Il sistema di gestione di rifiuti solidi urbani costituisce in Italia uno dei principali fattori di criticità per la finanza pubblica, specie regionale e locale, oltre a rappresentare – ça va sans dire – uno dei problemi più seri e diffusamente irrisolti in relazione alla vivibilità e alla salubrità dell’ambiente urbano.

La “vulgata” che si tratti di un problema che affligge esclusivamente le regioni meridionali – sporche, brutte e cattive – è stata recentemente smentita da un pronunciamento della sezione ligure della Corte dei Conti. Con sentenza n. 83 del 27 maggio 2013 (il testo integrale è allegato) la Corte ha condannato sindaci, assessori e amministratori del Comune di Recco a risarcire l’ente locale per le gravi inadempienze riscontrate rispetto alle norme che regolano la corretta gestione del servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani.
Il dato è, tuttavia, meramente geografico e non vale a mettere a tacere la crociata leghista contro le regioni del Sud Italia sul problema dei rifiuti.
Il problema che a Recco riguarda fondamentalmente la finanza pubblica ed è legato – in sintesi – al mancato raggiungimento degli obiettivi della raccolta differenziata e ai costi che tale inadempienza determina, nelle regioni del Sud si cronicizza e assume i contorni della vera e propria emergenza, con picchi di tensione sociale, ipotesi di contiguità con ambienti criminali e pesanti ricadute sulla vita e sulla salute dei cittadini.

La pronuncia è conforme ad un ormai nutrito filone della giurisprudenza contabile riguardante la cattiva gestione del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti. In questo contesto spicca per notorietà la sentenza Corte dei conti, sez. giur. Campania, 15 febbraio 2013, n. 222, che condanna amministratori e Sindaci del comune di Napoli a un cospicuo risarcimento per le gravi inadempienze riscontrate nella gestione del servizio-rifiuti (nella specie la condanna ha riguardato – come è a molti noto – il danno erariale connesso alla inutile retribuzione di un elevato numero di dipendenti non posti in condizione di prestare la propria attività lavorativa).

La costante delle pronunce del giudice contabile può considerarsi l’inerzia degli amministratori preposti alla cura del pubblico interesse alla corretta gestione del servizio. Nel caso che ci occupa (e in numerosi altri) la condotta causativa del danno erariale è consistita nella “mancata assunzione da parte degli amministratori di idonei e specifici provvedimenti volti a ricondurre la gestione nell’ambito delle previsioni di legge”, che ha cagionato “un danno patrimoniale pari ai maggiori costi sostenuti per il conferimento in discarica di materiale che avrebbe dovuto essere oggetto di raccolta differenziata”.

Giova, tuttavia, evidenziare alcuni altri aspetti, comuni a molte delle pronunce in argomento, relativi alle voci di danno per le quali il giudice contabile (in questa o in altre pronunce) ha ritenuto di non condannare gli amministratori.
La prima di tali voci riguarda il danno ambientale. Nella vicenda ligure, secondo il P.M. contabile, infatti, il versamento in discarica dei rifiuti eccedenti aveva comportato anche un danno all’ambiente – da rifondersi in favore dello Stato – “per il deterioramento aggiuntivo delle risorse naturali causato dall’immissione di maggiori quantità di sostanze e microorganismi nel terreno e di gas nocivi nell’aria circostante alla discarica”. Il Collegio ha osservato in proposito che per la configurabilità del danno ambientale è determinante “l’incremento dell’inquinamento rispetto alle condizioni originarie, incremento che nel caso in esame non sembra essersi verificato, atteso che nella discarica, regolarmente autorizzata, sono stati versati rifiuti in quantità maggiore rispetto a quelli che si sarebbero prodotti con una raccolta differenziata effettuata nelle misure previste dalla legge, ma non maggiormente inquinanti rispetto a quelli che la stessa discarica, in base alle sue caratteristiche costruttive e operative, era destinata ad accogliere”.
Benché si scontri con la cultura della prevenzione e con lo spirito delle norme sulla raccolta differenziata, il ragionamento giuridico pare ineccepibile. Il danno all’ambiente è, infatti, definito dall’art. 300, comma 1, del D.Lgs. n. 152/2006 (c.d. Codice Ambiente) quale “deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”. Tale norma riporta in termini puntuali la nozione comunitaria di danno ambientale (Dir. 2004/35/CE), specificando che esso consiste nel deterioramento, in confronto delle condizioni originarie, provocato alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria, alle acque interne, alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale, al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana.

Va da sé che il danno ambientale è sicuramente ravvisabile in tutte quelle ipotesi in cui il deterioramento sia determinato dal conferimento di rifiuti in misura maggiore rispetto a quelli che la discarica era destinata ad accogliere, oltre che – ovviamente – nelle ipotesi di conferimento di rifiuti speciali, nocivi o pericolosi.

In tema di danno ambientale il sistema della tutela è complesso ed articolato e vede coinvolti più ordini giurisdizionali, con competenze cosi sinteticamente ripartite:
A) il giudice amministrativo in generale per le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni in materia di danno, silenzi e inadempienze degli organi competenti, sanzioni e misure di precauzione, prevenzione o ripristino;
B) il giudice ordinario per l’azione civile proposta per il risarcimento del danno ambientale;
C) la Corte dei conti nel caso di danno provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione della stessa.
Una protezione – sulla carta – intensa e completa.

La seconda voce di danno ha riguardato, nel filone giurisprudenziale in esame, il profilo del danno all’immagine e alla reputazione dello Stato e degli enti territoriali coinvolti. Specie nelle vicende più eclatanti e con rilevante risonanza mediatica, la compromissione dell’immagine e della reputazione degli enti pubblici coinvolti è di palmare evidenza, tuttavia, come si è avuto modo di rilevare in altra occasione[1], la possibilità di ottenere il risarcimento di tali danni, a seguito del famigerato Lodo Bernardo, è subordinata alla previa emanazione di una sentenza penale di condanna. Degli effetti di tale novella legislativa tiene conto la sentenza Corte dei conti, sez. giur. Campania, n. 222/2013, cit., che preliminarmente afferma che “il cd danno alla reputazione configura, con quello all’immagine, una unitaria voce di pregiudizio, quale lesione del diritto inviolabile della personalità dell’Ente pubblico (artt. 2 e 10 Cost.), traducendosi nell’offesa al prestigio, al decoro ed all’onore di cui l’Ente medesimo gode al proprio interno e nei confronti dei consociati”. Unificati, così, i due profili di danno, il giudice contabile conclude per l’inammissibilità per effetto del c.d. Lodo Bernardo, difettando nel caso di specie il presupposto ivi previsto della sentenza irrevocabile di condanna per uno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione[2].

Apposita considerazione merita, poi, il profilo della quantificazione del danno, con particolare riferimento al c.d. “potere riduttivo”.
Il cosiddetto potere di riduzione dell’addebito da parte del Collegio giudicante è tradizionalmente ancorato all’art. 52 del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214 (Approvazione del testo unico delle leggi sulla Corte dei conti), che stabilisce, al secondo comma che “La Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto[3].
Tale facoltà discrezionale della Corte dei conti, sconosciuta al giudice ordinario, va (rectius andrebbe) configurata come una potestà eccezionale, determinata da ragioni di equità ed opportunità, tutte le volte in cui le circostanze specifiche del caso sottoposto all’attenzione del giudice contabile consigliano di attenuare gli effetti della responsabilità stessa.
Si tratta di un potere esercitabile soltanto su richiesta delle parti e appare preordinato, in generale ad adeguare il quantum del risarcimento al grado della responsabilità, senza per questo tradursi in “una benevola e graziosa riduzione dell’addebito” (Corte dei conti sez. giur. Basilicata, n. 202/2004) ed è soggetto a specifico onere motivazionale.
La prassi ci consegna un diffuso e non certo eccezionale ricorso a tale strumento, sulla base di circostanze riduttive della responsabilità raggruppabili in tre categorie:
1) rilevanza delle situazioni soggettive degli amministratori;
2) rilevanza delle situazioni oggettive della realtà nella quale gli stessi amministratori si sono trovati ad operare;
3) rilevanza degli aspetti eziologici nel concreto determinarsi dell’evento.
Nel caso sottoposto all’esame dei giudici liguri l’esercizio del potere riduttivo, che ha condotto ad uno “sconto” del 30% sulle condanne degli amministratori ha tenuto conto “del contesto generale nel quale i convenuti hanno operato, caratterizzato dal complesso quadro normativo in materia di rifiuti e dalle articolate modalità operative di attuazione da parte dei diversi centri decisionali, a volte contrassegnate da confusione e incertezza, contesto che rendeva certamente più difficoltosa l’organizzazione di un sistema integrato di rifiuti e la ricerca e l’individuazione di un modello gestionale adeguato alle esigenze dell’Ente”.

Al di là della valutazione della congruità della motivazione, senz’altro caratterizzata da una certa genericità, un dato pare incontrovertibile: la colpa (almeno il 30% di essa) è, dunque, del legislatore!
Occorre quindi dare sinteticamente conto del quadro normativo, che – effettivamente, per usare un delicato eufemismo – costruisce un sistema assai articolato.
Tralasciando i riferimenti più remoti, il primo testo organico in materia di rifiuti è il c.d. Decreto Ronchi (Decreto Legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, emanato in “Attuazione delle direttive CEE 91/156 sui rifiuti, CEE 91/689 sui rifiuti pericolosi e CEE 94/62 sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio”), il quale risponde ad una logica di riassetto globale della disciplina di settore .
Tale decreto ha provveduto ad individuare le funzioni amministrative che in materia di raccolta differenziata competono a ciascun livello di governo, centrale, regionale, provinciale e comunale, attribuendo allo Stato il compito di indicare i criteri e principi generali, alle Regioni la funzione di regolazione, alle Province la cura dell’organizzazione delle attività e ai Comuni il compito di stabilire “le modalità del conferimento, della raccolta differenziata e del trasporto dei rifiuti urbani, al fine di garantire una distinta gestione delle diverse frazioni di rifiuti e promuovere il recupero degli stessi” (artt. 21, comma 1°, lettera c, e 23, co. 3).
Tale sistema è, poi, confluito nel d.lgs. 152/2006, c.d. Codice ambiente, più volte modificato, da ultimo con il D.Lgs. n. 205/2010, con il quale si recepisce la Direttiva 2008/98/CE.
Le novità più rilevanti di quest’ultimo intervento del legislatore riguardano la rivisitazione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (c.d. sistema Sistri), mediante l’introduzione di adempimenti ulteriori rispetto a quelli già vigenti e di uno specifico apparato sanzionatorio.
Se l’effettività e l’efficacia del sistema di controllo era l’obiettivo da perseguire secondo l’UE, c’è da temere che gli organi competenti non tarderanno a censurare il nostro Paese su questo specifico aspetto. Il c.d. Sistri non è mai entrato realmente in funzione e di ciò ha piena contezza il Ministero dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare, competente ratione materiae, che con DM 20 marzo 2013 indica termini e modalità del riavvio progressivo (sic!) del Sistri.

D’altronde, a quanto pare, il “maglio” dell’UE sta già per abbattersi con forza sull’Italia in materia di rifiuti. È notizia degli scorsi giorni la decisione della UE di deferire l’Italia alla Corte di giustizia per la gestione dei rifiuti in Campania.
Su raccomandazione di Janez Potočnik, Commissario per l’Ambiente, la Commissione europea ha deciso di avviare un ricorso dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea contro l’Italia per il suo prolungato e perdurante inadempimento in materia di gestione dei rifiuti nella regione Campania, in violazione del dovere di fonte comunitaria di recuperare e smaltire i rifiuti in modo tale da non mettere in pericolo la salute umana e l’ambiente.
Sono anche state già fatte proiezioni sul possibile ammontare della multa che è stata indicata dall’UE nella considerevole cifra di circa 256 mila euro al giorno, da versarsi nelle casse europee per ogni giorno di ritardo successivo alla sentenza della Corte.
Il diffuso e prolungato inadempimento di tutta la filiera dei soggetti pubblici chiamati ad un ruolo attivo nel sistema di gestione dei rifiuti non lascia ben sperare rispetto a questa e a future occasioni di censura da parte della UE.
Ma allora, non resta che dare la colpa al legislatore. Se è vero – come hanno sostenuto i giudici contabili nella vicenda ligure – che le responsabilità devono ridursi del 30% a causa della complessità della normativa in materia di rifiuti e le competenze di regolazione sono ripartite tra UE (direttive), Stato (principi, criteri e linee guida) e Regioni (regolazione dell’attività di gestione), è tra questi soggetti che va ripartito quel 30% di colpa. Ma se è così, possiamo sperare di convincere l’UE a farci uno “sconticino”? È lecito dubitarne.


[1] F. Cangelli, Il danno all’immagine della Pa: di chi è la colpa, chi paga davvero, in questa Rivista, 29 gennaio 2013.

[2] Peraltro la sentenza precisa che se il fondamento del danno all’immagine e alla reputazione era collegato al “fatto notorio della tragica vicenda dei rifiuti in Campania”, la contestazione specifica che ha poi condotto alla condanna non è, a ben vedere, la vicenda dei rifiuti in quanto tale, ma altra, diversa situazione, sia pure collegata, quale quella del mantenimento in condizioni di sostanziale inoperatività di gran parte dei lavoratori assegnati all’Ente Bacino NA 5. Se ne desume che, pur in assenza del Lodo Bernardo non si sarebbe pervenuti alla condanna per i danni non patrimoniali.

[3] Oggi la norma di riferimento è l’art. 1, comma 1 bis della legge n. 20/1994. Analoga disposizione è contenuta sia nell’art. 83 della legge di contabilità generale dello Stato, emanata con R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, sia nell’art. 19, comma 2, del TU degli impiegati civili dello Stato, emanato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3

Corte dei Conti, sezione per la Liguria, sentenza 83 del 13 marzo 2013

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