Da oggi per tre puntate parleremo dell’esperimento di Philip Zimbardo, uno psicologo statunitense. Un esperimento il suo stesso inventore perse totalmente il controllo, tanto che, a raccontarlo oggi, sembra quasi un prodotto di fantasia (da qui la scelta di trattarlo come tale dividendolo in tre puntate e lasciando di volta in volta un po’ di… suspence). Invece è tutto vero, anzi si è deciso di sorvolare su alcuni particolari delle punizioni corporali, troppo scabrosi.

Prima di iniziare con la descrizione dell’esperimento vorrei ricordare la mia teoria sul ruolo e il personaggio (in quanto tale esperimento ne fu in parte ispiratrice), ovvero come il ruolo sia più o meno socialmente definito, mentre il personaggio sia più o meno liberamente scelto. In termini più pratici, il ruolo è ciò che si è per la società e il personaggio è come lo si mette in atto.
In questo esperimento potrete quindi notare i seguenti punti (spesso in vario modo trattati nei miei articoli):
– L’importanza delle interazioni nello sviluppo dei ruoli e dei personaggi;
– Come possa essere estremamente rapida l’entrata nei ruoli e nei personaggi;
– Come l’entrata nei ruoli e nei personaggi sia estremamente stereotipata dalla cultura di appartenenza;
– Come i ruoli e i personaggi influenzino le decisioni e i comportamenti dell’individuo;
– Come i ruoli assunti possano dare vita a nuovi personaggi, ma anche come i propri personaggi possano dare vita a nuovi ruoli;
– Come ruoli e personaggi si influenzino continuamente e vicendevolmente;
– Come i ruoli e i personaggi possano talvolta diventare pericolosi e incontrollabili.

A questo punto non ci resta che passare all’incredibile esperimento.

Premessa sull’esperimento
L’esperimento fu attuato dal dottor Zimbardo nel 1971, presso la Stanford University, doveva essere un esperimento sulla vita di prigione che doveva dimostrare come il carcere sia una situazione intrisa di violenza tutt’altro che educativa per i prigionieri. Zimbardo era molto sensibile a tale argomento e ovviamente molto critico sul violento sistema carcerario.
Prima di iniziare con la descrizione dell’esperimento, bisogna sottolineare che furono presi dei soggetti sani che decisero spontaneamente di partecipare in cambio di un compenso in denaro. Ad essi furono dati a caso ruoli di guardie o carcerati. Il dottor Zimbardo stesso vestì i panni di un ruolo, ovvero quello di responsabile del carcere, scoprendo sulla sua pelle che in qualsiasi ruolo si decida di entrare si trova un sé fatto su misura e che il sé trovato nel ruolo rappresentato, si muoverà attraverso il personaggio che si vuole rappresentare in quel ruolo.
Vediamo nel dettaglio l’esperimento e come reagirono i soggetti.

L’inizio dell’esperimento
Il primo passo dell’esperimento fu l’arresto dei soggetti selezionati a caso per il ruolo di carcerati; per l’arresto venne chiesto l’aiuto della polizia, infatti una domenica mattina a Palo Alto, in California, una vera volante arrestò degli studenti universitari prelevandoli a casa, accusandoli della violazione 211 (rapina a mano armata) del Codice Penale e 459 (furto con scasso). L’arresto fu fatto nel più reale dei modi, compresa perquisizione, manette ai polsi e lettura dei diritti; tutto sotto lo sguardo indignato e/o incuriosito dei vicini.
Notate quale astuto modo sia stato usato per far catapultare questi ragazzi nel ruolo assegnatogli: l’interazione col pubblico. Era infatti stato sfruttato il messaggio che gli ignari passanti stavano ricevendo nel vedere i loro vicini arrestati e la visione di se stessi che essi avevano di rimando: osservati come criminali iniziavano già a sentirsi un po’ tali.
A sirene spiegate gli arrestati vennero portati in caserma e una volta giunti lì furono nuovamente informati dei loro diritti e schedati prelevando le impronte digitali. Furono bendati e fatti salire su un furgoncino per essere trasferiti nel “Carcere della Contea di Stanford”.

Il carcere
Questo “carcere” fu costruito nel seminterrato del Dipartimento di Psicologia di Stanford. Le “celle”, furono dotate di citofono con istallati microfoni nascosti, per spiare i discorsi dei prigionieri; i citofoni servivano comunque per fare annunci pubblici. Non c’erano orologi o finestre che potessero dare una cognizione del tempo, le porte furono fatte con sbarre d’acciaio e al di sopra di queste fu posto un numero; ogni “cella” ospitava tre persone.
Di fronte alle celle c’era uno stanzino, che divenne la cella di isolamento, fu infatti chiamato “Buco” in quanto buio e strettissimo, ci si poteva stare dentro solo in piedi. L’area comune, chiamata “cortile”, era un corridoio chiuso alle estremità con delle assi, qui i “prigionieri” potevano camminare, mangiare e fare esercizi fisici. Il bagno poteva essere raggiunto solo se accompagnati da una guardia e con gli occhi bendati (a volte capitò che le guardie misero i “prigionieri” in fila per il bagno con i sacchetti di pane in testa), questo per non far scoprire le possibili vie di fuga.

I prigionieri
Una volta arrivati in questo “carcere”, i “prigionieri” furono accolti uno alla volta dal “direttore”, che comunicò loro lo stato di arresto e la gravità del reato commesso.
Ogni prigioniero venne poi perquisito, cosparso di una sostanza contro germi e pidocchi, e fornito di “uniforme” numerata: una sorta di camicia da notte bianca, lunga fino a sotto il ginocchio e da indossare obbligatoriamente senza biancheria, inoltre era comprensiva di sandali di gomma e calze femminili di nylon da mettere in testa (come una cuffietta per capelli); alla caviglia destra dei prigionieri fu inoltre messa una pesante catena chiusa con lucchetto.
Ognuno di questi trattamenti iniziali fatti ai “prigionieri” fu fatto con uno specifico scopo ai fini della ricerca; come abbiamo già detto l’arresto servì per proiettare i ragazzi immediatamente nel loro ruolo. Gli antiparassitari furono spruzzati per dare un senso di umiliazione all’individuo, la stessa umiliazione che subisce un vero carcerato; lo stesso scopo aveva l’uniforme: l’obiettivo era di far provare a questi finti carcerati nel minor tempo possibile gli stessi stati d’animo che i veri prigionieri sviluppano negli anni, quali appunto umiliazione, oppressione e perdita della virilità. Per quanto riguarda la catena questa serviva a non dare vie di fuga ai “prigionieri” neanche in sogno. Infine le calze di nylon in testa, così come i numeri identificativi servirono per dare ai prigionieri una sensazione di perdita di identità, infatti i prigionieri erano costretti a chiamarsi per numero.

Le guardie
Passiamo adesso alle “guardie”: indossavano uniformi color cachi, portavano un fischietto al collo per richiamare all’ordine, manganelli e occhiali da sole a specchio che impedissero di vedere i loro occhi (e quindi le loro emozioni) contribuendo all’anonimato.
Le guardie furono divise in turni di lavoro, informate dell’importanza del loro compito e dei rischi possibili che a questo erano connessi, ma fu data loro la libertà di creare le regole del carcere, regole che furono supervisionate dal “direttore” David Jaffe, in realtà studente della Stanford University.
Vediamo quindi cosa accadde.

Primo giorno. Le prime punizioni
Il primo giorno le “guardie”, ma soprattutto i “carcerati” non sembravano ancora essere entrati nel pieno del loro ruolo, erano ancora confusi su cosa avrebbero dovuto fare. Eppure, ogni comportamento adeguato al ruolo nacque velocemente e spontaneamente. Ad esempio da subito cominciarono a punire i “prigionieri” scorretti facendo loro fare delle flessioni (più avanti, una delle “guardie” prese a salire con entrambi i piedi sulla schiena di coloro che eseguivano le flessioni); all’inizio questo comportamento fu giudicato dagli sperimentatori come non adeguato al contesto di una prigione, perché considerato una forma di punizione leggera e blanda, ma facendo delle ricerche vennero a scoprire che le flessioni sono proprio un tipo di punizione è sottoposti in alcuni carceri o in campi di prigionia, verificando già da subito che in realtà chi si trova in un ruolo saprà comportarsi come quel ruolo richiede e che inoltre chi è in un ruolo saprà comportarsi più adeguatamente a quel ruolo di chi lo sta solo osservando.
In questo giorno, come nei seguenti, venne fatta diverse volte la conta dei prigionieri, la prima fu fatta alle 2.30 del mattino svegliandoli bruscamente con forti fischi. Le conte avevano lo scopo di far memorizzare ai “detenuti” la loro nuova identità di numero, nonché di dare alle “guardie” la possibilità di esercitare il loro potere sui “prigionieri”.
In queste prime 24 ore non si verificarono incidenti di alcun tipo.

Secondo giorno. La rivolta inaspettata
Già la mattina del secondo giorno, con grande stupore degli sperimentatori, i “prigionieri” misero in atto una rivolta, strappandosi di dosso i numeri, togliendosi le calze di nylon dalla testa e barricandosi all’interno delle celle mettendo le brande contro la porta. I soggetti nel ruolo di prigionieri incominciarono quindi a ribellarsi alle autorità. A questo punto le “guardie” provarono un gran senso di rabbia e frustrazione, e quando arrivarono i loro “colleghi” del turno della mattina la situazione peggiorò, in quanto questi ultimi diedero la colpa dell’accaduto ai primi, accusandoli di essere state troppo buone.
Ecco come le “guardie” risolsero il problema: per prima cosa chiesero al “direttore” di chiamare le altre tre “guardie” rimaste a disposizione, queste erano in realtà altri tre soggetti che avevano deciso di partecipare all’esperimento, tenuti come riserve. Inoltre decisero di rimanere anche le guardie del turno di notte. Per rispondere alla rivolta presero un estintore (il quale si trovava all’interno dello stabile solo per motivi di sicurezza) e ne spruzzarono il contenuto, diossido di carbonio, all’interno delle celle; dopodiché fecero irruzione, buttarono fuori le brande, spogliarono i prigionieri, li minacciarono, li insultarono e misero i capi della rivolta in isolamento.
Adesso sorgeva però un altro problema, un problema che, seppur con numeri maggiori, si verifica anche nella vita reale: le guardie, per motivi di budget, non potevano sempre essere in nove ad ogni turno della giornata.
Come tenere buoni nove “detenuti” essendo in numero inferiore? La soluzione venne da una delle “neo-guardie”, che propose di servirsi di strategie psicologiche: fu allestita una cella premio, chiamata la “privilegiata”; chi era posto in questa cella aveva diritto a speciali trattamenti dovuti al suo buon comportamento; ad esempio nel caso della rivolta precedente, i tre prigionieri considerati meno coinvolti furono messi qui, rivestiti della camicia da notte (gli altri furono lasciati nudi) e fu fatto loro mangiare del cibo speciale davanti ai loro compagni che furono invece lasciati a digiuno.
L’obiettivo era distruggere la solidarietà all’interno del gruppo dei “prigionieri”. Infatti i capi della rivolta cominciarono a pensare che i “detenuti” privilegiati fossero delle spie e il fatto che nella cella privilegiata, nell’arco della stessa giornata, furono cambiati più volte i “detenuti”, fece sì che tutti cominciassero a sospettare di tutti. In seguito, gli sperimentatori vennero a sapere che realmente le guardie delle vere prigioni mettono in atto questi comportamenti per rompere le alleanze tra i detenuti. Infatti nelle carceri la più grande minaccia per un prigioniero viene proprio dagli altri prigionieri. Le guardie stimolano quindi realmente l’aggressività dei prigionieri, ma al tempo stesso spostano il focus di questa, da loro agli altri detenuti.
La rivolta del secondo giorno ebbe l’effetto opposto sulle “guardie”, creando nel loro gruppo un maggiore clima di solidarietà. Improvvisamente, grazie all’interazione tra i due gruppi, i ruoli erano completamente stabiliti, non si trattava più di un esperimento: le “guardie” consideravano i “prigionieri” come veri prigionieri, veri agitatori sempre pronti a far danno e a creare noie, rispondevano quindi a questo senso di minaccia imminente con comportamenti sempre più aspri e aggressivi.
Di contro i “prigionieri” con la loro rivolta avevano già dato la dimostrazione che incominciavano a sentire le “guardie” come vere autorità che ledevano la loro libertà, ma da adesso cominciarono a vederle sempre più come dittatori. La maggior parte incominciò quindi a sottomettersi all’autorità, fomentando ancora di più il comportamento dittatoriale nelle guardie, queste infatti subirono un condizionamento operante, dove il premio della loro severa autorità era la sottomissione del nemico.
Qualsiasi comportamento divenne quindi sotto il totale controllo delle “guardie”, anche andare in bagno poteva essere concesso o no, a piacere di queste ultime. Inoltre dopo le 22, momento in cui si spegnevano le luci, i “prigionieri” erano obbligati a fare il loro bisogni in un secchio all’interno della loro cella, e a volte non avevano neanche il permesso di svuotare questi secchi. La “prigione” in poco tempo cominciò a puzzare terribilmente dando ancora di più un senso cupo di degrado e oppressione.

Il leader della rivolta
Come ogni gruppo anche quello dei “prigionieri” ebbe un leader, questi era il numero 5401, il quale fu l’organizzatore della rivolta.
Contro costui le guardie si accanirono particolarmente. In seguito, leggendo la posta dei “prigionieri” si scoprì che era un attivista radicale, che aveva partecipato all’esperimento con l’errata convinzione che fosse stato ideato per controllare gli studenti con, appunto, idee radicali. Il suo intento era quindi di rivelare l’esperimento e di venderlo ai giornali. La convinzione che tale esperimento fosse stato fatto proprio per tenere a bada gli studenti come lui, fece sì che egli si calasse particolarmente nel ruolo di carcerato, tanto da essere orgoglioso (come scrisse in una lettera alla sua ragazza) di essere stato eletto leader del “Comitato di Rivolta del Carcere della Contea di Stanford”: il ruolo di carcerato stava agendo a seconda di quello che gli dettava il suo personaggio di studente radicale. (fine prima parte – continua)

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