuttavia la Cassazione  precisava che, trattandosi di un soggetto giovane e sano, solo asseritamente depresso, ma senza prove specifiche sul punto, mancava la dimostrazione dell’impossibilità di far fronte agli adempimenti,  sanzionati, in caso di mancato rispetto, dall’art. 570 c.p. Tale prova doveva essere assoluta e dimostrare una situazione di preesistente, oggettiva, incolpevole indisponibilità di introiti (ex multis Cass. penale n° 33997/15).
Quindi non era certamente sufficiente un dichiarato stato depressivo per sottrarsi agli obblighi di mantenimento.
Veniva così  confermata  la condanna alla pena di tre mesi di reclusione ed € 400,00 di multa (Cass. penale 22/03/2016 n° 12283). 

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